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Blog Entries pubblicato da M&M

  1. M&M

    Recensioni : orchestrale
    Musiche per orchestra d'archi di Elgar, Britten, Warlock e Jenkins
    Meramorphosen Berlin direttore Wolfgang Emanuel Schmidt
    Sony Classical 13 agosto 2021, formato HD via Qobuz
    ***
    Anche per ferragosto qualche buona novità esce.
    In generale non sono molto inclinato verso le formazioni tedesche alle prese con la musica contemporanea inglese, mi risultano spesso un pò troppo compassate.
    Qui il programma è ricco : 23 tracce, un'ora e 17 minuti.
    La Serenata per Archi Op. 20 di Elgar insieme ai pezzi per violoncello ed archi secondo l'arrangiamento dello stesso Schmidt che li esegue

    a seguire le più interessanti Simple Symphony di Britten e la Capriol Suite di Peter Warlock.
    La serenata è un pezzo tardo romantico molto intimista, composto ed eseguito nel 1892.
    Ma si tratta di musica già "superata" all'epoca che si rifà ai modelli di Dvorak (sotto la cui direzione Elgar suonò il violino) e di Chaikowsky.
    Però resta uno dei pezzi più eseguiti di Elgar insieme alla musiche "imperiali", marce etc. etc.
    Son più salottieri ed estroversi - ma leggeri - i pezzi seguenti, intesi per violino e pianoforte secondo il modello della canzone senza parole.
    Qui nella trascrizione per violoncello ed orchestra sono certamente sontuosi.
    Ma andiamo ad altro genere di musica, la straordinaria "Simple Symphony" di Britten è un'opera giovanile, concepita nel 1934 che si può in qualche modo assimilare alla Classical Symphony di Prokofiev.
    Il materiale tematico è tantissimo e notevolissimo, due temi per ognuno dei quattro brani.
    La forma strutturale resta quella della serenata per archi e Britten pesca dal passato - i richiami e le citazioni si sprecano - ma ritmi ed articolazione sono modernissime, sebbene la forma arci-classica.
    Finale incandescente con una danza inarrestabile, ritmata con gli archi che ballano una voce attorno all'altra.
    Arriviamo così alla celebre Capriol Suite di Peter Warlock, personaggio molto complesso e controverso del periodo tra le due guerre.
    Qui abbiamo una suite di temi elisabettiani, periodo di cui Philip Heseltine (il nome dell'autore che firmava le sue composizioni come Peter Warlock) era ostinatamente ossessionato.
    La composizione è del 1926, i temi sono di danze della fine del '500 ma la struttura musicale, quella dell'Inghilterra che si ostina a credere nelle sue tradizioni contro quelle continentali di Berlino e di Vienna.
    Il risultato è un affresco che teletrasporta nel XVI secolo dipingendone con colori moderni lo stile e la galanteria.
    Credo che sia l'apice di questo disco, l'eleganza con cui il Metamorphosen si approccia con delicatezza ad ogni frase con una dinamica che spazia dal piùchepianissimo al fortissimo con grande rapidità e naturalezza.
    Ritmo e velocità sono adattissimi e l'amalgama della raffinata tessitura contrappuntistica di Warlock sono sublimate al massimo.
    Un disco che dipinge un'era che si è chiusa sostanzialmente con lo scoppio della seconda guerra mondiale, quando anche i musicisti inglesi hanno dovuto fare i conti con il secolo breve.
    Come è breve l'ultimo movimento della Suite di Warlock che poi improvvisamente lascia il posto a .... lla pubblicità della De Beers, ovvero all'allegretto di quella specie di Concertone scritto da Jenkins (classe 1944, quindi un compositore che non ha più radici comuni con i suo colleghi più anziani, Elgar e Warlock già morti da un pezzo quando è nato e Britten già affermato) scritto nel 1993 per "i diamanti sono per sempre" ...
    Complessivamente un bel disco che vi suggerisco se non conoscete questa musica.
    Di ogni brano - tranne l'ultimo - potrei anche suggerirvi alternative ma non stiamo a sottilizzare, pur essendo tedeschi, questi suonano in modo abbastanza "Very British"
    Registrazione di buon livello.
     
     
     
  2. M&M

    Bach Kantatenwerke
    Cantata per la 12a domenica dopo la Santissima Trinità
    Eseguita per la prima volta alla Thomaskirche di Lipsia il 15 agosto 1723 e poi successivamente il 31 agosto del 1727.

    Solisti: Soprano, Alto, Tenore, Basso;
    Orchestra : Coro a 4 voci, 3 trombe, timpani, flauto, 2 oboi, fagotto, 2 violini, viola, continuo
    "Lobe den Herrn, meine Seele,
    und vergiss nicht, was er dir Gutes getan hat!"
    "Loda il Signore, anima mia,
    e non dimenticare quanto bene ti ha fatto!" (Sal 102,2)
     
    Questa Cantata fu scritta, secondo le fonti, per l'inaugurazione del consiglio comunale di Lipsia nel 1723, e poi utilizzata per le funzioni religiose della domenica immediatamente successiva.
    La cantata fu poi rivista intorno al 1743 - o comunque tra il 1743 e il 1750, e usata per le stesse due occasioni. Furono cambiati i recitativi, e il corale alla fine, e il risultato fu la nuova Cantata BWV 69.
    Il coro polifonico iniziale dura quasi 5 minuti ed è tra i più gioiosi di tutte le cantate bachiane. Le voci sono contrapposte sia nel tutti che nel solo, con le trombe che entrano in sordina dialogando ma senza sovrastarle.
    Ci sono due fugati senza svolgimento completo, uno corale, uno strumentale. Si conclude con un da capo da manuale con squillo di trombe per una perfetta simmetria.
    Segue un breve recitativo del soprano con accompagnamento de continuo (meglio organo).
    Poi l'aria del tenore che riprende il testo Meine Seele, accompagnato dai fiati (flauto dritto, i due oboi e il fagotto).
    Un altro recitativo, più lungo, del Contralto accompagnato.
    Quindi la bella aria del basso, ancora con i fiati e gli archi.
    Il coro finale é solenne ma non trionfale come quello iniziale e dura nemmeno un minuto. Le trombe stanno in silenzio ed è l'organo che porta la struttura della melodia, senza fioriture né orditura polifonica.
     
    Delle registrazioni che conosco, a mio gusto si staglia quella eccezionalmente frizzante di Gardiner, nel ciclo del Pilgrimage, registrata nel settembre 2000

    la copertina di Steve McCurry per il Vol. 6 del Bach Pilgrimage di Gardiner con Monteverdi Choir e English Baroque Soloists.
    I tempi sono veloci, il primo coro eccezionale, l'ultimo quasi una pausa di riposo, meno interessanti i recitativi, buone le arie.

    Più solenne e controllata la versione di Suzuki, registrata nel 1999 per la Bis ed inclusa nel volume n. 13 dell'integrale.

    Il coro iniziale, in particolare, descrive meglio il moto ellittico delle evoluzioni polifoniche ma senza l'esplosione pirotecnica di gioia di Gardiner.
    Anche quello finale è solenne ma sempre composto.
    Io tendo a preferire le voci femminili, per cui preferisco questo recitativo del contralto a quello maschile di Gardiner e in effetti c'è più eleganze in generale nella visione di Suzuki.
     

    la Cantata BWV 69a è contenuta nel Vol. 6 dell'integrale di Ton Koopman per Erato, registrata nel 2005
    Nel complesso la cantata è quasi sussurrata, gentile, onesta e modesta.
    Le due arie di ottimo livello, la prima quasi pastorale.
    Il coro finale sembra però natalizio, insomma come se Koopman si fosse sbagliato nelle stagioni, anche l'organo indugia su registri pastorali.

    Das Kantatenwerk Vol. 18, Harnoncourt, Teldec
    Mi perdonerà invece la buonanima di Harnoncourt ma la sua versione del 1976 per è completamente inascoltabile e quasi irriconoscibile tanto è lenta e "processionale".
    Non ne conosco altre, ho ascoltato la 69 nell'edizione storica di Rilling (al solito molto scarsa sul piano della registrazione) mentre non ho o non trovo quella più moderna della 69a registrata insieme al Magnificat 243a con cui certo ha molto in comune.
    ***
    Una cantata che vive per il suo coro iniziale e che completa la forza trascinante di questo con due arie interessanti e un coro finale che è solo una cesura.
    Per questo, pur apprezzando moltissimo sia le edizioni di Suzuki che di Koopman, tendo a preferire l'ascolto frizzante del primo coro di Gardiner.
  3. M&M

    Recensioni Cuffie
    Risale a diversi decenni fa la mia passione per le cuffie Stax.
    Il primo ascolto fu con un modello entry-level, forse le SR-34 non mi ricordo più, in un negozio in metropolitana a Milano che non esiste più da un sacco di tempo.
    Ascoltai per intero il secondo concerto di Brahms con Ashkenazy accompagnato da Solti.
    L'effetto fu elettrizzante. Non avevo idea che si potesse ascoltare ad un livello tale, ben superiore ad ogni diffusore che avevo visto sino ad allora.
    Soprattutto la neutralità e la naturalezza di emissione e la facilità di ascolto, senza alcuna fatica. Potendo distinguere ogni singolo strumento.
    Le cose poi non vanno come si immagina e le cuffie con cui ho avuto la più lunga frequentazione furono invece le venerande AKG K340, molto differenti salvo il fatto che la via medio-alta di quelle cuffie ... era elettrostatica.
    Molti anni dopo (ma comunqu molti anni fa) soltanto sono entrato in possesso di un sistema Stax all'altezza delle mie aspettative, mio sistema di riferimento fino a qualche mese fa.
    Si tratta delle SR-404, versione Signature, modello medio della serie Lambda, accoppiate con l'amplificatore/elevatore di tensione, Stax SRM-006T.
    Cominciamo proprio da questo apparecchio che mi permette di scrivere qualche appunto sulle cuffie elettrostatiche.
     
    Le cuffie elettrostatiche
    Sono trasduttori che appartengono alla famiglia dei planari (ortodinamiche) come le magnetostatiche.
    Un sottilissimo diaframma di materiale plastico trasparente è polarizzato ed immerso in un campo elettrostatico generato da armature caricate elettronicamente.
    La differenza rispetto alle magnetostatiche sta principalmente qui (queste ultime hanno un campo magnetico permanente) e nella necessità di avere un amplificatore dedicato che produca anche la tensione necessaria a generare il campo magnetico necessario al funzionamento.
    Senza sarebbero mute.

    Le mie Stax SR-404 signature posate sul loro amplificatore

    il frontale champagne del mio Stax SDM-006t a valvole.

    qui il dettaglio dei pulsanti e degli attacchi per i cavi. E' possibile collegare fino a tre cuffie contemporaneamente.
    Il controllo di volume incorpora anche un controllo di livello (sono sostanzialmente due potenziometri coassiali indipendenti).
    Il dispositivo riceve il segnale da una doppia entrata linea, sia bilanciata che sbilanciata, passante per connettere eventualmente qualcosa d'altro in cascata. C'è addirittura una presa per la terra, in caso si colleghi un giradischi.
     

    ovviamente, le cuffie Stax hanno una configurazione completamente bilanciata già a partire dall'amplificatore, per cui l'unica cosa sensata è utilizzare l'ingresso bilanciato.
    Questo amplificatore ha una topologia ibrida, con stadio pilota a valvole e stadio finale a transistor, tutto in classe A.

    le due valvole hanno un cupolino sulla parte superiore del telaio con i forellini per favorire la ventilazione.
    Nel funzionamento l'amplificatore scalda moltissimo ma il meglio di se lo dà proprio quando è molto caldo.
    Ogni dettaglio è ben strutturato, ben costruito, ben congegnato. Dà sicurezza già a partire dall'aspetto.
     
    Dai connettori, proprietari di Stax e praticamente uno standard (anche HIFIMAN per le sue elettrostatiche utilizza la stessa configurazione) parte sia il segnale bilanciato, che la tensione di alimentazione delle armature elettrostatiche.

     
    Come sono fatte le cuffie
    Hanno la tipica struttura delle Stax serie Lamba, il cui primo modello ha oramai quaranta anni (e ci sono esemplari che ancora funzionano perfettamente).
    La costruzione è interamente in plastica. Tranne i padiglioni e la fascia sotto l'archetto che sono in pelle.



    il marchio Signature sull'archetto. Notare il segno dello stampo della plastica. Pessimo l'accoppiamento dei colori, verde, rosa, argento, marrone ?
    Per un italiano è un vero colpo in un occhio ... !

    anche il marchietto del modello è in rosa, posto sopra al padiglione.
    L'archetto è smontabil ed intercambiabile.


     
    i due padiglioni sono sostanzialmente identici. Se smontati bisogna poi riconoscerli ad occhio perchè non c'è un marchio che ricorda quali siano i canali (entrambi sono alimentati dal cavo di collegamento allo stesso modo e solo sull'archetto ci sono le indicazioni dei due canali Right e Left).

    l'imbottitura è morbidissima, la pelle è vera. E' intercambiabile (infatti io ho sostituito entrambi con un ricambio nuovo fatto arrivare dal Giappone).

    la sagoma trapezioidale del singolo trasduttore.

    l'interno del padiglione.
    I due lati sono schermati e le due armature protette da una struttura metallica.
    Non ho mai infilato le dita ma credo siano protetti da intrusioni.
    Nel complesso comunque la costruzione si presta a svariate critiche.
    Le plastiche non sono robuste, l'insieme un pò precario.
    Al di là dell'estetica - certamente discutibile per gusto ed assieme - è proprio la fattura che non sembra a livello dello status del marchio e del prezzo preteso (considerate che un paio di STAX SR-404 Sn usatissime costano 1300-1500 euro ancora oggi ...).
    Però sinora non mi hanno abbandonato e devo anche ammettere - al netto dell'invecchiamento dei miei timpani - che suonano sempre come il primo giorno, nonostante l'età.
    Le SR-404 sono chiaramente fuori produzione, sostituiti da modelli più recenti.
    La serie LAMBDA si differenzia dalla serie OMEGA già a partire dalla struttura.
    Le OMEGA hanno il padiglione circolare, sono in metallo. Costano un botto.
    E sono considerate da tutte il rifermiento da sempre per le cuffie di ogni livello.
    Le Lambda non sono a quelle livello ma sono genuinamente tra le migliori cuffie che si possano ascoltare.
     
    L'ascolto
    Le cuffie elettrostatiche STAX sono famose per la loro analicità, trasparenza, neutralità. Suono cristallino.
    Per anni sono state usate negli studi di registrazione CBS in America, almeno finchè non è arrivata Sony a comperarsi tutto quando.
    Non lo sono invece per la loro estensione, almeno non le LAMBDA.
    Il suono è dichiaratamente monitor, con una grande presenza delle medie e un impatto che è fortemente a favore dei solisti che risultano sempre perfettamente in primo piano.
    Ne è prova la misura della risposta in frequenza, eseguita con i microfoni miniDSP Ears e il programma REW
    Un canale solo
     

    due canali ad un livello di ascolto tipico.

