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  1. Prokofiev, sonate per pianoforte n.4, 7, 9. Alexander Melnikov, pianoforte. Hamonia Mundi 2019 *** Ritorna a Prokofiev l'imprevedibile ed eclettico pianista russo Alexander Melnikov. Dopo il primo disco, che comprendeva le sonate 2, 6, 8, questa seconda registrazione contiene tre sonate, le n. 4, 7, 9, molto diverse tra loro per stile e periodo di composizione. Se la settima sonata è probabilmente una delle pagine più note per pianoforte di Prokofiev, le altre due sono decisamente meno conosciute. Nella quarta sonata (1917), piuttosto cupa e introspettiva, così come nella più serena e comunicativa nona sonata (1947), Melnikov è davvero superlativo nel restituirci emozioni, contrasti improvvisi, cambi di colori e ritmi, con una sensibilità e una poesia poco comuni. Questa sua magistrale interpretazione della nona sonata è probabilmente una delle migliori in discografia. Mi ha lasciato invece piuttosto perplesso nella settima sonata (una delle tre sonate "di guerra"), affrontata da un lato con grande intensità, dall'altro con un'insolita e sorprendente prudenza. Se nella versione di Richter (che ne fu il primo esecutore, dopo averla imparata in soli quattro giorni) ci sembra di sentire i colpi dei cannoni e le bombe che esplodono, se nell'altra famosa interpretazione, quella di Pollini, siamo pervasi da una furiosa disperazione, sembra che qui Melnikov abbia meno successo nel trovare una propria visione interpretativa di questo lavoro, sicuramente più appariscente e virtuosistico rispetto alle altre due sonate del disco, più posate e reticenti. Il diabolico e difficilissimo ultimo movimento in 7/8 viene affrontato con insolita e disarmante lentezza, che rende priva di senso l'indicazione di "Precipitato" del compositore. Peccato, ma anche poco male, perché il disco è comunque da ricordare per le altre due sonate. Un altro passo falso di questo disco, purtroppo, è la qualità della registrazione, realizzata nei celebri Teldex Studio di Berlino: nonostante la dinamica e i timbri del pianoforte siano ottimamente restituiti, l'immagine del pianoforte sembra quasi quella di un'orchestra, con gli alti tutti a sinistra, i medi in mezzo e i bassi tutti a destra. Una scelta davvero incomprensibile da parte di un etichetta di livello come Harmonia Mundi.
  2. Le Six et Satie. Musiche di Auric, Durey, Honegger, Milhaud, Poulenc, Tailleferre e Satie. Pascal e Ami Rogé, pianoforte. Onyx Classics 2020. *** Nel tripudio discografico di celebrazioni del 250 anniversario di Beethoven, un po’ di musica francese giunge come una boccata di aria fresca. E quale musica più anti-germanica potrebbe esserci se non quella del cosiddetto Gruppo dei Sei, musica nata alla fine della grande guerra, sulla spinta dell’antagonismo bellico e di sentimenti nazionalistici, in antitesi alla pesantezza teutonica di Wagner. I compositori in questione sono Darius Milhaud, Arthur Honegger, Francis Poulenc, Germaine Tailleferre, Georges Auric e Louis Durey che, sotto l’influsso di Satie e Cocteau, ebbero un momento di coesione intorno al 1920, quando un critico musicale creò per loro la definizione di “Gruppo dei Sei”, sulla scia del russo “Gruppo dei Cinque”. In realtà questa vicinanza fu effimera e ognuno di loro seguì poi la propria strada, com’è normale. Se il rifiuto della tradizione tedesca è evidente, il tentativo di scrollarsi di dosso l’impressionismo di Debussy fu solo apparente: evidenti sono i numerosi riferimenti allo stile del grande compositore francese, pur sotto un abito ormai molto diverso. E’ musica per lo più disimpegnata, spesso scherzosa e brillante, divertente da ascoltare, nazionalista sì, ma al tempo stesso aperta a tutte le influenze musicali che attraversarono Parigi in quegli anni. Ascoltandola oggi stupisce per la sua modernità e viene quasi da dire che questa musica è invecchiata molto meglio di quella di tanti compositori venuti dopo. Pascal Rogé, qui accompagnato dalla moglie Ami, è un pianista straordinario, sicuramente uno dei migliori nel rendere al meglio il repertorio francese (ricordo una bellissima integrale di Poulenc e tanti altri bei dischi). Negli ultimi anni ha inciso spesso in coppia con la moglie con ottimi risultati. Un disco che mi ha regalato degli autentici momenti di buonumore (cosa rara di questi tempi) e che mi sento di consigliare anche a chi ha poca familiarità con questo repertorio.