    le differenze di livello tra i due canali sono probabilmente da ascrivere al controllo di livello o ad una imperfetta pressione dei padiglioni sulle orecchie artificiali.
    Nulla di distinguibile all'ascolto, considerando che tutto è perfettamente regolabile.
    La misura conferma una estensione ridotta sulla gamma bassa, il medio basso con un evidente "gonfiore", la gamma delle voci in netta evidenza, l'alto in ritirata e l'altissimo non esageratamente tormentato (come invece si vede in molte cuffie dinamiche con trasduttori metallici).
    La prova sta ne pudding, cioè nell'ascolto.
    Voci femminili, cori, strumenti a fiato, archi, tutto in evidenza.
    Basso acustico bello pieno, basso estremo non allo stesso livello.
    Violini setosi, clarinetti sottili, oboi nasali.
    L'immagine non è la loro caratteristica principale. Il suono si sente nelle due orecchie e sopra la testa, nonostante la forma asimmetrica e trapezioidale dei due trasduttori possa far pensare diversamente.
    La grande orchestra si perde di impatto e la collocazione degli strumenti un pò artificiosa.
    Ma continua ad essere estremamente affascinante la facilità con cui si individua perfettamente ogni singolo strumento, anche nella tessitura più complessa e numerosa.
    Se dovessi dire per cosa sono più indicate, sceglierei certamente le voci femminili e la musica da camera in generale.
    Il coro anche, sebbene manchi un pò di corpo nei bassi più potenti.
    L'organo proprio non è per loro, diventa troppo esile.
    E nonostante certi commmenti, assolutamente inadatte ad ogni genere che non sia acustico, pulito, naturale.
    Soprattutto due caratteristiche, la naturalezza complessiva dell'ascolto, una volta fatta la tara al suono di tipo "monitor" e ad un certo deficit nella parte bassa dello spettro, e specialmente l'assenza di fatica d'ascolto e l'assenza di fatica fisica nel tenere le cuffie in testa che nemmeno dopo otto ore vi faranno venire voglia di metterle via.
    La bassissima distorsione, almeno da 100 HZ in su, tende a farti prendere la mano con il volume a livelli poco salutari per le orecchie.
    Forse alla ricerca di un pò di più di musica in basso ma senza successo.
    Non sono cuffie che sopportano tanta potenza e l'equalizzazione abbastanza inutile, perchè quanto poteva essere fatto per compensare i limiti del trasduttore, è già stato fatto in fabbrica.
    In sintesi
    Io le adoro ma non sono cuffie adatte a tutto (nella realtà non ci sono cuffie adatte ad ogni genere musicale).
    Impagabili con la musica da camera e la voce accompagnata da pochi strumenti, non riescono a dipanare la grande massa orchestrale.
    C'è anche una certa artificiosità, tipica dell'impostazione da monitor, che vi fa immaginare di non essere di fronte all'evento reale ma nella sala da registrazione.
    I singoli strumenti sono così dettagliati ed isolati che vi sembrerà di avere da vanti la console dell'ingegnere del suono.
    E' una sensazione unica che non riesco a descrivere oltre e che bisognerebbe provare se avete ... orecchie adatte.
    Alla ricerca di qualche cosa di più universale, dal dicembre scorso ho acquistato le HIFIMAN Arya che, pur non essendo elettrostatiche, hanno un suono che coniuga alla perfezione - per il mio gusto - l'analicità estrema delle elettrostatiche, con una tenuta in potenza e una capacità di impatto più da dinamiche, benchè l'impostazione sia simile.
    Ma so che prima o poi cercherò altre elettrostatiche perchè è difficile non immaginare che la tecnologia intanto si sia raffinata.
    Certo queste Stax SR-404 resteranno per sempre con me.
    PRO
    totale assenza di fatica di ascolto suono trasparente, dolce, naturale, privo di asperità sensazionale capacità di identificare perfettamente ogni singolo strumento rispetto a tutto il resto del tessuto sonoro leggere da portare anche per ore e ore e ore l'amplificatore è di qualità assoluta CONTRO
     
    costruzione ed estetica decisamente criticabili estensione carente lato basse suono monitor con le medie in avanti e in generale i solisti in primo piano l'amplificatore - indispensabile per il loro funzionamento - scalda parecchio l'immagine della scena sonora non è propriamente il loro punto di forza, sebbene sia perfettamente identificabile ogni singolo punto sonoro, non si ha mai l'impressione di essere davanti ai veri musicisti in sala, ma ad una loro ricostruzione olografica al servizio dell'ascoltatore. Quasi una scena 3D al posto di una concretamente reale. hard rock, heavy metal, techno, registrazioni "pompate" decisamente non sono roba per loro molto, molto costose  
  4. M&M

    Recensioni Cuffie
    HIFIMAN HE400i V2
    Sono a lungo stato attratto da queste cuffie, sin dalla prima edizione del 2014 se non ricordo male.
    L'arrivo delle Sundara che idealmente le sostituiscono ha fatto calare i prezzi ad un livello tale che non potuto cedere alla tentazione.
    Infatti io ne ho approfittato ed ho comprato direttamente dallo store HIFIMAN un modello aggiornato (la i sta per improved) e nella versione 2.
    Gli aggiornamenti rispetto alla prima versione sono tanti e tali che rendono del tutto insensato l'acquisto della precedente.
    Innanzitutto è stata migliorata del tutto la meccanica, con il nuovo archetto molto più robusto e ci sono i nuovi pad.
    Sono anche stati cambiati i connettori del cavo di collegamento che non hanno più la vite ma dei normali spinotti.
    Ho atteso di rodarle per oltre sei mesi, ascoltandole in parallelo alle mie HIFIMAN Arya - le mie cuffie di riferimento attuali - e per un breve periodo di tempo, alle HIFIMAN Sundare (due modelli di cui ho parlato già).
    Confermo l'impressione di fondo, tolte le elettrostatiche (sono un estimatore delle cuffie Stax da quando ... ascolto musica ... una quarantina di anni, insomma) non c'è storia tra le cuffie magnetoplanari e la gran parte di quelle tradizionali. Almeno per quanto riguarda la musica classica o in generale quella acustica.
     


    il nuovo archetto, molto più robusto, è simile a quello delle Sundara






    il cavo stock è di ottima qualità, probabilmente le cuffie si gioverebbero di un cavo bilanciato, ma vista la proporzione di spesa non ho ancora pensato di fare l'upgrade

    il connettore di collegamento sulla presa sbilanciata del mio Audio-GD R28



    anche i padiglioni sono stati migliorati e pure le protezioni metalliche esterne, molto robuste.
    Dovrebbe essere passato definitivamente il tempo in cui molti utenti lamentavano rotture meccaniche delle prime HE500 ed HE560 delle prime serie.
     
    ASCOLTO
    Cominciamo come di consueto dalla misura della risposta in frequenza (un canale solo) misurata tramite i microfoni Minidsp Ears e il programma REW

    risposta in frequenza

    distorsione
    noterete una notevole risposta lato basse frequenze, il classico avvallamento intorno ai 1800 Hz e l'aumento di sensibilità alle alte frequenze.
    Alla prova di ascolto ho avuto conferma di questa misura, ottenendo un suono piuttosto pieno sulle basse, appena indietro sulle voci, con altissime frequenze in evidenza (almeno quando nel programma musicale c'é musica così in alto).
    Nel complesso non ho avuto un reale bisogno di equalizzarle (sebbene abbia preparato una classica compensazione della risposta secondo lo standard Harman), salvo alle volte rialzare i 1500 Hz ed attenuare un pò le altissime.
    A differenza delle Sundara che ho trovato sin da subito piuttosto secche, magre ed aspre, queste cuffie sono molto gradevoli all'ascolto e prediligono la musica sinfonica, il pianoforte e il jazz acustico.
    Non sono il massimo per la voce femminile e per la musica cameristica, ma la tonalità scura e tendenzialmente grassa della risposta me le fanno ampiamente preferire alle più recenti Sundara, migliori sul piano della costruzione, più stancanti (senza equalizzazione) su quello dell'ascolto.
    Come sospettavo, con le Arya non c'è confronto, e naturalmente non c'è nemmeno con le mie Stax SR404S, almeno sulle voci e sugli archi nella cameristica.
    Ai prezzi attuali le ritengo comunque un affarone, dato che è ancora possibile trovare almeno oltreoceano degli esempali nuovi di magazzino a prezzi eccezionali (al lancio erano sui 400 euro e anche di più, in linea con il prezzo attuale delle Sundara).
    CONCLUSIONI
    PRO
    suono abbastanza ben bilanciato, importante, sostenuto da un basso ben esteso e potente, non troppo aggressive sulle alte, voci indietro costruzione migliorata rispetto alle prime versioni prezzo/qualità imbattibile l'estetica è degna di cuffie di fascia superiore e più importante CONTRO
    il padiglione è piccolo, quello delle Sundara è più comodo. Io non ho orecchie grandi ma dopo un pò mi danno fastidio perchè mi sento "costretto" ed afflito e corro a rimettermi le mie Arya la sensiblità è bassa e sebbene l'impedenza sia da considerare facile da pilotare, richiedono una amplificazione capace e importate (non risparmiate MAI sull'amplificatore per le cuffie e prendete sempre uno che possa pilotare anche cuffie ben più complicate delle vostre) non sono cuffie da effetto wow e come - imho - tutte le magnetostatiche, non sono adatte ai generi elettronici e più moderni che si gioveranno sempre di monitor dinamici molto sensibili

  5. M&M
    Lo Zara, ammiraglia della I Divisione Incrociatori della Regia Marina in navigazione verso quella che sarà la fatale notte di Capo Matapan
     
    ***
    Sono 80 anni oggi che ricordiamo i fatti accaduti tra Gaudo e Capo Matapan nel 1941 durante le operazioni collegate con gli scontri terrestri per il controllo della Grecia e la guerra dei convogli nel Mediterraneo.
    Per decenni ci siamo sorbiti la favola dell'inadeguatezza della nostra marina, dell'assenza di radar e di aviazione navale. Dell'imprecisione delle nostre artiglierie.
    Tutte cose vere, naturalmente. Ma anche in un mare piccolo come il Mediterraneo Orientale, un paio di radar e qualche aerosilurante biplano non avrebbero fatto tutta questa differenza se chi dirigeva le operazioni non avesse saputo in anticipo i piani dell'avversario.
    E' un fatto risaputo che le informazioni fanno sempre la differenza, ai tempi di Giulio Cesare come in quelli di Jeff Bezos e Joe Biden.
    Quindi la Regia Marina Italiana che usava la macchina Enigma per la crittografia dei propri messaggi non poteva sapere che gli inglesi sapevano invece con precisione i piani di navigazione già tre giorni prima della partenza delle navi italiane per una semplice puntata a caccia di convogli di rifornimenti inglesi diretti nel Peloponneso "da affrontare se in condizioni di superiorità per distruggere i cargo e la scorta per poi tornare rapidamente alle basi".
    La dura verità era che la Regia Marina era in inferiorità materiale, come dimostrato anche dopo l'attacco di Taranto e che poteva fare poco contro una marina abituata a sfruttare ogni piccolo vantaggio da secoli.
    Ma sapere i piani del nemico con precisione, anziché doverli intuire, costituiva un beneficio decisivo, in questo caso, persino non indispensabile, dato che non sappiamo se l'azione italiana avrebbe avuto il successo sperato.

    la RN Vittorio Veneto, ammiraglia della flotta italiana, in livrea mimetica all'epoca dei fatti di Capo Matapan
    A Bletchley Park c'era un ufficio apposito che si occupava dei messaggi italiani e da poco si era costituito un gruppo di lavoro tutto composto da giovani ex-studentesse.
    Con l'impiego delle tecniche messe a punto dai matematici guidati da Turing, fu abbastanza banale decifrare i dispacci sia prima che durante il raid italiano.
    Così l'ammiraglio inglese poté preparare una trappola presentandosi con tutta la flotta al completo ad attendere la sola Vittorio Veneto con la sua scorta.
    Il danno, riparabile, all'ammiraglia, pregiudicò subito l'azione che poi precipitò quando il Pola fu immobilizzato. E per tentare di salvarlo, di notte, venne esposta al tiro l'intera divisione di incrociatori.
    Beffa, oltre al danno, il siluramento dello Zara colpito dal tiro ravvicinato delle navi da battaglia inglesi guidate nel buio dal radar, mentre si stavano predisponendo le azioni di evacuazione dell'equipaggio. Con il pesante pagamento in vite umane oltre che in navi che ben conosciamo.
    80 anni dopo abbiamo una flotta alleata degli inglesi, con cui condividiamo l'impostazione di portaerei, che ora abbiamo e di impiego degli aeromobili, F-35 ed Harrier che sostituiscono quegli schifosi biplani siluranti, buoni come puntaspilli se pizzicati da un caccia ma che comunque tanto male ci fecero.
    Ma il fair-play non vale in guerra. Specie se dall'altro lato ci sono gli anglo-sassoni.
  6. M&M
    Louise Farrenc : sinfonie n. 1 e n. 3 - Insula Orchestra/Laurence Equilbey
    Erato 9 luglio 2021
    ***
    Louise Farrenc - nata Dumont - alla sua epoca (1804-1875) era una musicista famosa e ben considerata in tutta Europa.
    Dimenticata dopo la sua morte, la riscopriamo solo in questi anni per l'opera di rivisitazione delle compositrici romantiche e tardo romantiche in corso.
    Più fortunata di altre sue colleghe, almeno in ambito familiare, perchè messa in grado di studiare musica da una famiglia di artisti (il padre e il fratello erano noti scultori parigini), potendosi formare alla scuola pianistica di Clementi e prendendo lezioni direttamente da virtuosi come Moscheles e Reicha. Il marito, il flautista Farrenc, la incoraggiò a sviluppare la sua carriera sia di insegnante di pianoforte - ebbe la cattedra al Conservatorio di Parigi per trenta anni - che di editrice musicale.
    La Éditions Farrenc, che divenne una delle più importanti case editrici musicali della Francia per gli ultimi 40 anni.
    Le sue composizioni sono varie e in tutti i generi, tranne l'opera lirica.
    Tra il 1820 e il 1830 esclusivamente per pianoforte. Dal 1834 anche per orchestra, ed insieme, musica da camera.
    Ci restano 49 composizioni, tra cui spiccano quintetti e trii, tre sinfonie - scritte tra il 1942 e il 1847, molte pagine per pianoforte.
    Lodata da Schumann e da molti critici, nonostante l'ostica accoglienza della musica in quanto scritta da una donna e considerata all'epoca, per lo più una curiosità.
    La terza sinfonia vedrà la prima al Conservatorio di Parigi nel 1849 ma la prima per ottenere una accoglienza felice fu fatta debuttare a Bruxelles.
    Il Conservatorio era il tempio di Beethoven e difficilmente venivano accolte composizioni di autori contemporanei, meno che meno di donne.
    Il debutto di una sinfonia di una contemporanea, per di più insegnante alla stessa scuola di musica è stato certamente il più elevato tributo che potesse esserle rivolto da una società non tenera con i debuttanti in generale e dove i fiaschi erano concretamente sonori.
    Ascoltata oggi, molta della sua musica, specie quella cameristica potrebbe essere facilmente liquidata come Biedermeier ma sarebbe uno sbaglio.
    Considerando ciò che circolava negli anni 30-40 dell'800, ascoltando con attenzione, le sue pagine richiamano Beethoven e Schubert nelle scelte tecniche e nei colori e possono essere facilmente accostate al miglior Mendelssohn.
    Il nonetto in particolare venne acclamato da critica e da pubblico, con la partecipazione alla prima esecuzione di Joseph Joachim come primo violino.
    Diciamola conservatrice, senza la verve iconoclasta di Berlioz ma intensamente originale una volta fatta mente locale sull'esatto periodo storico.
    La terza sinfonia in sol minore, presente in questo disco, è particolarmente densa di materiale tematico e il suo sviluppo è di primordine.
    Se pensiamo alla povertà delle pagine orchestrali di Chopin o del primo Liszt, entrambi avrebbero dovuto prendere lezioni dalla Signora Farrenc.
    Negli adagi si sentono temi di stile operistico, lo scherzo richiama Berlioz mentre il finale sarà piaciuto molto a Schumann perchè ci sono tutte le sue soluzioni, più un pizzico di Mozart e di Beethoven.
    Questo album è il primo volume della serie completa di tre Sinfonie di Louise Farrenc dirette da Laurence Equilbey a capo dell'Orchestra dell'Insula, orchestra che lei stessa ha assemblato per esplorare un repertorio poco conosciuto, in particolare per portare alla luce opere del grande dimenticato compositori come Fanny Hensel-Mendelssohn o Clara Schumann.
    Compito impegnativo ma per cui le siamo particolarmente grati.
    Ammetto che non avevo mai sentito nominare questa musicista ed ho invece trovato motivo di apprezzarla molto.
    Per cui vi segnalo questo disco molto al di là della semplice curiosità.

    ritratto ad olio di Louise Farrenc, 1835, Luigi Rubio

    Laurence Equilbey alla testa della Insula Orchestra
    Registrazione equilibrata con un ottimo apporto di bassi e percussioni che mette in mostra il piglio vigoroso dell'interpretazione.
  7. M&M

    Recensioni : Musica da Camera
    Amy Beach : Quintetto op. 67 - 1907
    Samuel Barber : Dover Beach Op. 3 - 1931
    Florence Price : Quintetto - 1935
    Kaleidoscope Chamber Collective
    Chandos 28 maggio 2021, formato HD
    ***

    autografo del quintetto Op. 67 di Amy Beach
    Fortunatamente non possiamo più considerare una sconosciuta la Grande Amy Beach, probabilmente la più genuina brahmsiana che ci sia stata.
    Lo stesso del suo quintetto Op. 67, pluri-registrato anche da formazioni con un solido palmares.
    Si tratta di una composizione praticamente fuori dal suo tempo eppure intimamente originale che crea un'atmosfera tutta sua.
    In alcuni casi avvicinato a pagine di Elgar, è invece più melodico, sognante seppure sempre energico.
    Vivo dalla prima all'ultima pagina va oltre il suo modello per la sua brillantezza.
    Dopo una parentesi - francamente a mio gusto dispensabile di Samuel Barber - segue un inedito di Florence Price, ritrovato fortunosamente in una soffitta della sua vecchia casa solo nel 2009.
    Non deve sorprendere in quanto sono parole della stessa Price in vita lei ha dovuto affrontare "due handicap: quelli del sesso e della razza", e gran parte della sua musica è rimasta inedita al momento della sua morte.
    Siamo nel 1931 ma la musica è ancora più conservatrice e puramente romantica ancora dell'altro quintetto presente in questo disco. Più melodico con una impronta afroamericana portata da echi di stirituals.
    Il terzo movimento è peraltro una juba, danza tipica delle piantagioni del sud, qui ritmata con il piano quasi in tempo di ragtime.
    Finale un pò sopra le righe, si tratta comunque di una composizione piuttosto interessante, anche questa tipicamente americana, almeno per il nostro orecchio.
    Anche se sappiamo bene dove l'avanguardia americana si stesse posizionando in quegli stessi anni.
    Il Kaleidoscope Chamber Collective é una formazione " a geometria variabile" che vede mischiarsi le parti nelle sue performance, formata da strumentisti e cantanti di diversa formazione, legati da un'approccio intenso e creativo.
    Passione, intensità e ritmo si leggono in ogni momento di questo bellissimo disco che per il quintetto della Beach io vedo al momento una spanna sopra gli altri disponibili, compreso il celebrato recente del Takacs Quartet

    edito da Hyperion e il cui approccio compassato mi convince di più in Elgar.
    Certo che accostare Beach ed Elgar ci da veramente il segno di quanto tempo sia passato. Vivaddio !
  8. M&M
    La dedica originale ("scritta per il sovvenire di un grand'uomo") della Sinfonia n. 3 "L'eroica" è lo spunto per questa piccola Guida all'ascolto.
    Naturalmente Beethoven bisognerebbe conoscerlo a fondo tutto ma la sua musica ha avuto uno stile in continua evoluzione, tanto che la si può separare in più fasi.
    Quella ... di mezzo, la più immediata all'ascolto ma anche quella che più coinvolge. Non ci sono ancora le sonorità aspre degli ultimi quartetti, della grande fuga, e nemmeno le forme arcaiche di contrappunto intricato delle ultime sonate. Della nona sinfonia, solo il tema ma non lo spirito allucutorio.
    E' il Beethoven della Quinta e della Terza Sinfonia. Della sonata a Kreutzer, del concerto per violino.

    E' il Beethoven praticamente coetaneo dell'astro europeo, quel Napoleone che da Primo Console diventa Imperatore e poi padrone d'Europa, scorrazzando con le sue armate dalla Baviera alla Polonia, passando per l'Italia e Vienna.
    Questo periodo "Eroico" coincide per i due titani. E' vero, anche Napoleone raggiunge la piena maturità "strategica" negli anni che vanno dal 1800 al 1809 (da Marengo a Wagram, dove si cominciano a vedere i primi segni di appesantimento del suo "metodo").
    Il Napoleone che libera le genti europee per poi dominarle come Imperatore, arrivando ad essere da liberatore atteso, allo straniero che bombarda Vienna per costringerla alla resa (con Beethoven rintanato in cantina) per poi sposare la figlia dell'Imperatore Asburgico (cui prima aveva fatto decadere la corona del Sacro Romano Impero).
    Del Beethoven il cui ultimo concerto per pianoforte che qui chiude idealmente la lista del periodo "Eroico" viene poi attribuito l'epiteto de "L'imperatore", pur senza un reale riferimento ... all'Imperatore
     
    E' il Beethoven degli Eroi, Coriolano e Prometeo tra tutti. Ma anche Leonora, eroina ideale come molte delle dedicatarie della musica del Maestro.
    Naturalmente come da nostra abitudine, qui si è fatta una selezione, con le opere più rappresentative, senza voler escludere necessariamente le altre se non per il numero. Non abbiamo nulla contro la 4a e la 6a sinfonia, ne con i quartetti e le altre sonate del periodo.
    Mentre è esclusa sia per il periodo di composizione che per il significato, quella Wellington Sieg che celebra la sconfitta delle armate francesi ad opera del Duca inglese ma che ancora deve incontrare quello che è divenuto "l'orco corso".
    Più avanti Beethoven diventerà più cupo come la sua musica, più introverso, più socialmente disturbato. Morirà qualche anno dopo, rispetto all'Imperatore componendo i suoi più grandi capolavori che però, tolta la 9a sinfonia, al pari delle più brillanti manovre napoleoniche della fine della carriera, non sono mai le opere più celebrate del maestro ma più rivolte ad un uditorio erudito e preparato.
    Ma stiamo andando oltre, ecco qua, il catalogo è questo !
    Concerto per pianoforte n. 3 in do minore Op. 37 - 1800/1802
          Sonata per violino e pianoforte n. 9 in la maggiore "Kreutzer" Op. 47 - 1802/1803


    Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore "Eroica" Op. 55 - 1803

    Sonata per pianoforte n. 21 in do maggiore "Waldstein" Op. 53 - 1803/1804

    Sonata per pianoforte n. 23 in fa minore "Appassionata" Op. 57 - 1804

    Concerto per pianoforte n. 4 in sol maggiore Op. 58 - 1805/1806
      
     
    Concerto per violino in re maggiore Op. 61 - 1806


    Trentadue variazioni per pianoforte su un tema originale in do minore WoO 80 - 1806

    Ouverture "Coriolano" in do minore Op. 62 - 1807

    Sinfonia n. 5 in do minore Op. 67 - 1807-1808

    Fantasia corale "Schmeichelnd hold" Op. 80 - 1808

    Concerto per pianoforte n. 5 in mi bemolle maggiore "Imperatore" Op. 73 - 1809

     
     
    Ho inserito un paio di scelte per alcune delle composizioni ma in generale ho voluto premiare interpretazioni classiche, degli anni d'oro della stereofonia, con solo una manciate di edizioni moderne, digitali o ad alta risoluzione.
    Ovviamente è una scelta personale, ognuno si farà la sua compilation ideale.
    Iniziando questo anno Beethoveniano che anche noi cercheremo di celebrare degnamente, mi premeva principalmente tagliare esattamente in termini di repertorio e di epoca storica questo Beethoven Eroico, il mio preferito in assoluto (senza disdegnare assolutamente tutto il resto di cui avremo ampiamente tempo di dibattere di qui a dicembre).
    Ma se qui c'è qualcuno in ascolto o in visione che vuole aggiungere la sua gradita opinione, ci leveremo il cappello  
  9. M&M
    La Fantasia in fa minore per pianoforte a 4 mani, pubblicata come op. 103 da Diabelli dopo la morte di Schubert, fu scritta tra i mesi di gennaio e aprile del 1828 e dedicata alla contessa Carolina Esterhàzy, come risulta da una lettera del compositore datata il 21 febbraio 1828 e inviata all'editore Schott. Simile alla Wanderer-Phantasie, questo lavoro si articola in quattro movimenti in una libera forma di sonata. L'Allegro molto moderato inizia in tono minore, secondo l'uso ungherese, ma ben presto si arricchisce di modulazioni che slanciano il discorso melodico. Il Largo in fa diesis minore è una specie di omaggio all'arte italiana, in quanto si sa che proprio in quell'anno il musicista aveva avuto occasione di ascoltare Paganini e dopo l'Adagio del Secondo Concerto op. 7 del violinista aveva detto di aver udito cantare un angelo. Lo Scherzo brillante e il Finale rivelano uno Schubert contrappuntistico quanto mai insolito tanto che il compositore per arrivare a controllare più coscientemente questa scoperta pensò negli ultimi mesi della sua vita di prendere qualche lezione (c'è chi sostiene però che si trattò di una sola) dal teorico e didatta austriaco Simon Sechter (1788-1867), che fu tra l'altro maestro di Bruckner e di numerosi artisti importanti della Vienna musicale del suo tempo.
    La Fantasia in fa minore per pianoforte a quattro mani di Franz Schubert è stata composta ad inizio 1828 e pubblicata postuma come Op. 103 da Diabelli (Quel Diabelli !).
    Solo formalmente una "fantasia" forse per evitare critiche dai colleghi più formali, é simile come struttura alla Fantasia Wanderer e si articola in quattro movimenti di sonata.
    La dedica è alla Contessa Carolina Esterhàzy e questo forse giustifica l'incipit alla maniera ungherese ma non sapremo mai se la dedicaria ne sia stata informata, dato che c'è traccia solo in una lettera del 21 febbraio di Schubert all'editore Schott.
    Si dice ci siano anche influenze italiane - nel largo - indotte forse dall'ascolto recente del Secondo Concerto di Paganini a Vienna.
    Nel finale c'è anche l'insolito - per Schubert che non aveva una formazione rigorosa - accenno contrappuntistico.
    Si tratta comunque della sublimazione dello stile di Schubert, le ampie e continue ripetizioni, i ritornelli, i cambi di melodia repentini, si fanno perdonare dal ritmo sempre incalzante e da un accenno di melodramma.
    Una composizione che si presta maledettamente bene alla trascrizione sinfonica.
    Ricamando sul materiale melodico molto drammatico e romantico nel senso più letterario del termine si sono ricamate .... fantasie sulla fantasia.
    C'è chi parla di amore impossibile per questa contessina, ex-allieva, conosciuta in una vacanza del 1824.
    Certamente il materiale emotivo è estremamente ricco e porto su un piatto di portata.
    Ma come tutte le composizione di Schubert necessita di mani sapienti, capaci di distillare il succo puro dell'invenzione musicale dal mare di consuetudine a volte un pò triviale in cui il compositore era solito annegare le sue intuizioni anche le più brillanti, per dovere di allungare il brodo.
    Ma resta assolutamente inequivocabile già nella scelta formale - pianoforte a quattro mani - il dialogo tra due parti, una in basso e una in alto. Non c'è dubbio alcuno. Poi voi datele il senso che vi pare. E se proprio vi piace, ascoltate cantare Carolina all'alto e Franz al controcanto in basso.
     
    La soluzione è un fa minore molto intimo, con i quattro movimenti collegati che consentono una distribuzione delle tonalità - fa minore il primo e l'ultimo, con il finale che è il doppio del primo movimento - i due movimenti centrali invece sono in fa diesis minore, ci fosse stato bisogno ancora di aumentare il pathos della scena.
    Colori e tonalità stanno perfettamente vicini al Winterreise sebbene la composizione sia stata terminata a primavera. Ma siamo negli ultimi mesi della vita di Schubert e quindi tutto ci stà.
    L'intera stesura è anche intrisa di inquietudine ed instabilità, anche solo a mantenere il tema per la coda.
    Il tema principale del primo movimento che compare dopo una breve preparazione del basso. lascia improvvisamente spazio ad un "duetto d'amore" come lo definirebbero i frequentatori dei salotti dei coevi romanzi di Jane Austen.
    Il secondo motivo è se vogliamo ancora più irrequieto e il basso e tutt'altro che comprimario della melodia. Primo e secondo tema vengono rielaborati più volte su luci diversi. Schubert qui manifesta appieno le sue doti pittoriche.
    Segue il largo, come si diceva in fa diesis minore ma non aspettatevi un preavviso.
    Anzi, se volete trovare le tracce separate nei dischi che segnalo, andate direttamente nella versione secondo Sviatoslav e Benjamin perchè le altre non lasciano respiro tra un movimento e l'altro.
    Alla faccia del largo abbiamo una serie di accordi percussivi e di trilli infiniti che aprono un dialogo tra l'alto e il basso che lascia in sospeso. Ripresa quasi sottovoce con un accenno da opera all'italiana che porta al successivo allegro.
    Questo non consente affatto di prendere fiato perchè è vitale e brillante, con tratti popolari, anche qui con riprese continue di ritornelli e con accompagnamento martellante, pieno, forte.
    Le voci non cessano di accavallarsi. E provatevi a seguirle separatamente se ci riuscite.

    Qui Franz mi perde un pò perchè i cinguettii durano per circa un terzo dell'intera composizione e alla terza ripetizione io sinceramente cercherei il telecomando per cambiare canale.
    Ma per fortuna che arriviamo magicamente alla ripresa, con una modulazione che ci riporta al tempo Primo e alla tonalità iniziale.
    E' un nuovo inizio che prelude ad un epilogo non troppo allegro.
    C'è un palpito tutto operistico. Questo è un lieder doppio, modulato dal tremolo, quasi, l'agitazione lascia posto all'inquietudine con sprazzi di speranza.
    L'appoggio del basso è meno esasperato, quasi rassegnato nel seguire la voce principale. Un fugato, una cosa più che rara per Schubert che forse vi ricorreva solo quando il padrone di casa chiedeva la pigione ma credo che Ludwig ne sarebbe stato felice se l'avesse potuto leggere, se non proprio ascoltare.
    I trilli della voce di destra elevano strilli reali, il basso diventa più concitato, aumentano pathos e agitazione. SIlenzio.
    Ripresa magica del tema iniziale, sottovoce, senza accelerare, forzando l'ultima frase in una conclusione a rintocchi che tutto lasciano significare (scrivete voi il finale).
    Applausi meritati per un chiusura di carriera che desidererei anche io.
    Allegro molto moderato (fa minore) Largo (fa diesis minore) Allegro vivace (fa diesis minore) Con delicatezza (re maggiore) ***
    La discografia di questa composizione non è straripante, perchè non ci sono tantissimi duo in attività e perchè l'intesa tra i due deve essere assoluta con la necessità di lunghe sessioni di prove, cosa sempre meno possibile.
    Nella disponibilità di edizione ne ho scelte cinque le più diverse che però, quasi tutte, identificano un legame quasi amoroso tra il duo.
    Abbiamo marito e moglie, padre e figlia, allievo e maestra, e due coppie di sodali di provata amicizia.
    Vediamole insieme.
    ***

    Schubert : Fantasia per pianoforte a quattro mani Op. 103 - D940
    Avanticlassic 2010
    Durata 16:30
    ***
    Questo disco contiene solamente la Fantasia. Ed è sufficiente.
    Si tratta forse della interpretazione più intensa disponibile in disco.
    A tratti largamente commovente, forse un filo sopra le righe, mai, nemmeno in un istante, banale.
    Intensità emotiva ed affiatamento dell'allievo insieme alla maestra.
    Io rispondo con i brividi alla base della nuca.
    Non mi importa se sembra che Zia Martha avesse fretta di andare dal parrucchiere (una cosa che credo faccia solo ad ogni anno bisestile).
    Vince a mio parere per visione, per tensione, per tono, per la drammatica narrazione.
    Martha dà il ritmo e Sergio ricama sopra.
    Bellissima.

    Schubert : Fantasia per pianoforte a quattro mani Op. 103 - D940
    Sviatoslav Richeter e Benjamin Britten
    Decca
    Durata 17:47
    ***
    Festival di Aldenburgh, ma quanto saranno stati fortunati quelli che al tempo hanno potuto assistere ai duetti tra Benjamin Britten e i suoi amici, Sviatoslav Richter, Slava Rostropovich e Peter Pears ?
    Qui abbiamo un disco straordinario, ripreso dal vivo che mostra un'intesa virile di rara chiarezza.
    Le due voci sono perfettamente fuse in un'unica intensa frazione di un momento.
    L'unico momento di perdita di tensione è nell'allegro dello scherzo del terzo movimento.
    Ma qui Schubert ha seminato la partitura di trappole cui nessuno - o quasi - può opporsi.
    Il resto è tutto urla e forza di chi vuole fermamente opporsi al destino proclamando il suo diritto, almeno, all'autodeterminazione.
    I momenti di struggimento ci sono tutti ma sono attenuati da una inesorabile volontà di giungere all'epilogo.
    Intendiamoci, non è una versione da record di velocità, l'incedere è marziale, virile appunto.
    Ciò che c'è da dire viene detto, sempre e con veemente potenza.
    Ma si sente che manca una donna.
    Il risultato, appunto sorvolando sul terzo movimento, lascia senza fiato. A tratti violento, collerico, potente. Beethoveniano.
     

    Schubert : Fantasia per pianoforte a quattro mani Op. 103 - D940
    Radu Lupu e Murray Perahia
    Decca
    Durata 19:19
    ***
    Silenzio, delicata presenza.
    Qui lo spasimante sembra già certo dell'esito della vicenda e la sua è più una supplica rispettosa.
    Quasi a giustificare la differenza di ceto e di casta (sto celiando, ovviamente).
    Ma la rassegnazione è più forte dello struggimento e le due voci non si sovrastano, dialoga su toni omogenei.
    Il senso complessivo è drammatico, teso, nonostante la durata sia quasi biblica rispetto a quella dettata dalla Argerich.
    Non mi piace, lo devo ammettere, ma ha fatto scuola (vedi recenti edizioni Fischer+Helmchen e Fray+Rouvier)
    Un modo alternativo, rassegnato, romanticamente più "tedesco" che non mi si addice per indole nemmeno in una frase.

    Schubert : Fantasia per pianoforte a quattro mani Op. 103 - D940
    Robert e Gaby Casadesus
    Columbia
    Durata 16:54
    Una coppia formidabile i due coniugi Casedus che mostrano un'intesa assolutamente ferrea.
    Probabilmente il ruolo guida resta Robert perchè la visione è certamente maschile, molto veemente, veloce.
    O alla veloce, se vogliamo. Lo si capisce sin dal primo accordo della sonata per due pianoforti K448 con cui incomincia il disco.
    Sia come sia, importa poco capire le dinamiche di coppia in questo contesto visto che valutiamo il risultato.
    Che è sensazionale, quanto se non meglio di quello dell'eccezionale coppia Britten+Richter, e scusate se è poco.