  3. Ho iniziato a fare acquisti su Qobuz già nel 2013, poi da qualche tempo sono passato all'abbonamento per lo streaming e non tornerei più indietro. L'offerta di musica classica, che è quella che più mi interessa, ma anche di musica di altri generi è molto, molto ampia. Come Mauro, anche io quando trovo un disco che mi piace molto (sempre meno in realtà, sto diventando più difficile...) preferisco acquistarlo e averlo definitivamente nella mia collezione.
  4. Mi è capitato di ascoltare negli stessi giorni due dischi dedicati a Schubert di due artisti molto diversi tra loro e così ho deciso di farli salire sul ring per una sfida all'ultima nota. Signore e signori, preparatevi a un incontro senza pari. Da un lato l'esuberante georgiana Khatia Buniatishvili, classe 1987, dall'altro lo schivo pianista tedesco Alexander Lonquich, classe 1960. Partiamo dalla veste grafica. Khatia si presenta come una novella Ophelia, vestita di bianco e semi-annegata in acque torbide: Se da un lato vien da pensare al celebre Lied "La morte e la fanciulla", visivamente questa immagine richiama la celebre Ophelia del pittore preraffaellita John Everett Millais: Passiamo alla copertina del disco di Lonquich, dove ci appare un primo piano del pianista con gli occhi chiusi, di tre quarti, in penombra, con uno sfondo nero: Per una strana associazione della mia mente stramba, a me questa immagine ha fatto venire in mente il Kurtz di Marlon Brando in Apocalypse Now di Coppola: Per fortuna, appena aperto il libretto Lonquich ci appare in un ritratto vagamente più rassicurante con gli occhi aperti: Dovendo scegliere tra le due, la mia preferenza va a Khatia, per aver avuto il coraggio di posare nell'acqua gelida pur di realizzare questa copertina Copertina: Khatia Vs Alexander 1-0. Passiamo ora ai programmi dei due dischi: Khatia Buniatishvili esegue di Franz Schubert: - Sonata per pianoforte N.21 D.960 - 4 Improvvisi Op.90, D.899 - Ständchen, trascrizione di Franz Liszt S. 560/7 dal Lied D.957/4 Alexander Lonquich invece esegue di Franz Schubert: - Sonata per pianoforte N.19 D.958 - Sonata per pianoforte N.20 D.959 - Sonata per pianoforte N.21 D.960 - 3 Klavierstucke D.946 Il disco si intitola 1828, anno in cui furono composte queste opere e anno in cui morì il giovane Franz. Decisamente più denso e impegnativo il programma presentato da Lonquich. Voto sul programma: Khatia Vs Alexander 0-1. Proseguiamo e andiamo a leggerci i libretti che accompagnano i due dischi. Cominciamo da quello della Buniatishvili. Al di là di altri due ritratti della giovane georgiana sempre immersa nelle stesse acque fredde e torbide della copertina, il libretto ci stupisce per un breve saggio della stessa pianista intitolato "Note di una femminista", dove ci parla del lato femminile, della vulnerabilità e della grande sensibilità di Schubert. Rimango un po' perplesso e rimango in ogni caso convinto che il femminismo sia una cosa ben diversa da quanto ci dice Khatia. Passo al libretto del disco di Lonquich, dove trovo un saggio anche in questo caso scritto dall'interprete stesso. Lonquich analizza le quattro opere in programma, fornendo spunti e rimandi molto interessanti. Davvero un'ottima lettura, che ci serve anche per capire le scelte interpretative. Anche per il libretto non c'è storia... Voto sul libretto: Khatia Vs Alexander 0-1. Passiamo ora alla parte più gustosa: il confronto tra le due interpretazioni. Le scelte dei due pianisti non potrebbero essere più diverse. In verità, ho trovato entrambi i dischi spiazzanti, ma per motivi opposti. La lettura della Buniatishvili, che