     

    Schubert : Fantasia per pianoforte a quattro mani Op. 103 - D940
    Emil ed Elena Gilels
    Deutsche Grammophon
    Durata 19:19
    Questa coppia forse è la più debole tecnicamente. Adatta al concerto KV365 di Mozart ma Elena, pur bravissima, poco può contro il padre Emil.
    Che impone alla fine un tempo lagnoso di una lunghezza sproposita.
    Beninteso, non necessariamente la velocità è da considerare una debolezza ma se sommiamo la tendenza alla ripetizione pertinace di Schubert con un andamento lento come questo il risultato non può che essere un pò sonnecchioso.
    E' la meno interessante, per la mia opinione delle interpretazioni che ho scelto.
    Ma si riscatta su quella altrettanto compassata dei due Perahia+Lupu per gli scatti veeementi di Emil quando può prendere il volo.
    C'è tutta la sua forza e la sua voglia di vincere ad ogni costo con la sola forza delle sue dita.
    Solo che qui vince il suo amore paterno, non me ne voglia la graziosa Elena. C'è tutto Emil in ogni nota.
    Finale travolgente che da solo vale, ogni nota, di tutta l'interpretazione.
  10. M&M

    I Confronti
    Gli ultimi pezzi per pianoforte di Brahms non sono le ultime composizioni di un uomo rassegnato, stanco e solo come qualche volta si vorrebbe credere.
    Anzi, non sono nemmeno gli ultimi pezzi di Brahms che dopo aver pubblicato le raccolte dei numeri di opera 116-119 - in larga parte opere delle decadi precedenti - si rimetterà a comporre, per clarinetto, per basso, per organo.
    Il laico Brahms concluderà la sua opera con testi della Bibbia  e in forma corale all'organo.
    Mi perdonerà Rattalino, ma non credo affatto che queste raccolte siano "il testamento di chi ripercorre il passato guardando avanti con impassibile disperazione", perché allora non so cosa dovremmo pensare delle opere corali composte o impostate sin dall'età dei 25-30 anni.
    Del resto basta ascoltarli per ritrovare semplicemente tutto Brahms.
    C'è la solita melanconia, c'è la solita rutilante forza "dell'aquila del Nord".
    C'è la tenerezza della madre che canta per coccolare il suo bambino.
    C'è la volontà di fare doni alla sua amica di una vita, come è vero che Clara Schumann scriverà nel suo diario dopo aver ricevuto i pezzi dell'Op. 116-117
    «Grazie a questi brani ho sentito ancora una volta la mia anima attraversata dalla vita. Posso suonare ancora con sincero abbandono, e ho ripreso la musica pianistica di Robert con più entusiasmo [...]. Per quanto riguarda la tecnica digitale, i pezzi di Brahms non sono difficili, tranne che per alcuni passaggi; tuttavia, la loro tecnica intellettuale richiede una comprensione profonda, e bisogna avere familiarità con Brahms per poterli suonare come lui li ha concepiti».
    Per avere questo effetto la sua musica NON poteva essere scaturita da impassibile disperazione.
    Brahms la vita la vedeva così già a venti anni. E la sua musica è tutta così.
    E in fondo, l'intera serie non comincia con un capriccio veemente che riverbera l'inizio della 4a sinfonia o dell'introduzione sinfonica del primo concerto per pianoforte ?  E come termina ? Con una marcia degna del Robert sognatore, nascosta dentro ad una rapsodia.
    In mezzo ci sono ballate, ninnananne, intermezzi, fantasie.
    Insomma, seguiamo le parole di Clara che Johannes lo conosceva bene. Bisogna avere familiarità con Brahms per frequentarlo, altrimenti si finisce per giudicarlo superficialmente.
    Senza offese per nessuno, naturalmente. Ma Johannes Brahms non è Sergei Rachmaninov.
    Le raccolte sono state tutte pubblicate negli anni 1892-1893. I precedenti brani per pianoforte solo risalivano alle Op. 76 e 79 del 1878-1879.
    Brahms non ha improvvisamente smesso di comporre per pianoforte ma abbozzava, annotava, schizzava.
    Certamente l'Op. 119 contiene musica del 1893 come da questa lettera del maggio a Clara :
    "Sono tentato di copiare un piccolo pezzo di pianoforte per te, perché vorrei sapere se sei d'accordo. È pieno di dissonanze! Queste possono [bene] essere corretti e [possono] essere spiegate - ma forse possono accordarsi con il tuo gusto, anzi avrei voluto che fossero anche meno corretti, ma più appetitosi e gradevoli per i tuoi gusti. Il piccolo pezzo è eccezionalmente malinconico e 'essere suonato molto lentamente' non è un eufemismo. Ogni battuta e ogni nota deve sembrare un ritardato, come se si volesse risucchiare la malinconia da ognuno, lussuriosamente e con piacere da queste stesse dissonanze ! Buon Dio, questa descrizione [sicuramente] risveglierà il tuo desiderio! 
    Chiusa questa parentesi, andiamo alla musica.
    Op. 116 : sette fantasie per pianoforte
    capriccio in re minore intermezzo in la minore capriccio in sol minore intermezzo in mi maggiore intermezzo in mi minore intermezzo in mi maggiore capriccio in re minore Il primo capriccio è un allegro energico che con ondate investe l'ascoltatore per poi ripiegare su un tema più appassionato.
    Due minuti senza pause, nemmeno per prendere fiato.
    Segue un andante molto raccolto, anche esso con un fraseggio ampio e dei chiaroscuri dipinti dal basso. Intimo ma del tutto privo di rassegnazione.
    L'allegro appassionato torna impetuoso e senza pause, ancora con una costruzione ad onde. Fino ad un momento di raccoglimento con uno dei temi più romantici che lo stesso autore può provare. Niente altro che amore, in musica. Chiusura con ripresa del tema iniziale ma con solo un pò meno veemenza.
    Il quarto è un adagio tenero e sognante, che potrebbe aver scritto Schumann. Riflessi sull'acqua in una giornata di fine inverno. Le note sono scandite con forza pur nel rispetto della metrica.
    Poi un'andante che è una danza stilizzata con passi quasi da altalena.
    "Andantino teneramente" dice l'ultimo intermezzo, ancora con il basso che scandisce il passo. Dopo la prima frase però la lirica assume forza, si ferma, riprende da dove aveva cominciato.
    Il capriccio finale é assolutamente agitato come impone l'annotazione ma il tema che segue continua ad essere melanconico e al contempo tenero fino ad essere portato con forza.
     
    Op. 117 : tre intermezzi per pianoforte
    intermezzo in mi bemolle maggiore intermezzo in si bemolle minore intermezzo in do diesis minore Il primo di questi intermezzi è una ninna-nanna, la tonalità in maggiore lascia comunque spazio ad un filo di nostalgia pur in un quadro comunque lieto.
    L'andante seguente segue e non può essere che suonato di seguito per portare all'andante con moto finale che sale di tono, di ritmo e di forza mano a mano che la melodia assume corpo. Le note sono scandite in modo fermo sia dalla destra che dalla sinistra. E' una romanza senza parole con frasi lungamente ripetute per tutti i ritornelli.
    Op. 118 : sei Klavierstucke per pianoforte
    intermezzo in la minore intermezzo in la maggiore ballata in sol minore intermezzo in fa minore romanza in fa maggiore intermezzo in mi bemolle maggiore Il primo intermezzo è una ouverture che introduce ad uno dei più struggenti momenti di tenerezza di tutta la musica di Brahms che è il secondo intermezzo in la maggiore. La parte centrale di quest'ultimo è un ricordo, ancora vivo e presente, e per questo ancora più caro.
    Ma c'è tutto Brahms in questi sei pezzi per pianoforte, perchè senza intervalli la ballata successiva è piena di forza, coraggio, decisa, speranzosa come sottolinea il momento centrale.
    L'allegretto successivo (il n.4, intermezzo) resta agitato ma in punta di dita, senza momenti urlati, anzi, anche qui c'è un rallentamento centrale.
    La costruzione dei brani di tutte queste raccolte mantiene questa forma sostanzialmente ABA ripetuta in stili differenti.
    E anche qui c'è la ripresa iniziale, più forte.
    La romanza è tranquilla, un incedere nobile e cadenzato. Con frasi molto lunghe.
    Sincopato, con lunghe pause ed arpeggi, "l'andante largo e mesto" finale che riprende l'aurea dell'intermezzo n.2 ma senza raggiungerne il tenero abbandono tanto che la musica prende forza mano a mano che procedono le ellissi che la compongono.
    Op. 119 : quattro Klavierstucke per pianoforte
    intermezzo in si minore intermezzo in mi minore intermezzo in do maggiore rapsodia in mi bemolle maggiore un adagio senza fine ma non senza ritmo, giocato sulle frasi e il dialogo tra le mani che alternano la musica. Un valzer, magari non proprio ballabile ma amabile ed energico.
    Si prosegue con un ritmato agitato che si chiude nel successivo grazioso che gioca sul ritmo delle ribattute, variandone l'intensita.
    La musica per pianoforte di Brahms si conclude con una rapsodia in mi bemolle maggiore che una marcia di uomini liberi che proseguono a passo deciso verso una meta che vogliono raggiungere, non senza sforzo ma nemmeno con tutta questa fretta.
    C'è tutto il tempo anche per riflettere ma senza abbandono e sicuramente senza alcuna rassegnazione. Anzi, c'è speranza, mite, lieta.
    In fondo queste raccolte sono composte tutte da musica cantabile, ballabile, giocate di ritmo e di materiale tematico articolato tra il basso e doppie melodie con strutture simili. Nel complesso molto semplici, ripetute, ma non per questo prive di originalità o di spirito.
    Anzi. Dalla prima all'ultima nota viene voglia di fare musica, di cantare, di concentrarsi sull'oggi e sulle cose belle di ieri.
     
    Queste pagine sono state registrate innumerevoli volte ma non ci sono tantissime registrazioni che le contengano tutte.
    Ho voluto qui proporre quattro alternative molto differenti, una appena uscita che mi ha dato l'idea per questo articolo, altre di epoche differenti.
    Vediamole insieme. 
     

    Brahms : gli ultimi pezzi per pianoforte
    Stephen Hough 
    Hyperion 2020
    durata complessiva 1 ora e 9 minuti
    Ultima uscita in ordine cronologico. Stephen Hough ha 59 anni, circa l'età di Brahms quando ha pubblicato queste "compilation".
    A tratti suona come un quarantenne ma un quarantenne compassato, molto british.
    Intendiamoci, è una visione di prim'ordine ma manca di trasporto per passare di categoria. Alla fine mi sembra un pò asciutta.
     

    Brahms : 3 intermezzi op. 117, 6 klavierstucke op. 118, 4 klavierstucke op. 119
    Wilhelm Kempff
    DG 1964
    durata complessiva 1 ora e 11 minuti
    Kempff aveva 69 anni quando ha registrato questo disco ma non importa, Kempff per come lo conosco io ha sempre suonato così.
    Va avanti a passo di marcia, quasi ci fosse Alte Fritz in testa ai prussiani che sfilano davanti alle posizioni austriache a Praga.
    Con distacco e in barba ad ogni sentimentalismo.

    Brahms : pezzi per pianoforte opp. 116-119
    Helene Grimaud
    Erato 1995
    durata complessiva 1 ora 14 minuti e 30 secondi
    Helene Grimaud aveva 26 anni nel 1995. E c'è tutto l'ardore giovanile che si può avere in queste opere ... senili.
    Non ineccepibile, né il tocco né la visione in diversi pezzi. Forse un pò acerba ma ci piacerebbe risentire la Grimaud adesso, appena sarà di nuovo ispirata.

    Brahms : tre intermezzi Op. 117, pezzi per pianoforte op. 118 e 119
    Julius Katchen
    Decca 1965
    durata complessiva 1 ora 14 minuti e 43 secondi
    Julius Katchen aveva meno di trenta anni quando ha registrato l'integrale di Brahms.
    Tutta l'opera è affrontata con un piglio epico, senza risparmiarsi.
    Come si vede è tutt'altro che veloce eppure si percepisce più forza, più anima, più coraggio e anche più vicinanza con lo scritto.
    Sarà un caso per cui questa lettura resta, a distanza di 55 anni, la più preziosa testimonianza omogenea dell'opera pianistica di Brahms ?
     
    ***
    Solo poche note perchè certamente ogni appassionato di  Brahms avrà la sua opinione, in fondo ciò che volevo era solo puntualizzare i fatti e togliere un pò di mito.
    Di Brahms si è troppo parlato in termini distanti dalla vera personalità.
    Quella di un uomo che ha fatto di tutto perchè di lui ci restasse per lo più ciò per cui ha vissuto : la musica.
  11. M&M
    Giulio Cesare in Egitto, l'opera di Handel che più di altre rese l'autore una superstar internazionale dell'epoca.
    Eh, se ci fossero stati i Grammy Awards ...
    A parte gli scherzi l'impegno grandioso vide altrettanto grandioso successo con repliche su repliche tra il 1724 e il 1737.
    Un caso più unico che raro dato che spesso in quei tempi la popolarità di un'opera lirica  non durava una stagione, tano era ricca la produzione, per lo più italiana, in tutta Europa in quegli anni.
    Ma Handel ci credeva e pur avendo "riciclato" di fatto un libretto molto più vecchio (quello di Giacomo Francesco Bussani del 1677), scrisse musica tanto ispirata da richiedere due prime parti di rilievo assoluto, la prima diva, Francesca Cuzzoni nella parte di Cleopatra - la protagonista vera dell'opera, nominalmente dedicata nella storia a Cesare - e al contraltista Francesco Bernardi, detto il Senesino nella parte di Cesare.
    Le parti del canto sono otto in totale, alla prima c'erano almeno sei cantanti italiani madrelingua.
    L'orchestra non è leggera, con violini e viole, basso continuo, legni completi (due flauti dolci, traverso, due oboi, due fagotti), quattro corni e tromba, con parti sulla scena anche per arpa, viola da gamba e tiorba.

    l'opera ripresa nella prima metà del secolo scorso dopo duecento anni di abbandono conta numerose registrazioni, probabilmente quella di Handel che ne conta di più al giorno d'oggi.
    E naturalmente tutte le primedonne - soprani e semmosoprani - di oggi si sono cimentate o nell'opera completa o nelle arie principali che la caratterizzano.
    La fortuna dell'opera risiede certamente nella ricchezza melodrammatica della trama, tessuta con grande perizia da Handel con una maestosa orchestrazione inframmezzata da arie magistrali.
    Il risultato, consegnato alla storia, è senza pari secondo il mio punto di vista.
    Tra le arie più belle e fortunate dell'opera, dedicate alla parte di Cleopatra ci sono certamente la celeberrima "Piangerò la sorte mia" e "Se pietà di me non senti".
    Due arie in forma A-B-A col da capo che lascia all'interprete libertà espressiva con ornamenti e fioriture, richiedendone al contempo estensione, forza, cambio di registro, ora pianissimo, ora fortissimo, ora lirico, ora drammatico.
    In un primo momento stavo scegliendo solo la seconda ma poi riascoltandole entrambe ho deciso di usare entrambe queste due arie per un confronto tra primedonne di oggi, cantanti di grande temperamento e con voci realmente barocche per quanto ne possa capire io.
    Dicevo che sono innumerevoli le registrazioni di queste arie, e si capisce bene il perchè. Senza voler fare torto a nessuna cantante contemporanea, ho scelto le quattro che preferisco e in ordine rigorosamente alfabetico :
    Natalie Dessay Simone Kermes Magdalena Kozena Roberta Invernizzi Due parole su Francesca Cuzzoni, una delle prime dive e certamente la primadonna per Handel a Londra dove la convinse a trasferirsi per le sue stagioni teatrali in qualità di autore ed impresario con un ricchissimo contratto di 2.000 sterline, una cifra stratosferica se consideriamo che con poco più di  20.000 sterline si armava una nave di linea da battaglia della flotta inglese a metà del '700.
    Francesca Cuzzoni aveva 29 anni alla prima del Giulio Cesare. Viene descritta come tozza e piccola, tutt'altro che avvenente, senza grandi qualità sceniche ma con una grande estensione vocale e una voce d'angelo o da usignolo. Non particolarmente tecnica ma in grado di incantare l'uditorio.
    Una donna difficile da trattare dentro e fuori dal palco, passata alla notorietà anche per eventi scellerati e morta in povertà dopo che la voce le sfiorì verso i 50 anni. 
    Per tutta la sua carrierà dovette misurarsi con i più celebri castrati (Senesino e Farinelli per esempio) e le loro straordinarie capacità tecniche.
    Ma anche con una rivale più attrezzata di lei sia sul piano della pura tecnica, Faustina Bordoni, un soprano capace di mettere in difficoltà gli stessi castrati, sia su quello della presenza scenica, capacità teatrali, semplice bellezza.
    Sono celebri due aneddoti che la riguardano - oltre alla precipitosa fuga dopo la misteriosa morte del marito a Londra - uno nel quale Handel stesso, la minacciò "fisicamente" di defenestrarla sollevandola per i fianchi verso la finestra se non avesse cantato un'aria come lui l'aveva scritta e un altro si lasciò andare in insulti scurrili sull'onorabilità della rivale (contraccambiata, ovviamente) per poi passare alle mani durante una rappresentazione in cui cantava con la Bordoni, presente una principessa della famiglia reale.
    Non una Cleopatra nel senso in cui la immaginiamo dopo che Elizabeth Taylor l'ha rappresentata al cinema nell'aspetto, ma certo una donna dotata di grande temperamento fuori dalle scene. Un demonio, come la epitetò Handel.
    E due parole sulle due arie.
    "Se pietà di me non senti", atto secondo, scena ottava e preceduta da un recitativo con orchestra "Che sento? Oh Dio!" che carica l'aria drammatica dell'aria che segue.
    Recitativo : 
    Che sento? Oh dio! Morrà Cleopatra ancora. Anima vil, che parli mai? Deh taci! Avrò, per vendicarmi, in bellicosa parte, di Bellona in sembianza un cor di Marte. Intanto, oh Numi, voi che il ciel reggete, difendete il mio bene! Ch'egli è del seno mio conforto e speme. aria : Se pietà di me non senti, giusto ciel, io morirò. Tu da pace a' miei tormenti, o quest'alma spirerò. archi, fagotto, soprano, continuo
    il recitativo è attaccato all'aria e ne è il drammatico preambolo. Cesare è fuori con i soldati per rintuzzare la minaccia di Tolomeo mentre Cleopatra nel palazzo si scopre realmente innamorato di Cesare e cessa di fingere.

    "Piangerò la sorte mia", atto terzo, scena terza
    Piangerò la sorte mia,
    sì crudele e tanto ria,
    finché vita in petto avrò.
    Ma poi morta d'ogn'intorno
    il tiranno e notte e giorno
    fatta spettro agiterò.
    testo appena più articolato e di forma opposta a quella dell'aria precedente.
    L'aria è nella classica forma A-B-A con il B molto vivace (ultime tre versi) e i due A adagi, il da capo prevede fioriture e abbellimenti sui primi tre versi.
    ***
     
    Le nostre quattro primedonne ci consegnano le loro interpretazioni in età certamente più matura (a parte la più giovane, la Kozena che quando ha registrato Cleopatra aveva la stessa età della Cuzzoni) ma sicuramente nel pieno della maturità artistica.
    Certamente sono quattro interpreti di grande temperamento e di evidente presenza scenica.

    Per il confronto ho scelto registrazioni recenti o molto recenti e in particolare secondo il gusto odierno. L'opera come ho scritto è stata riscoperta solo negli anni '30 del secolo scorso ma è negli ultimi decenni a cavallo del nuovo secolo che ha rivisto nascere l'antico splendore.
    Il mio intento non è comunque quello di valutare una mera riproduzione immaginaria ma fedele di quella che poteva essere la performance della nostra Cuzzoni ma leggere l'interpretazione di quattro cantanti in fondo molto differenti già a partire dalla scuola e dalle origini.
    Due latine e due mitteleuropee, tutte con differente curriculum, carriera, ranking internazionale.
    Tutte legate a grandi ruoli di primo piano nella musica barocca nelle rispettive scuole interpretative - generalmente filologiche - dell'ultimo periodo.
    Simone Kermes : La Diva, Handel arie per Cuzzoni, 2009
    "Se pietà" : 09:47
    "Piangerò" : 07:21
    Natalie Dessay : Cleopatra, arie dal Giulio Cesare, 2011
    "Se pietà" : 09:08
    "Piangerò" : 06:21
    Roberta Invernizzi : Queens, arie di Handel, 2017
    "Se pietà" : 10:10 compreso il recitativo
    "Piangerò" : 06:17
    Magdalena Kozena : Giulio Cesare in Egitto, 2002
    "Se pietà" : 09:21
    "Piangerò" : 06:04
    La Kermes idealmente per me rassomiglia di più alla Cuzzoni. E' fredda e immobile, il canto e leggero ma la voce bellissima, canta apparentemente senza sforzo. Le due arie vengono dalla registrazione in singolo e non dalle opere e questo potrebbe influire. Ma parliamo di una cantante d'esperienza consumata ed avendola ascoltata in altri dischi e in altro repertorio, sempre per lo più barocco, posso intuire che il suo sia proprio uno stile distaccata.
    Purtroppo non l'aiuta una dizione che spesso incespica in scivoloni tipicamente mitteleuropei.
    La Dessay è la più vivace sulla scena e in questo non tradisce il suo esordio come attrice. La sua Cleopatra usa gli artifici propri del suo ruolo, tanto da andare in scena con un busto che riproduce il seno nudo.
    La voce è più sottile delle altre ma più modulata.
    In generale tende ad eccedere con le fioriture, c'è molta libertà nella sua interpretazione in questo allineata ed assecondata dalla sua partner alla direzione d'orchestra, la vivace Emmanuelle Haim. Anche qui siamo in riprese dell'opera portata in scena, e questo certamente aiuta.
    Ma ho visto video di questa cantante che anche durante le prove, mentre legge con gli occhiali la partitura, la canta allo stesso modo e mostra temperamento ed esuberanza.
    La Kozena è l'unico mezzosoprano del gruppo, certamente un mezzo leggero, tanto che per lo più esegue repertorio per soprano, come in questo caso.
    Il suo taglio è drammatico, con una voce più di gola rispetto alle altre. L'orchestra, di scena, è possente con piena preponderanza di bassi.
    Canta impostato, va sugli acuti portando la melodia col tremolo. Cambia velocità e piglio nella "cadenza" con l'orchestra che la incalza e il tremolo diventa più coloratura sulle vocali finali.
    Ripresa ancora più in sordina della prima strofa con abbellimenti contenuti. Resta il tono molto drammatico e di grande efficacia. 
    La Invernizzi è l'unica madrelingua del novero dizione perfetta e modula a piacere ogni sillaba, comprendendone perfettamente il significato.
    Ha grazia, eleganza, non ha una voce perfetta ma la sua è una passione vera quando anche una regina ritiene di non doversi contenere.
    ***
    Conclusioni. E' difficile seguire il filo di quattro - comunque notevoli - interpretazioni di arie che sono capolavori assoluti della storia dell'Opera Lirica senza ascoltarle insieme.
    Mentre vi invito - se volete - ad ascoltarle per conto vostro (se non avete i dischi le trovate - credo tutte - su Youtube) e non volendo assolutamente voler fare una graduatoria o esprimere giudizi di merito, concludo confermando le mie impressioni già annotate mentalmente durante i primi ascolti.
    Simone Kermes è regale, con una voce cristallina, ma tanto distaccata da non rendere credibile la sua parte nella regina del Mediterraneo, donna di tanta passione capace di far innamorare ogni uomo al suo cospetto. Sembra dire, dando per scontato, io son bella, e tanto ti basti.
    Non c'è tragedia, più delusione, non c'è indignazione, più forse un contenuto disprezzo.
    Natalie Dessay cerca di ammaliarci come avrebbe fatto Cleopatra, più con le sue arti che con la bellezza. E ammicca dicendo, son brava, son brava, son brava. Lo è, lo sappiamo. Forse in certi momenti lo mette anche sin troppo in mostra, però.
    Magdalena Kozena ... sembra effettivamente sempre una Maddalena Penitente, super-drammatica, sebbene non a livelli di isteria come quando più recentemente ha interpretato ... effettivamente la Maddalena nella Passione di Bach con il marito alla direzione.
    Tocca, certamente. Sembra che da un momento all'altro ci possa penetrare il petto con un pugnale, più che uno stiletto.
    Ammetto che 10 anni fa mi ha molto colpito. Adesso un pò meno, però.
    Roberta Invernizzi è una Cleopatra molto personale. Dignitosa come una regina ma appassionata come una donna. Capace di avvolgere la musica con le sue parole, portando la musica di Handel ad un livello superiore di comprensione. Non è una tragedia consumata, c'è la rassegnazione di chi ha dovuto giocare un ruolo datole dal destino, ed ha perso. Certamente é una donna che ha vissuto, amato, sofferto.
    Non è la perfezione, non ci può essere perfezione nell'interpretazione personale, guai ci fosse, ci sarà sempre qualche cosa da dire in futuro.
    Ma è quanto di più toccante io possa dire di aver sentito sinora, senza al contempo indulgere in autocompiacimento o voglia di apparire.
    Però qui mi fermo e lascio a voi ulteriori argomentazioni.
  12. M&M
    Una premessa a carattere personale. Non amo particolarmente il violino. E' troppo piccolo e suona in una gamma di frequenze cui io sono sensibilissimo.
    In più, per le sue caratteristiche, chi lo suona, per trarne il meglio, deve avere caratteri che io in genere non apprezzo.
    Poi, penso la stessa cosa dell'oboe, del sax soprano e ... dei soprani in genere. Dipenderà dalla gamma di frequenze.
    In ogni caso, ovviamente apprezzo molta musica per violino e in particolar modo i grandi concerti per Violino e Orchestra, a cominciare da quello di Beethoven per finire con quello di Britten passando per quello di Sibelius.
    Giusto per mettere le cose in chiaro, questo non è il mio terreno ideale.
    In questa occasione metterò a confronto l'interpretazione recente del grande Concerto per Violino e Orchestra di Chaikovsky che è certamente tra le mie composizioni preferite (per violino e dell'autore).
    Sarebbe facile (ma inutile, non trovate ?) parlare di Heifetz o di Oistrakh. E invece, no, due giovani interpreti dell'ultima generazione in piena carriera concertistica.
    Solo due parole su questo concerto.
    Petja lo ha scritto appena dopo la tragica esperienza del matrimonio. Una esperienza che probabilmente sottovalutò e che lo segnò profondamente.
    Il concerto è stato scritto dopo la separazione (formale) dalla moglie e durante un soggiorno in Svizzera.
    Il compositore non conosceva lo strumento e il concerto sin da subito si è rivelato piuttosto ostico per i violinisti contemporanei che ne rifiutarono l'esecuzione.
    Evidentemente con il tempo le cose sono cambiate. La tecnica, l'insegnamento e gli strumenti sono progrediti e adesso è normalmente in cartellone anche e soprattutto da parte delle agguerrite violiniste dell'ultima generazione.
    Tutta la composizione sembra scritta sulla lama di una sciabola che delimita i confini dell'amarezza e della gioia liberatoria. Confini che restano labili per tutta la durata dei 35 minuti circa dei tre movimenti che è in tonalità Re maggiore ma spesso tutt'altro che trionfale come pretenderebbe tale tonalità.
    A tratti il solista suona sopra il pieno dell'orchestra ("fa strillare lo strumento" come ebbe modo di scrivere la critica dell'epoca) e comunque non ci sono momenti di pausa (pensiamo al rapporto invece tra orchestra e violino dei concerti di Beethoven o di Brahms) o di relax.
    Il movimento centrale è un delicato cantabile con il violino che danza e ricama, sopra gli arpeggi di legni ed archi, quasi pattinasse.
    Il finale è esplosivo improvviso - non c'è pausa con il movimento lento - e liberatorio.
    Amarezza e malinconia (quasi) scomparse.
    Nel concerto ci sono due cadenze molto impegnative. E sia nel primo che nell'ultimo movimento svariati assoli del solista.
    Patrizia, l'elfo con il violino

    Patrizia Kopatchinskaja
    MUSICAETERNA
    Teodor Currentzis
     

    Patrizia Kopatchinskaja e Chaikovsky

    dalle foto dell'album, un servizio fotografico sul "matrimonio" tra i protagonisti del disco in puro stile della russia zarista

    un momento dell'interpretazione del concerto dal vivo nel 2014. Come se Patrizia avesse bisogno di essere incitata da Teodor !
    Patrizia è del 1977. Viene dalla Moldavia e la sua famiglia è abituata a suonare in gruppo musica popolare.
    Viene sul palco a piedi nudi con i suoi camicioni e la sua personalità straripante si riversa sull'orchestra e sul pubblico.
    Non si ferma un istante, con l'espressione del volto rafforza quello che sta suonando e parla, parla, parla anche quando non può parlare. Allora lo fa con gli occhi.
    Parla con il direttore, parla con gli altri musicisti (sovente si volta dalla loro parte, quasi a chiamarli e incitarli), parla con il pubblico.
    Queste sue qualità istrioniche si riflettono nella sua musica. Il suo modo di suonare è libero e cerca per quanto possibile di scegliersi partner con le stesse qualità. Di recente ha collaborato con la Saint Paul Chamber Orchestra, dove tutti, chi più chi meno, improvvisano, suonando in piedi.
    L'unione con personalità forti e ricche come Fazil Say o, in questo caso, Teodor Currentzis mette sull'avviso l'ascoltatore.
    Currentzis e il suo complesso hanno come programma quello di rinnovare l'interpretazione di musiche un pò sopite - a loro modo di pensare - coinvolgendo il pubblico ed emozionandolo.
    Nessuna combinazione potrebbe essere più esplosiva di quanto si sente in questo concerto.
    Per confronto, la stessa Kopatchinskaja nello stesso concerto e con la direzione di un musicista molto ortodosso come Fedoseyev e un'orchestra russa dedicata all'autore, sembra mordere il freno. Tempi lenti, senza accelerazioni, il direttore che la guarda quasi ad ammonirla. Non combinare guai come tuo solito.
    Ma con Currentzis le cose vanno all'opposto. Altro che freni, dacci dentro.
    E si sentono le scintille. Il suono è modulato in ogni nota, i tempi cambiano dentro ogni frase. Gli accenti, ora i sussurri, ora gli strilli.
    Scene da un matrimonio ? 
    Fatto sta che la prima volta che ho ascoltato questa interpretazione ho esclamato : ma questa mi sta a pigliare per il culo !
    Accelera, decelera, a tratti non la si sente e un momento dopo esplode. E quello là - il direttore - che la fa correre ancora di più.
    E la cadenza ? Arcate e pause. Pause, arcate e pause. Accenni. Riprese. Sibili. Pause e sincopi. Ma quale Chaikovsky ?
    Denso di passione fino all'impossibile, all'ultimo viene da alzarsi in piedi per ... ?
    Applaudire o lanciare broccoli e pomodori ?
    Perciò l'ho lasciato sedimentare per un pò di mesi. L'ho riascoltato dopo aver risentito tutte le versioni che ho.
    Milstein, Heifetz, Perlman, Vengerov, Jansen, Fischer ...
    Niente, non ce un'altra interpretazione come questa.
    Estremo, eppure una boccata d'aria. Di forza, di vita. Di gioia di vivere e di fare musica insieme.
    Non vi piacerà, lo so. Ma io adoro Patrizia e ve lo raccomando comunque. Solo ascoltatelo con lo spirito ironico e appassionato con cui lo hanno inciso loro. Poi mettetelo via. Prendete la vostra versione di riferimento. Ascoltate quella. Prendete l'ultima incisione disponibile sul mercato. Ascoltate anche quella.
    Poi risentite Patrizia. E ditemi che sarebbe successo se l'avesse conosciuta Chaikovsky 
    Nicola, la danzatrice sull'acqua


    Nicola Benedetti
    Czech Philarmonic Orchestra
    Jakub Hrusa
    Decca



    Nicola Benedetti (per noi italiani è difficile immaginare che non sia un violinista maschio, pugliese con quel nome proprio) è figlia di un italiano e di una scozzese. E' cresciuta in Scozia, ha studiato in Inghilterra, nelle migliori scuole (Menuhin School ma con una maestra di scuola moscovita che ha preparato anche Alina Imbragimova e Corina Belcea, quindi una GRANDE maestra). E' del 1987  e per i suoi meriti musicali ha ricevuto la medaglia dalla Regina Elisabetta II.
    In generale ascolto con preconcetto i dischi che recano in copertina belle ragazze sorridenti. E' facile che il contenuto sia differente.
    Ma è un preconcetto che in questo caso non vale.
    La violista ha mezzi notevoli e suona con piglio, personalità e con grazia. Durante il concerto - accompagnata da una delle più belle orchestre del mondo e con una guida all'altezza - è padrona della scena in ogni momento.
    Sembra che danzi senza mai forzare.
    L'interpretazione - a giudizio di uno che di violino (lo dicevo) ne capisce poco - è semplicemente perfetta.
    In perfetta scuola russa.
    E per dominare un testo come questo, di personalità e carattere ce ne vogliono tanti.
    Non chiediamole di aggiungere altro che buon gusto, grazia e tecnica sopraffina.
    E ricordiamoci che c'è anche sangue italiano nel cuore di quel suono terso e appassionante.
    Conclusioni
    Naturalmente ci sono le grandi interpretazioni del passato. Ogni grande violinisti di ogni epoca ha in repertorio questo concerto da 120 anni e più.
    Accantoniamole e concentriamoci su queste.
    Oggi il concerto per violino di Chaikovsky è donna.
    E qui abbiamo due delle interpretazioni più interessanti, appassionanti e vivaci disponibili.
    Patrizia mi affascina in ogni nota, mi sorprende, mi coinvolge, mi incuriosisce. Ma Nicola, nel pieno rispetto della tradizione, riesce a trovare sonorità che a tratti mi commuovono.
    Avendole entrambe, perchè non ascoltarle a seconda dei momenti ?
    Pareggio meritato, con merito per entrambe 
  13. M&M
    Metto le mani avanti, non vorrei che sparaste su di me, anzichè sul tradizionale pianista, non sono qui per farvi perdere tempo ma questo "Confronto" non è esattamente sulle due interpretazioni del celeberrimo e hollywoodiano secondo concerto di Rachmaninov ma su due prodotti confezionati per il mercato discografico del 2017.
    Leggevo ieri un editoriale di un quotidiano nazionale in cui si esamina lo stato dell'andamento degli incassi al botteghino del cinema americano.
    Il prodotto perdente è quello che invece è stato tradizionalmente quello vincente, il maschio bianco indipendente e sicuro di se.
    Mentre è vincente il prodotto al femminile con Wonder Woman- Gal Gadot e l'ultima Jedi - Daisy Ridley a farla da padrone.
    Due belle, giovani, forti e vincenti, non americane, donne.
    E così pare che continuerà per il 2018, con una larga messe di vittorie ai Golden Globe e agli Oscar.
    E pensavo quanto non sia dissimile il panorama discografico dove l'elemento visuale si scontra con una fruzione che per lo più é audio.
    Ma sanno bene Universal (marchio cinematogravico che possiede tra gli altri Decca) e Sony (attigua a Sony Picture e Columbia) come si debba fare per raggiungere determinati target di vendite.
    Non che si debba tirare sul pianista bianco e maschio (però non mi vengono in mente in questo momento pianisti neri noti al grande pubblico in campo classico) perchè lo fa già da se. Il panorama è ancora dominato da attempati vecchioni, che si ostinano ad occupare spazio discografico che potrebbe essere liberato per chi abbia qualche cosa di nuovo da dire (non fatemi dire i nomi, li avete li sulla punta della lingua) mentre i giovanotti si rivelano spesso fuochi di paglia e false promesse.
    Non sono di primissimo pelo le due protagoniste di questa sfida ma se possiamo considerare a tutto titolo una superstar, la mitica Kathia Buniatishvili, è praticamente una recluta la "nostra" Vanessa Benelli Mosell.
    Che il prodotto discografico sia improntato sulle due giovani più che sul programma, lo dimostrano anche le seconde copertine (vi risparmio le foto interne, alcune veramente oltre misura) dove Kathia per una volta lascia gli sgargianti abiti con cui fascia le sue prosperose forme, generosamente concesse al pubblico nei suoi concerti, per vestirsi di mistero con un trench nero, in una atmosfera ferroviaria, che richiama alla mente fughe notturne lontane dai bolscevichi.