come sappiamo mira a esaltare l'aspetto femminile di Schubert, tende a restituirci un'atmosfera ovattata di calma assoluta, in cui ogni asperità appare smussata, ogni contrasto appiattito. Il rischio che corre è che le "celestiali lunghezze" di Schubert (come le aveva definite Schumann), diventino dei languidi momenti di torpore. La sonata D.960 scivola via con dolcezza, senza troppi sussulti, se non fosse per alcune repentine accelerazioni e decelerazioni, che spesso non sembrano giustificate. Anche i quattro improvvisi op.90 non lasciano il segno e confermano l'impressione di un'interpretazione che, nonostante le intenzioni, non vada mai in profondità. Ho trovato anche la lettura di Lonquich piuttosto spiazzante e ammetto di aver ascoltato il disco più volte prima di ritrovarmici. Il suo è uno Schubert molto diverso da quello al quale siamo abituati. Diciamo innanzitutto che Lonquich sembra non voler fare molto per compiacere l'ascoltatore: Il timbro è spesso spigoloso e duro, dimentichiamoci il suono morbido e raffinato di un Brendel o addirittura di Zimerman e lo Schubert intimo e consolatorio che ci ha tramandato la tradizione. Al contrario di Khatia, i contrasti vengono portati all'estremo e ogni piccola asperità della partitura viene enfatizzata, restituendoci uno Schubert tormentato, in cui la tensione drammatica viene amplificata nota per nota, creando un collegamento evidente con l'ultimo Beethoven. Si percepisce che quella di Lonquich è una visione maturata a lungo nel corso degli e che questa interpretazione è il frutto di un'analisi e di uno studio che hanno scavato a fondo la partitura. Il risultato può essere più o meno persuasivo (personalmente ho apprezzato di più la 958 e la 960 del resto del programma) e soprattutto può convincere o meno l'ascoltatore, abituato ad ascoltare uno Schubert generalmente molto diverso da questo, ma comunque penso che meriti un grande rispetto. Dovendo scegliere tra le interpretazioni di Khatia e Alexander, anche qui non ho dubbi. La lettura di Lonquich, per quanto spiazzante e molto personale, lascia il segno e rimane impressa nella memoria. Quella di Khatia, non me ne voglia!, l'ho trovata acerba e superficiale. Voto sull'interpretazione: Khatia Vs Alexander 0-1. Un'ultima nota sulla qualità della registrazione dei due dischi. Il pianoforte della Buniatishvili mostra un'enfasi eccessiva sul registro medio-basso, che appare gonfio e riverberante, pur mantenendo una mano destra leggibile e chiara. Molto più omogeneo e limpido il suono del pianoforte di Lonquich, anche se un po' "asciutto", reso in ogni caso in maniera più realistica e convincente dagli ingegneri del suono dell'Alpha, che battono a sorpresa quelli di Sony. Voto sulla qualità della registrazione: Khatia Vs Alexander 0-1. Siamo arrivati alla fine della nostra sfida: Alexander Lonquich sconfigge senza troppa fatica Khatia Buniatishvili, con il punteggio finale di 4 a 1. Ci farebbe piacere vedere un pianista del calibro di Lonquich più presente sul mercato discografico e sicuramente ci fa piacere vedere che l'etichetta Alpha gli abbia permesso di realizzare questo disco. *** I due contendenti di questa sfida: Khatia Buniatishvili, Schubert. - Franz Schubert, Sonata per pianoforte N.21 D.960 - Franz Schubert, 4 Improvvisi Op.90, D.899 - Franz Schubert, Ständchen, trascrizione di Franz Liszt S. 560/7 dal Lied D.957/4 Sony Classical, 2019. _____ Alexander Lonquich, 1828. Franz Schubert: - Sonata per pianoforte N.19 D.958 - Sonata per pianoforte N.20 D.959 - Sonata per pianoforte N.21 D.960 - 3 Klavierstucke D.946 Alpha, 2018.