    più semplici quelle che evidenziano i tratti di Vanessa, in bianco e nero sul lato B in contrasto con il colore glamorous della copertina

    aggiungiamo un programma differente ma incentrato sul compositore dei pianisti, Rachmaninov, con due dei suoi concerti più proposti nella storia.
    Voi lo sapete, non è necessario che ve lo ricordi, ci sono due tipi di concerto per pianoforte. Quelli scritti da un pianista per mettere in evidenze le sue doti di pianista (è il caso di gran parte di quelli di Mozart, ad esempio, dei primi tre di Beethoven, di quelli di Chopin e di Liszt e, appunto di quelli di Rachmaninov) e quelli scritti da un compositore che sa sfrutturare il contrasto tra pianoforte e orchestra per andare oltre il lato puramente sinfonico, estetico o quello semplicemente solistico (è il caso dei due concerti di Brahms, di quello di Schumann, di quelli di Shostakovich e di Prokofiev, tra gli altri).
    Quindi non c'è niente di meglio per confezionare il prodotto da vendere delle due majors che inserire dentro a copertine stuzzicanti un programma semplicente pianistico come è questo caso che possa raggiungere anche i palati meno raffinati.
    Mi fermo qui in questo lungo preambolo, mi scuserete, concluderò il mio pensiero dopo la recensione delle due prove.

    Rachmaninov
    Concerto per Pianoforte e Orchestra No. 2 in Do minore, Op. 18
    Variazioni "Corelli"
    Vanessa Benelli Mosell accompagnata dalla London Philarmonic Orchestra diretta da Kirilli Karabits.
    Decca 2017
    Vanessa Benelli Mosell è una pianista italiana che si è perfezionata all'estero.
    Le sue performance con le musiche di Stockhausen hanno suscitato l'interesse dell'autore stesso che l'ha chiamata a se per perfezionarne l'interpretazione prima di morire.
    Ha già diversi dischi all'attivo, uno dei quali dedicato ad uno strano incrocio tra Stockhaseun e Skriabin e uno recentissimo dedicato a Debussy, sempre di Decca.
    Ho ascoltato il primo e devo dire che la tecnica - precoce, possiamo considerarla certamente una enfant-prodige che suona in pubblico dall'infanzia e che a 30 anni sul piano tecnico non ha più nulla da imparare - é sopraffina. Ma mentre non posso dire nulla sui lavori di Stockhausen che per me potrebbero essere il sottoprodotto della messa a punto di un programma di calcolo basato su predizioni casuali, il suo Skriabin manca completamente di coinvolgimento e di profondità.
    Il disco di cui ci occupiamo, sostanzialmente ben suonato (ma pessimante registrato, neanche fosse autoprodotto in economia o subappaltato per risparmiare e non il progetto di un marchio storico come Decca) conferma il mio primo pensiero.
    E' una pianista che certamente si farà se avrà modo e tempo di dedicarsi a quello che le piace di più e se l'inserimento nello star-system cui pare la vogliano ficcare a forza, non le farà mancare gli stimoli necessari.
    A differenza della Buniatishvili non è qui per stupirci con tempi e ottave sensazionali, ha il giusto approccio a partiture che fino a pochi anni fa erano alla portata di pochissime donne e di pochi uomini ben sviluppati sul piano fisico. Sembra preparare i passaggi con la giusta enfasi ma poi manca nel dunque.
    Lo stesso nelle Variazioni "Corelli", lavoro che potrebbe mettere in luce qualità differenti in un pianista ma che Vanessa sembra esegua più che altro per impegni contrattuali.
    La vedremo, spero, prossimamente, con un repertorio tedesco magari a lei (e a me) più congeniale.
     

    Rachmaninov
    Concerto per Pianoforte e Orchestra No. 2 in Do minore, Op. 18
    Concerto per Pianoforte e Orchestra No. 3 in Re minore, Op. 30
    Khatia Buniatishvili accompagnata dalla Orchestra Filarmonica Ceca, diretta da Paavo Järvi.
    Sony Classical 2017
    La pianista georgiana ritorna alla registrazione con l'orchestra dopo quattro anni di emissioni puramente solistiche.
    L'ultimo che mi ricordo - terribile - Motherland, non mi ha lasciato un ricordo indelebilmente positivo.
    Ma naturalmente non è stata assente dalle scene, facendosi accompagnare da grandi direttori d'orchestra sui palchi di tutto il mondo.
    In questa prova c'è l'eccellente Paavo Jarvi con la grande orchestra Filarmonica Ceca nel compito di tenere a freno la forza della nostra protagonista.
    Sui mezzi di Kathia non c'è molto da dire, la tecnica è eccezionale tanto da poter mettere ottave degne di Horowitz in cavalli di battaglia come questi.
    Purtroppo - e questa è una conferma alla regola - la sua forza e "prepotenza" è sempre tale da considerare ogni sua esibizione - dal vivo, video, come in disco - come se fosse una battaglia, una corsa in cui conta solo arrivare in fondo senza fare errori.
    I tempi quindi vanno al servizio della capacità di non steccare mai ma senza andare a fondo di una trama che, purtroppo, in questi due concerti è anche difficile da trovare, sebbene si possano trovare grandi interpretazioni altrove.
    Riesce a salvare dal disastro il consumato valore di Jarvi che in alcune circostanze impedisce alla pianista di sollecitare l'orchestra ad un parossismo che avrebbe conseguenze difficili da recuperare.
    Ne viene fuori comunque una performance di carattere, che risulterà godibile per chi non conosce molto a fondo questa musica o per chi ama questa pianista.
    Sentire come disbriga i passaggi più impegnativi la Buniatishvili è sempre uno spasso.
    E ovviamente lei sceglie le cadenze più difficili e mentre chiude un passaggio si volta soddisfatta dalla parte dell'orchestra e del direttore (cfr. video con Zubin Metha al festival della Georgia dove si è esibita di recente).
    Il confronto che mi viene spontaneo - e restiamo quindi nel tema di queste tigri della tastiera - è con la coetanea cino-americana Yuja Wang, che esibisce la stessa forza e la stessa veemenza - pur con leve decisamente meno potenti - ma che alla prova del nove, dove conta il calore e l'espressione, riesce a trovare cose che probabilmente la georgiana non sa nemmeno che esistono.
    Sarebbe stata una splendida decatleta, è un peccato che in fondo tutta questa forza sia difficile da incanalare per avere risultati duraturi nel mondo della musica.
    Parafrasando il Professor Rattalino - ai tempi lo scrisse della ben più elevata Martha Argerich che mi pare di ricordare abbia in simpatia la Buniatishvili - speriamo che in futuro perda un pò di questa energia e riesca a trovare spazio nella propria agenda di impegni in giro per i palcoscenici per farci sentire della vera musica. Finora io l'ho trovata interessante solo - guarda caso - in una esibizione a quattro mani con la più raffinata Wang 
    In estrema sintesi, un disco per i veri fan di questa pianista che credo vinca alla grande e con distacco il confronto con l'italiana cui questo repertorio credo non dica molto sul piano personale.
    ***
    Che dire per concludere ? Nella sfida - ti piace vincere facile ? - ha la meglio, e facilmente, la Buniatishvili. Ma la sua è secondo me, una vittoria di Pirro.
    La Benelli Mosell avrebbe ben altro da serbarci, nel suo repertorio, se trovasse la grinta e la forza che un'altra pianista nostrana - Beatriche Rana - sta mostrando, con prove più personali e con un carattere che la differenza di età apparentemente dovrebbe far prevalere al contrario.
    Chi perde è il panorama discografico, con prodotti sostanzialmente superflui come questi, come si troverà spazio per altro, di meglio ?
    Per fortuna l'esperimento similare, portato a termine con l'ultima generazione di belle e vivaci violinista, ha la fortuna di poter contare su una qualità di offerta superiore, perchè ci sono molte violiniste di carattere e con una sensibilità raffinata (cito a caso Jansen, Faust, Kopatchisnkaya, Fischer, Ibragimova, Frang per non dimenticare Lisa Batiashvili che pur georgiana, non è nemmeno cugina di Kathia) che già senza timore di sembrare blasfemi, producono prove all'altezza delle migliori interpretazioni del passato. E tutto questo A DISPETTO di patinate copertine.
    Il pianoforte evidentemente richiede più tempo. Speriamo.
  14. M&M
    Per anni ci hanno scassato la m...a con l'ibrido a benzina (e in alcuni casi a gasolio) come l'arma finale per la mobilità di ieri, oggi e domani.
    L'uovo di colombo (o di tortora) in grado di permettere di andare in elettrico in città per fottere il parcheggio agli altri o non pagare il pedaggio in ZTL (o attraversare la ZTL nelle città che ne vietano la circolazione alle auto a motore a combustibile fossile).
    https://www.formulapassion.it/automoto/mondoauto/plug-in-hybrid-non-e-piu-green-il-phev-inquina-troppo-559747.html

    Hanno profuso incentivi "ecologici" per spingerne la vendita, visto il divario di costo elevato rispetto ad un'auto tradizionale.
    Ci hanno riempito gli occhi di pubblicità con ragazze vestite di tinte color cielo che - senza averne probabilmente il budget - scelgono l'ibrido plugin per andare a divertirsi con le amiche in improbabili centri cittadini iperavveniristici irti di grattacieli e pieni di strade del tutto deserte.

    Ma specialmente con grafici di consumi impossibili da realizzare "a benzina", tipo 50 grammi di CO2 per km, su cui sono stati calcolati gli incentivi statali da 3-4000 euro.
    E adesso invece dietrofront.
    L'Europa si avvia a togliere gli incentivi "ecologici" alle ibride plugin perchè si è scoperto che quella spina ... è una spina nel fianco degli automobilistici. Che di fatto comprano queste auto per aggirare i divieti ma poi nemmeno le attaccano alla presa.
    Ritrovandosi così con automobili a benzina,  con 400 chilogrammi di inutile zavorra sul groppone da scarrozzarsi per strada al posto del pieno carico di passeggeri e bagagliaio.
    Così i listini si sono riempiti di veicoli con potenze apparentemente esagerate che poi non hanno la ripresa di una 500 1.2 da 60 CV. E che costano 50-60.000 euro ma consumano ed inquinano come auto sportive (che intanto stanno invece sparendo dal listino perchè la gente le associa a sporco ed inquinante).
    Per tacere del semplice ciclo produttivo e di smaltimento, molto più oneroso in termini "ecologici" della produzione di auto a benzina.
    Adesso si vaticina dell'elettrico puro, per cui non esistono né abbastanza colonnine di ricarica né impianti di produzione di batterie realmente "ecologiche" nel nostro continente (come del resto anche di vaccini, di semiconduttori e di qualsiasi altro materiale strategico attuale, trasferito fabbriche e tecnologia off-shore per convenienza di produzione), né la capacità di erogazione di picco che richiederebbe una flotta di un centinaio di milioni di auto a batteria (anche esse pesanti 3 o 4 quintali più di un'auto a benzina).
    Ah, poi c'è l'idrogeno che sul piano pratico va bene per autobus e camion, perchè un 'auto ad idrogeno con caratteristiche base per ora costerebbe tipo 80.000 euro e ti costringerebbe a fare una corsetta fino a Bolzano per fare il pieno.
    W l'ecologia e l'ibrido fiscale.
  15. M&M
    William Byrd e John Bull al pianoforte
     Kit Armstrong, pianoforte
    Deutsche Grammophon 9 luglio 2021 , formato 96/24, acquistato
    ***
    Il titolo " i visionari della musica pianistica " mi aveva in un certo qual modo allarmato all'inizio ma poi ascoltando il disco ho capito.

    Conosciamo Byrd e Bull come i due titani della musica tardo-rinascimentale inglese 

     
    vissuti contemporaneamente al lungo regno di Elisabetta I, hanno rappresentato l'anello di congiunzione tra la scuola Tudor che con musicisti come Thomas Tallis ha elaborato le proposte italiane e franco-fiamminghe portandole a livelli inauditi per l'Europa continentale, e la musica madrigalistica, più "leggera" che ha visto John Dowland come epigono (altro quasi contemporaneo di Bull e Byrd).
    Non parliamo in questa sede di Orlando Gibbons e di Thomas Morley, il primo tanto caro ad esempio a Glenn Gould che ne ha riscoperto molte pagine.
    Nel libretto del disco si fa questo parallelo, spingendo la scrittura di Bulle Byrd verso la scuola clavicembalistica tedesca e francese

    ma io sinceramente se leggo il raffinato contrappunto dei due, ne sento ancora più chiaramente gli echi nella musica della generazione di compositori inglesi del primo '900, quindi ben tre secoli oltre.
    Dopo Bull e Byrd in Inghilterra ebbero il momento felice di Purcell, compositore eminentemente "britannico" e poi praticamente più nulla, una colonia italiana anche per mezzo del sassone Handel fino a tutto il periodo romantico.
    Ma non è un caso se con Elgar, Vaughan Williams e Britten vengono riprese le radici inglesi della musica saltando il romanticismo tedesco - anche per ragioni storiche - e persino un celebre direttore formatosi con Elgar abbia usato temi di Byrd per la sua meravigliosa Suite Elisabettiana.
    Quelle che suona Kit Armostrong in questo disco doppio di ben 2 ore e 14 minuti è una sequenza di danze, pavane, gagliarde, e musica di circostanza come marce e ground, ma le variazioni contrappuntistiche con cui sono elaborate hanno una raffinatezza elevata, degna di Frescobaldi se non di Pachelbel e Buztehude che sarebbe come dire Bach.
     
    Io non ho idea se nell'isola ideale assediata dai cattolici con le loro armate, leggessero l'italiano, si dice che Shakespeare - chiunque egli fosse nella realtà - leggesse Dante in italiano, e se Frescobaldi abbia fatto sentire la sua influenza fin lassù.
    E' possibile, Roma era comunque il centro del mondo, altrimenti Enrico VIII non se la sarebbe presa col Papa e con il Re di Spagna altrimenti.
    Ma comunque il livello è quello, la raffinatezza pur con lo stile cortigiano tipico di questa musica, è la stessa se non superiore.
    La scrittura, densa ed estremamente impegnativa, da virtuosi per virtuosi, come si può chiaramente vedere sin dal manoscritto :

    una pagina autografa di William Byrd, estratto di Parthenia, è un preludio.

    la scrittura cromatica di John Bull, da un estratto del Fitwilliam Virginal Book conservato all'Università di Oxford, culla artistica oltre che culturale del tempo.
    Composizioni originariamente pensate per il virginale, strumento leggero e capace di dinamiche molto limitate, probabilmente travalicavano le capacità tecniche di quegli strumenti, tanto da risultare - ammettiamolo - noioso all'originale, diventano vive, palpitanti, emozionanti, profonde e complessissime con il moderno pianoforte impiegato con eccellenza da Kit Armstrong.

     
     
     

    un virginale inglese dell'epoca. Strumento dal suono argentino e flessibile, con estensione abbastanza contenuta e nessuna capacità di dinamica bassi-acuti.
    Ne viene uno splendido affresco di musica colta e raffinata dove viene mantenuto lo spirito dell'epoca probabilmente sublimandone le intenzioni originali, un ponte ideale verso la musica del futuro.
    In questo senso è confermato lo spirito del sottotitolo del disco (I visionari della musica pianistica, qualche cosa che i due non potevano nemmeno immaginare se non in sogno).
    Io mi sono letteralmente innamorato della straordinaria simmetria della Pavan Chromatic della Regina Elisabetta di Bull.
    Ma il massimo sono le 30 variazioni di Bull, che stanno al pari del meglio di Handel secondo me, scritto nella stessa isola cento anni dopo.
    E naturalmente la struggente Pavan del Conte di Salisbury,
    Ma tutto questo disco sin dal primo preludio all'ultima parte (una fantasia ... su una Fuga di Sweelinck e una serie di canoni di Bull) è secondo me sensazionale.
    Non conoscevo molto bene Kit Armstrong, avendo appena ascoltato il suo disco del 2013 in cui accosta Bach con il Ligeti della Musica Ricercata.
    Musicista colto e molto sensibile, come potrete accertare voi stessi se ascolterete questi dischi.

    Registro del pianoforte chiaro, senza eccessi.
    Bella proposta di DG che vi consiglio senza riserve.
     
  16. M&M

    Recensioni : Opera
    Vivaldi : Argippo RV Anh. 137
    Opera-pasticcio con arie di Pescetti, Hasse, Porpora, Galeazzi, Fiorè e Vinci e Libretto di Domenico Lalli
    Prima rappresentazione al Teatro Sporck, Praga, 1730
    Manoscritto rinvenuto a Darmsdt nel 2011 e questa è la prima esecuzione integrale nell'edizione critica redata nel 2019 da Bernardo Ticci
    Emőke Baráth soprano ARGIPPO
    Marie Lys soprano OSIRA
    Delphine Galou  contralto ZANAIDA
    Marianna Pizzolato contralto SILVERO
    Luigi De Donato basso TISIFARO

    Europa Galante Fabio Biondi direttore
    Naive 2020, vivaldi edition vol.64 opere teatrali, formato HD, via Qobuz, 49 tracce per 2 ore e 2 minuti
    ***


    Abbiamo molte tracce di quest'opera ma nessuna certezza.
    Esistono due copie dei libretti e la commissione ma quanto di Vivaldi e quanto delle altre firme ci sia in questa composizione non si sa.
    Quella che ascoltiamo, inserita nella benemerita monumentale raccolta dedicata a Vivaldi da Naive al volume 64 è la ricostruzione di Bernardo Ticci del 2019 di quello che in realtà è un pasticcio di Vivaldi perduto , creato nel 1730 per l'impresario veneziano Antonio Peruzzi da mettere in scena a Vienna e Praga.
    La vicenda e la trama sono deboli e sinceramente imbarazzanti (Bengala, Gran Mogol, figlia disonorata, rogo e via spropositando) e se non fosse per lo sforzo grandioso di Fabio Biondi che da vita ad ogni singola nota dell'opera neanche fosse l'Oratorio di Natale di Bach e la qualità del cast non sarebbe particolarmente degno di nota.
    Ma c'è tanta di quella vita in queste arie e persino nei recitativi, se si resiste ad un leggero moto di repulsione dopo la bella sinfonia iniziale.
    Certo arrivare al terzo atto conclusivo é difficile ma si riesce, proprio per la qualità della compagine impegnata e per tutte le bollicine effervescenti che il grande Biondi riesce a spruzzare ovunque.
     

    Brani salienti (secondo me).
    Atto 3, scena 2 : Vado a morir per te (Osira) di  Andrea Stefano Fiorè
    Melodrammatica ma intensa, forse la più elevata ispirazione dell'intera opera qui portata con forza e passione da Marie Lys

    Atto 3, scena 3 : Vi sarà stella clemente (Argippo)
    altrettanto delicata ed apprezzabile

    Atto 3, scena 5 : Se la bella tortorella (Silvero)
    E' una vera gemma con l'accompagnamento del violino di Biondo che improvvisa, fiorisce, arricchisce la parte cantata con in sottofondo la tiorba.
    E Marianna Pizzolato qui è un credilissimo contraltista  ma tutta la sua parte rende Silvero persino simpatico, pur essendo il cattivo dell'opera.
    Atto 1, scena 1 : Se lento ancora il fulmine (Zanaida)
    Riconoscibilissimo Vivaldi in questa aria portata in disco da Cecilia Bartoli qualche tempo fa e qui sinceramente "doppiata" da Delphine Galou che nel timbro ricorda l'italiana ma rispetto a quella ha più modulazione, più coloritura e con un tono ben più pieno, capace certo anche in scena e non solo in disco.
    Atto 1, scena 4 : Anche in mezzo a perigliosa (Argippo).
    Anche questa aria ripresa dalla Bartoli. Aria di bravura con trilli ed acuti estremi. La Barath la rende al meglio.

    Complessivamente una prova eccellente. Resta un'opera non memorabile, per questo dimenticata ma nelle mani di Fabio Biondi e dell'Europa Galante siamo tornati alla corte Imperiale Asburgica in quel 1730.
    Ve la consiglio anche oltre la semplice curiosità.
    Queste registrazioni Naive non sono sempre all'altezza dello sforzo degli artisti. Qui siamo nella media.
  17. M&M

    Recensioni : Opera
    Handel : Saul HMV 53
    Philarmonia Baroque Orchestra & Chorale diretta da Nicholas McGegan
    Performance dal vivo 2019, pubblicata il 5 giugno 2020, formato 192/24, ascoltata via Qobuz
    ***
    Saul non è un'opera lirica, è un oratorio.
    Ma non è un oratorio come il Messiah, per nulla.
    Si, la rappresentazione è in forma di concerto, i cantanti leggono le parti, non ci sono scene.
    Ma se i temi sono biblici - Giudea, Re Saul, il futuro Re David, i filistei e la guerra con Israele - la vicenda è tutt'altro che religiosa, anzi.
    Ma all'epoca il pubblico londinese ne aveva le tasche piene dell'opera lirica drammatica all'italiana e soprattutto, delle star canore italiane e delle loro bizze.
    Di qui la serie di oratori di Handel che inseguiva il gusto del suo pubblico pagante da buon impresario e produttore.

    Vicende bibliche dense di dramma, spesso di morte, tradimento, intrighi, gelosie, amori felici e meno felici.
    Insomma tutti gli ingredienti dell'opera liriche, per cui io metto questo genere al confine, formalmente oratori (per la forma, la grande presenza del coro e delle corali, decisamente più invadenti che nelle opere liriche, più giocate su recitativi e arie)
    Qui i recitativi sono del tutto tagliati, sinceramente non so se ci fossero in origine, ma non credo.
    McGegan comunque ha contenuto in 2 ore e 20 il tutto, forse pensando al suo, di pubblico, quello americano del Walt Disney Concert Hall di Los Angeles dove è stata ripresa dal vivo quest'opera.
    La compagine è di primo livello anche se lontana dalla quotidianità di noi europei.
    E segna anche la fine del lungo sodalizio del britannico purosangue McGegan con la Philarmonia Baroque Orchestra che ha portato ad alti livelli nel repertorio di inizio settecento.
    L'organico strumentale è sontuoso, praticamente tutto su strumenti contemporanei con Handel.
    Abbiamo doppio accompagnamento con cembalo e organo (all'organo il cembalista Jory Vinikour, interprete a sua volta di dischi solistici barocchi).
    Nonostante la vicenda un pò pesante, il tono di McGegan è al solito resta leggero.
    Anche la celebre marcia funebre del terzo atto che accompagna Saul nel regno dell'aldilà e che ha fatto lo stesso con statisti nel corso della storia, inclusi George Washingon e Wiston Churchill, è resa con toni non troppo scuri.
    E nel complesso il direttore resta fedele a se stesso. Insomma se non seguiamo i testi, continua a non essere il Messiah, non ci sono i bambini, ma è quell'Handel.
    Edizione degna di essere tenuta in considerazione e che vi suggerisco di ascoltare se vi interessa questo repertorio.
     
    La registrazione è dal vivo, registrata con qualità adeguata ma ad un livello un filo troppo basso e con qualche strumento particolare (tipo il trombone) che si perde nel tutti.
    Applausi, finali, meritati, per questi americani impegnati a questo livello nel barocco inglese, a volte un pò acerbi e magari un pochino sguaiati ma genuini come sempre.
  18. M&M

    Recensioni : Opera
    Handel : Semele
    Monteverdi Choir
    English Baroque Soloists
    Sir John Eliot Gardiner
    Soli Deo Gloria 2020, disponibile in formato CD e flac ad alta definizione sul sito SDG
    ***
    Nel 1983 con la medesima compagine, Sir John firmava la prima edizione dell'oratorio Semele di Handel.
    Ritorna sui suoi passi a distanza di ben 37 anni e dopo una stagione 2019 di concerti (tra cui a Santa Cecilia esattamente un anno fa) esce con questa nuova registrazione che su 3 DC o 68 file, propone una fresca rilettura di due ore e 35 minuti.
    Come sostenitore del Monteverdi Choir ho potuto acquistarla in anteprima perchè il disco sarà disponibile al pubblico solo il mese prossimo.
     



    Il Semele ha una storia non del tutto originale tra le mille opere di Handel.
    E' in inglese perchè sul finire degli anni '30 del 700 i londinesi ne avevano le tasche piene dell'italiano e degli italiani.
    E Handel che leggeva le foglie di té corse ai ripari gradualmente passando alla lingua inglese e agli oratori.
    E' il periodo del ritorno al sacro che culminerà con l'Ode a Santa Cecilia e al Messiah.
    E ad una serie di oratori sacri che ebbero discreto successo.
    Ma Semele no. Perchè il pubblico si aspettava un'altra storia biblica mentre i personaggi di questo oratorio sono pagani e dei dell'Olimpo.
    Perchè il tema è di fondo erotico con accenni farseschi o buffi.
    La musica è impegnativa e benchè ricca di momenti lirici di grandissimo livello, manca dei voli del periodo d'oro di Handel dei decenni prima.
    Non è di fatto un oratorio con i suoi recitativi eleganti e non è un'opera con i suoi 13 interventi del coro.
    La si rappresentava sul palco, senza scene. Mentre avrebbe meritato scene fastose.
    La prima donna, La Francesina (di cui parliamo in altra recensione proprio oggi, casualità non troppo casuale) doveva certo avere grandi doti anche se certa critica tendeva a demolirla letteralmente (ma in verità non ne abbiamo prove) però non era una superstar come la Bordoni e la Cuzzoni.
    Morale il Semele non venne rappresentato più nemmeno da Handel e fu dimenticato fino al 1957 per una ripresa che lo ha piano piano rivalutato fino agli ultimi anni con una ricca rappresentazione che culmina con questa di Gardiner e le sue compagini.
    E' un'opera impegnativa come dicevo (io la considero un'opera, non un oratorio), la musica è estremamente raffinata. E Gardiner per me non è un vero operista ma più un fine cesellatore al servizio della musica.
    Insomma i pareri saranno contrastanti, almeno per chi la ascolta per la prima volta in disco e non era alla Scala o Santa Cecilia l'anno scoro.
    Ma è un disco di rara bellezza con momenti splendidi. Il garbo è quasi "francese" ma l'eloquio praticamente .... "italiano" tradotto in inglese.
    E nonostante le pronunce terribili di certe cantanti dei nomi mitologici, bello come il Sogno di Mezza Estate.
    Forse abbiamo altri edizioni a disposizione e interpretazioni di arie famose più ispirate nella voce (penso a Endless Pleasure di Semele e Wherev'er you walk di Jove che sono nei repertori di molti cantanti celebri).
    E forse una Francesina più suadente l'avremmo apprezzata. Un Giove più possente e severo, forse.
    Ma il complesso è sublime e ci sono momenti degni di Serse.
    Insomma, un disco prezioso, una scelta in più e un ritorno dell'ultimo più asciutto e ricercato Gardiner che apprezziamo moltissimo.
  19. M&M
    Henry Purcell : King Arthur (1691)
    Gabrieli Consort, Paul McCreesh
     
    Anna Dennis, Mhairi Lawson, Rowan Pierce, Carolyn Sampson, soprano
    Jeremy Budd, controtenore
    James Way, tenore
    Roderick WIlliams, Baritono
    Ashley Riches, basso-baritono
    libretto di John Dryden
    Signum Classics, 2019, formato 192/24
    ***
     

     


    varie formazioni del Gabrieli Consort, in basso con Carolyn Sampson in primo piano.
    King Arthur è una semi-opera, cioè una composizione musicale/teatrale in cui i principali ruoli sono attori che recitano un testo teatrale mentre i cantanti sono ruoli secondari oppure divinità. Genere tipico nel barocco francese e inglese.
    E' una composizione particolare, perchè ha una chiara connotazione politica, nata dopo la restaurazione, ripensata durante la gloriosa rivoluzione e data alle scene con l'arrivo del nuovo Re Guglielmo d'Orange.
    Non narra le storie d'amore e gli atti cavallereschi di Re Artù, di Ginevra, di Lancelot e dei cavalieri della Tavola Rotonda.
    Nella realtà i protagonisti sono i britannici e i sassoni, capitanati da Arthur e da Oswald, con i loro dei.
    Calati nella realtà di quei giorni, in verità i britannici sono i Tories, Re Artù il defunto Carlo II, i sassoni sono i Whigs e Re Oswald è il Duca di Monmouth.
    Le due fazioni sono influenzate dall'intervento di divinità e semidivinità (Venere e Cupido, Wotan) che ne modulano le azioni.
    Il tutto si chiude con la sintesi tra le due popolazioni. L'auspicio, finalmente, dopo quasi 1000 anni, per la pace tra le due genti che comporranno il Regno.
    Grande successo di pubblico con numerose repliche anche negli anni a venire e nonostante la morte di Purcell (1695),e riprese anche negli anni a venire, proprio per il connotato politica.
    Se vogliamo esagerare con i riferimenti, passato Guglielmo, l'avvento dei Sassoni con Giorgio I d'Hannover - fondatore della dinastia che ancora regna nel Regno Unito - porterà a Londra il Sassone erede di Purcell, il giovane Handel che ne prenderà l'eredità come libero imprenditore.
    L'inglese Purcell stesso nell'ultimo periodo, dopo la morte di Re Carlo II, si libererà dagli incarichi ufficiale per lavorare come libero musicista senza contratti stabili.

    Al di là delle - doverose - note che definiscono King Arthur, la riproposizione in questa edizione curata personalmente da McCreesh con l'ausilio dei suoi colleghi del Gabrieli Consort, ne rende una versione ancora più particolare.
    L'opera nella sua storia ha avuto svariati rimaneggiamenti che l'hanno resa a volte pomposa sicuramente più di quanto intendevano gli autori in origine.
    Qui abbiamo 17 musicisti e 8 cantanti che fanno anche da coro.
    Il suono - con corde di budello intrecciato - è chiaro e terso. Limpido.
    L'inizio peraltro porta 4 brani da Amphytrion.  Poi l'Ouverture di King Arthur e un'aria strumentale.
    Poi l'inizio con l'ode a Wotan (Woden) e il sacrificio auspice per l'imminente battaglia dei sassoni contro i britanni.
    Quindi un continuo di arie, preludi, intermezzi, tunes per trombe per condurre al finale glorioso.
    Per Britannia e San Giorgio.
    E il ballo finale che sancisce la pace tra le due genti.
    Un'ora e trentasette di musica sublime, voci perfettamente equilibrate con il testo e la musica.
    Senza troppa enfasi né pompa, nello stile del Gabrieli Consort.
    Una grande prova di amore per il Molto Onorevole Mr. Henry Purcell, il più autenticamente inglese dei compositori britannici.
    ***
    Personalmente, per quanto colpito dal tono complessivo e dalla chiarezza di questa edizione, non posso dire di considerarla però superiore ad altre edizioni storiche, ad esempio quella di Deller con uno splendido Maurice Bevan o quella di Gardiner con i suoi solisti.
    Che pagano pegno solo per la ripresa ma hanno una carica di umanità e di senso scenico che un pò si perdono in questa ultima ripresa di McCreesh che a me è sempre sembrato un pò troppo "asciutto".
    Ma parliamo di sottigliezze, ognuno giudicherà. 
  20. M&M

    Recensioni : Opera
    Benedetto Marcello
    Arianna
    Athestis Chorus, Academia de li Musici, diretti da Filippo Maria Bressan
    Chandos 2000
    ***
    Benedetto Marcello, con il fratello Alessandro, possono essere definiti effettivamente dei compositori dilettanti.
    Dilettanti perchè, essendo nobili veneziani, nel '700 non potevano avere una professione.
    Ed in effetti non componevano che per diletto, loro e della loro cerchia.
    Non per questo non possono essere entrambi annoverati tra i più interessanti musicisti italiani dell'intero barocco.
    Questa composizione, in particolare, è probabilmente l'unico melodramma lirico di Benedetto, più incline alla musica sacra e strumentale o agli intermezzi vocali.
    Lo stesso autore non la definiva che una "trama scenico musicale" e fu composta di fatto per essere presentata in un consesso ristretto, probabilmente per intrattenere il Cardinale Ottoboni, nel 1727. E poi più, perduta sino al 1885, per essere pubblicata solamente nel 1948.
    Ed incisa per la prima volta in questo disco della Chandos nel 2019, praticamente due secoli dopo.
    L'intreccio è quello visto già innumerevoli volte da Monteverdi a Strauss, Arianna - che qui non si lamenta in tono drammatico - divisa tra il suo amore per Teseo che non la riconosce e la corte di Bacco che la vuole per se.
    Il libretto di tale Pietro Pariati in se non è grande cosa, ma la musica è degna di Handel e che rappresenta una novità per il teatro veneziano (sebbene, come dicevamo, Benedetto non compose mai per il teatro pubblico, certamente influenzò altri compositori che ascoltarono la sua opera). E c'è il coro, oltre ai solisti, cosa inusuale in composizioni del genere.
    Già l'ouverture in tre parti rivaleggia con quelle del sassone.
    E poi c'è un'aria che da sola vale l'intera opera e che è tra le gemme del barocco italiano.
    Arianna, sconsolata, si rivolge al suo amore Teseo dicendo :
                                              "Come mai puoi vedermi piangere senza che frangere il cor ti senta?
                                               Come mai spenta è in te pietà?
                                               Morta mi vuoi?
                                               Crudel m'esanima.
                                               Togli a quest'anima la pena amara, che da te cara la morte avrà."
    con una melodia dolce e delicata ma di espressività da togliere il fiato.
    L'aria è disegnata con un accompagnamento obbligato a due flauti, estremamente originale (che ricorda certe arie di cantate di Bach : ricordiamoci che Benedetto Marcello nacque nel 1686, Bach ed Handel nel 1685, Bach non conobbe Marcello ma ne leggeva e trascriveva la musica, Handel invece lo incontrò più volte nei suoi viaggi in Italia).
    Il punto debole della composizione è probabilmente la soavità complessiva che non indugia sul tono drammatico ed anzi, appena può, gira sul festoso, non appena è chiaro che Bacco avrà la meglio su Arianna e che Teseo riuscirà a fuggire con Fedra, sorella di Arianna.
    Non è un limite perchè probabilmente la destinazione - intrattenimento - e il consesso - eruditi, musicisti e prelati - richiedeva un tono lieve.
    Il melodramma per un pubblico comune non era l'obiettivo della composizione.
    Questo lascia un pò l'amaro in bocca perchè di fondo poteva veramente uscirne un'opera di livello mondiale.
    Nell'ultimo periodo l'aria ha un certo successo - è stata registrata in un paio di raccolte, tra cui l'ultimo disco della Kozena (non particolarmente brillante) - mentre questa è l'unica registrazione dell'intera Arianna.
    La direzione è brillante, le voci perfette, lo stile adeguato al profilo, la registrazione priva di difetti.
    La riscoperta di questa composizione colma un vuoto nella purtroppo non copiosissima discografia dedicata ai fratelli Marcello ed ad altri nobili musicisti veneziani, eclissati sempre dalla fama non sempre meritata di Vivaldi, alla cui ombra certamente, dovettero sottostare in vita (e in morte).
  21. M&M

    Recensioni : Opera
    Wolf-Ferrari : Il segreto di Susanna, intermezzo in un atto
    Serenata per archi in mi bemolle maggiore
    Judith Howarth, soprano
    Angel Odena, baritono
    Oviedo Filarmonia diretta da Friedrich Haider
    Naxos 2019, 44/24
    ***
    Non conosco la ripresa del 2010 di Vassily Petrenko a Liverpool ma ricordo l'edizione più storica della Decca condotta magistralmente da Lamberto Gardelli.
    E' una rarità questo intermezzo in un atto che richiama l'opera buffa italiana del settecento quando il panorama lirico è intriso di drammae tragedie.
    Lieve ed intensamente ... mediterraneo che nulla ha a che vedere con Strauss o Puccini, tantomeno con Wagner.
    Vi rimando alla trama ben descritta nel libretto (un fresco marito geloso pensa dapprima che la moglie abbia un amante "fumatore", lui detesta il fumo già dall'odore, lei indulge con le sigarette per ristorarsi in qualche modo dall'eccessiva guardiania del marito, poi la scopre, è lei e non il suo amante né il servitore che intanto prepara la cioccolata. Un richiamo della Serva Padrona che in qualche modo fa da modello a questa piccola opera).
    L'ouverture è un piccolo capolavoro di temi intrecciati, di contrappunto, di frizzantezza (tanto brillante da essere stata incisa anche da Bernstein)
    E tutta la composizione (13 tre arie e duetti, anche con accompagnamento al piano solo) è fatta di pura melodia all'italiana, del pur italiano solo per parte di madre, Wolf-Ferrari. Il finale riprende i temi dell'ouverture 
    Aggiungo solo che la composizione data 1905-1909 ed è stata composta ed eseguita per la prima volta a Monaco nel 1909, in tedesco. L'autore aveva una trentina d'anni. Di li a poco l'Europa sarebbe annegata nel sangue, Mahler stava completando la sua opera.
    E proprio contemporaneamente a questo momento di gioioso menage familiare dell'epoca edoardiana, Schonberg impostava atonalità e dodecafonia, probabilmente quanto di più lontano dal mondo musicale del brillante Ermanno Wolf-Ferrari.
    Ancora più lieve e con un leggerissimo sentore di melanconia (ma leggero, leggero), la serenata per archi del 1893 (l'autore diciassettenne).
    L'articolazione delle parti è già ricca e si permette di chiudere il finale con un fugato estremamente veloce.
    L'ispirazione è mozartiana ma non è affatto una operazione di restaurazione musicale, si tratta di una piccola gemma che è ben più interessante, musicalmente, di altre più celebrate nei repertori correnti (tipo, senza fare nomi, quella di Chaikovsky).
    Una bella operazione di recupero di Naxos che approfitta di un cast di primordine.
    La soprano è ben conosciuta ed ha cantato per Soldi, Abbado e Sinopoli.
    Il baritono spagnolo è ad uso al repertorio italiano (tra Verdi e Puccini).
    Il direttore è austriaco ma ha sangue italiano ed è un estimatore dell'opera di Wolf-Ferrari.
    L'interpretazione nel complesso è molto ben condotta, su toni frivoli e frizzanti che richiamano effettivamente più la musica italiana del barocco (senza strafare) dove invece quella meno recente di Gardelli ha come modello, probabilmente, Mascagni.
    Bel disco che consiglio anche per andare oltre la curiosità, Ermanno Wolf-Ferrari è un compositore di cui dovremmo andare più fieri, noi italiani.
    Edizione alternativa, Decca (probabilmente introvabile) :

  22. M&M

    Recensioni : orchestrale
    British Music for Strings I
    Parry, Elgar, Jacob
    Sudwestdeutches Kammerorchester Pforzheim diretta da Douglas Bostock
    CPO 8/1/2021, formato CD, via Qobuz
    ***
    Trovo semplicemente deliziosa la An English Suite di Charles Parry che qui apre questo primo volume di quella che sembra una raccolta di dischi di musica inglese per orchestra d'archi.
    E' realisticamente una suite con tanto di minuetto e di sarabanda ma vicina ad una vera e propria sinfonia per archi.
    Qui è ben resa anche se conosco edizioni anche più frizzanti.
    Credo che comunque rappresenti bene lo spirito veramente britannico di questa composizione (scritta durante la guerra tra il 1914 e il 196)
    Segue una versione per orchestra d'archi scritta da Hans Kustovny della sonata per organo Op. 28 di Edward Elgar (1895). Si tratta di un arrangiamento tedesco contemporaneo (2006) di una composizione classicamente inglese.
    E' mantenuta l'atmosfera tranquilla dell'originale ma se con l'orchestra d'archi guadagna la tessitura della trama musicale, si perde l'immanenza organistica. Il risultato è interessante ma un pò criticabile.
    La sinfonia per archi di Gordon Jacob è il più recente dei lavori presentati in questo disco (1943).
    E' musica "tedesca", nel senso della tensione contrappuntistica, specie nel terzo movimento, tutto fatto di fugati ed abbastanza vivace (non proprio "molto vivace" come indicato dall'autore) e viene dopo due movimenti andanti, piuttosto desolanti.
    Probabilmente ispirati dal tempo di guerra.
    Nel complesso, probabilmente il brano più impegnato e tecnico dei tre ma il meno piacevole da ascoltare (tranne, appunti, gli interessanti fugati finali, molto tecnici ma poco musicali alla fine).
    Questo disco mi pare interessante ma un pò "freddo" e non troppo coinvolgente. Anche il suono degli archi è un pò freddo (ascoltato sia nei diffusori che in cuffia elettrostatica) e probabilmente questo non aiuta a convincere di più l'ascoltatore.
  23. M&M

    Recensioni : orchestrale
    Beethoven I Concerti per pianoforte e orchestra
    Ronald Brautigam, fortepiano
    Die Kolner Akademie diretta da Michael Alexander Willens

    Bis 2019, formato 96/24
    ***
    Il fortepiano non è uno strumento antico, non è un clavicembalo, è il primo tipo di pianoforte.
    Nato in Italia nel 1710 era caratterizzato sin dall'inizio dalla percussione delle corde al contrario degli altri strumenti a tastiere che invece pizzicavano le corde per ottenere il suono.
    Era costruito con una cassa di legno e fino alla prima metà del '800 è stato lo strumento di elezione dei musicisti europei.
    Già Bach apprezzo i fortepiani Silbermann di Berlino di cui Federico di Prussia aveva una collezione nelle sue residenze.
    Ma poi Mozart, Haydn e naturalmente Beethoven che pensò tutta la sua musica al e per il fortepiano.
    L'evoluzione con cassa interna in ghisa, l'allungamento della coda, corde più lunghe, spesse e tese, migliori sistemi di percussione portarono - ma solo nell'ultima parte della sconda metà dell'ottocento, al pianoforte che conosciamo oggi. Che solo nel '900 è diventato capace di intrattenere sale da concerto molto grandi ed assorbenti.
    Insomma, senza il fortepiano non ci sarebbero i fantastici Fazioli di oggi.
    E nemmeno tutta la musica per pianoforte del periodo classico e romantico.
    Il pianista olandese (classe 1954) Ronald Brautigam non è il primo ad usare il fortepiano (naturalmente ha un trascorso discografico e di performance con il pianoforte) ma è il primo (credo) a completare le opere di Beethoven a quello che era lo strumento di Beethoven.
    Dopo le sonate e tutte le variazioni è adesso il momento dei concerti.
    E intanto lo stesso Brautigam ha assunte anche l'aspetto ... di Beethoven.

    Ronald e Ludwig

    Brautigam al fortepiano in concerto solistico.
    Lo strumento usato per i primi tre concerti è un Paul McNuty del 2012, costruito sul modello originale Walter & Sohn del 1805.
    Anton Walter era il più famoso costruttore di fortepiano della sua epoca. I suoi strumenti erano molto costosi ma tra i suoi clienti annoverava Mozart, che comprò il suo fortepiano nel 1782 e Beethoven che ne acquistò uno a buon prezzo nel 1802.
    Si tratta di uno strumento in noce di 221 cm e circa 97 chilogrammi con la cassa alta solo 32cm.

    Per il 4° e 5° concerto invece Brautigam è costretto ad usare uno strumento più pesante del 1819, di Conrad Graf, lungo 240cm, alto 35 e del peso di ben 160 kg.

    Questo era il fortepiano di Beethoven, di Chopin, di Robert e Clara Schumann, di Liszt, di Mendelssohn e di Brahms.
    Bene, fatte queste premesse, come sono questi dischi ?
    Appena fatto l'orecchio alla pressoché mancanza di bassi del fortepiano e ad un suono più brillante e molto meno potente di quanto siamo abituati si comincia ad apprezzare l'equilibrio tra il solista e l'orchestra.
    La tessitura complessiva è più chiara, la tonalità complessiva lo è.
    Bratigam suona in modo molto brillante, specialmente nei primi tre concerti. Più ampolloso e più autoindulgente - come è giusto - negli ultimi due.
    E a me viene naturale immaginare che davanti a me ci sia lo stesso Beethoven ansioso di mostrarmi come sentiva lui le sue creature.
    Il risultato è estremamente convincente e questa, nel suo complesso, mi sembra una delle più belle interpretazioni di questi concerti degli ultimi anni.

    In una parola illuminante.

    Anche l'orchestra è molto brillante ma nel complesso leggera. Giustamente in equilibrio acustico con il solista.
    Certo da ascolto ravvicinato (come con i miei monitor) perchè in una sala delle nostre credo che in fondo non arriverebbe molto del volume complessivo.
    La registrazione nel suo complesso è chiara per non oscurare il pianoforte che si staglia perfettamente in mezzo all'immagine.
     
    - segnalo della stessa serie sempre da Bis e consigliatissimi :


    che costituiscono adesso un unicum complessivo sul Beethoven originale (non necessariamente filologico, qui in fondo c'è solo lo sforzo di ristabilire i volumi e i suoni originali ma la prassi esecutiva è quella moderna cui siamo abituati, almeno quando il solista si mette al servizio della musica con amore, passione, vicinanza con la partitura originale.

  24. M&M

    Recensioni : orchestrale
    Clara, Robert, Johannes : Darlings of the Muses
    Schumann : Sinfonia n. 1
    Clara Wieck Schumann : Concerto per pianoforte e orchestra Op. 7
    Johannes Brahms : Sinfonia n. 1
    Gabriela Montero : 5 improvvisazioni
    Gabriela Montero, pianoforte
    Alexander Shelley alla testa della Canada's National Arts Centre Orchestra
    Analekta 2020, via Qobuz Streaming
    ***
    Segnalo questo disco principalmente per l'interpretazione che non esito a definire straordinaria di Gabriela Montero del bel concerto di Clara Schumann.
    E' un concerto semplice, a prima vista banale che è facilissimo banalizzare con l'interpretazione.
    Ma il sangue latino qui ci mette la differenza e ne viene fuori una interpretazione realmente fuori dal comune.

    Sono anche molto interessanti le 5 improvvisazioni della stessa pianista che separano il concerto di Clara dalle sinfonie n. 1 di Robert e di Johannes che iniziano e chiudono il disco.
    Le due  sinfonie sono tese e intense allo stesso modo. Specialmente quella di Brahms, roboante e veloce sin dal primo rullo di tamburi. Se avete in mente Furtwangler o Bruno Walter .... ecco, l'opposto, secondo lo stile corrente di rilettura di Brahms, posto anello del Nibelungo.
    Si vede l'intento complessivo dei curatori del disco che tessono il legame tra i tre amici sul piano spiccatamente sentimentale.
    Buon suono, ampio e definito con un pianoforte e in generale tutte le voci soliste ben chiare ma senza sembrare ingigantite ad arte.
    Peccato che Qobuz non offra il libretto di questo disco perchè mi sarebbe piaciuto leggere il punto di vista degli interpreti.
    Rimarco ancora una volta la presenza e il valore di Gabriela Montero, una delle pupille di Martha Argerich che l'ha valorizzata a Lugano (ricordo una memorabile sonata per violoncello e pianoforte di Frank Bridge con Capucon che è sicuramente la mia preferita)

    Un disco che vi consiglio caldamente.

    Applausi, specialmente per il terzo movimento del concerto di Clara, emozionante e anche per le cinque improvvisazioni ben costruite ai confini tra i tre straordinari compositori qui rappresentati.
  25. M&M

    Recensioni : orchestrale
    Beethoven : Concerti per pianoforte e orchestra n.1 e n. 4
    Martin Helmchen, pianoforte
    Deutches Symphonie-Orchester Berlin diretta da Andrew Manze
    Alpha 2020, formato 96/24
    ***

    ci sono occasioni in cui la visione comune di due artisti che vedono allo stesso modo quello che stanno suonando fa la differenza.
    Come il caso di Backhaus con Hans Schmidt-Isserstedt, di Pollini con Addado, di Horowitz con Toscanini, di Van Cliburn con Fritz Reiner.
    Conta poco se ci sono altre edizioni, altri momenti più alti, altri dettagli. Il risultato si sente, si vede, si tocca.
    La foto qui sopra lo dimostra. E le seguenti di più

     

    Questo secondo disco - già mi era molto piaciuto quello con il 2° e il 5° che però non sono i concerti di Beethoven che mi piacciono di più - aggiunge una dimensione superiore. Perchè è passato più tempo. Perchè i concerti sono più belli o forse più adatti all'indole introversa dei due interpreti.
    Il primo è rotondo come deve essere. Il secondo intimo, come deve essere.
     I silenzi, i neri tra le note, eloquenti.
    L'atmosfera tesa ma rilassata allo stesso tempo.
    Il piano ha un suono e una calma olimpica che ricordano il miglior Curzon.
    Ogni nota è quella giusta.
    Ogni sottolineatura dell'orchestra è quella giusta. E il pianoforte risponde perfettamente a modo.
    Helmchen non è un pianista che ha bisogno di dimostrare di essere meglio di quello che sembra.
    E'.
    Complimenti ad Alpha che ha messo insieme questa coppia.
    Grande suono, degno di questa eccellente prova.
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