  5. Schubert, Fantasia “Wanderer” D 760 op. 15 Berg, sonata per pianoforte op.1 Liszt, sonata per pianoforte in Si minore S 178 Seong-Jin Cho, pianoforte DG 2020 *** Vincitore del Concorso Chopin nel 2015, il coreano Seong.Jin Cho è ormai un pianista affermato, con un contratto stabile con DG e ormai già qualche disco al suo attivo. Qui ci propone un programma tanto bello quanto impegnativo: la Fantasia Wanderer di Schubert, la sonata di Berg e quella di Liszt per concludere. Cho possiede una tecnica ineccepibile: un fraseggio elegante, una gamma timbrica sgargiante, un virtuosismo mai appariscente. Il suo Schubert è di alto livello, tecnicamente immacolato, con un controllo e una resa dell’architettura del brano impeccabile. Tuttavia mi sento di dire che è convincente, ma non sconvolgente. Al giovane Cho manca ancora qualcosa. La sua Wanderer non ha l’impeto di un Richter, il furore di un Pollini, l’introspettiva complessità di un Brendel, la follia di un Sofronitsky. E’ come se ci fossero un controllo e una reticenza eccessivi, quando invece ci sarebbero voluti un po’ di rischio e di slancio in più. La bellissima sonata di Berg viene eseguita con una sensibilità straordinariamente acuta. È ben presente quel senso di inquietudine che in fondo la accomuna con le altre due opere di questo disco. Cho è in grado di rendere alla perfezione la filigrana dei vari piani sonori, le impennate e le decelerazioni della musica, con una palette timbrica di prim’ordine. Rispetto alla lettura di Pollini, che guarda avanti alla musica degli anni successivi, Cho ha un approccio più tradizionale. È la sonata di Liszt, che chiude il disco, il brano che mi ha convinto di più. Tutto il virtuosismo di Cho è al servizio della diabolica partitura del grande compositore ungherese e questa volta c’è anche quello slancio che finora ci era mancato. Certo è che non mancano le grandi interpretazioni di questa sonata ed è sempre difficile per un giovane pianista poter dire qualcosa di nuovo. Il risultato è comunque di tutto rispetto. Ripensando a questo disco nel suo complesso, mi sento assolutamente di consigliarlo. Mi rimane comunque l’impressione di trovarmi di fronte a un ottimo pianista dotato di grandissimi mezzi, ma che ancora deve trovare la sua strada dal punto di vista interpretativo, quella strada che gli permetterebbe di lasciare il segno. Se lo confrontiamo con i suoi quasi coetanei, non trovo né l’elettrizzante fantasia di Benjamin Grosvenor, né lo slancio e l’intellettualismo di Igor Levit o la felina naturalezza di Yuja Wang. Poco male, va bene anche così. Vorrò dire che il meglio deve ancora venire. Modificato 9 Maggio 2020 da Eusebius
  6. Ma Beatrice è molto meglio di una rockstar!! Programma non particolarmente originale, ma sono comunque assai curioso di ascoltarlo.
  7. Io sull'isola deserta invece vorrei portarci uno strumento che non so suonare, una chitarra, ad esempio, oppure una tiorba! Faccio molta fatica a pensare ad un solo disco...uno a cui sono affezionato è questo:
  8. '900 Italia. Musiche per pianoforte di Busoni, Alaleona, Malipiero, Lupi, Savagnone, Berio, Cartiglioni, Mosso, Colla. Gialnuca Cascioli, pianoforte. DG 2019 *** E' davvero interessante il progetto dedicato alla divulgazione del repertorio pianistico del '900 che il pianista e compositore italiano Gianluca Cascioli sta portando avanti da qualche anno. Il percorso che ci propone segue un ordine geografico: dopo un primo disco dedico ai paesi dell'Est, diciamo dell'ex Unione Sovietica (Russia, Ucraina, Estonia) e un secondo dedico all'area austro-tedesca, arriva ora questo terzo album dedicato all'Italia. Le copertine dei dischi precedenti. Sono nove i compositori rappresentati in questa antologia che comincia con Ferruccio Busoni (1866-1924) e termina con Alberto Colla, nato nel 1968, passando per una serie di compositori più o meno noti: Domenico Alaleona (1881-1928), Gian Francesco Malipiero (1882-1973), Roberto Lupi (1908-1971), Giuseppe Savagnone (1902-1984), Luciano Berio (1925-2003), Niccolò Castiglioni (1932-1996), Carlo Mosso (1931-1995). Ammetto senza vergogna che molti di questi nomi mi erano del tutto sconosciuti, ma non potrebbe essere diversamente, perché tolti Busoni, Malipiero, Berio e Castiglioni, i restanti sono decisamente poco rappresentati in discografia. L'ascolto è stato ad ogni modo piacevolmente interessante. Nel selezionare queste opere Cascioli sembra aver seguito il disegno preciso di conquistare l'ascoltatore con un repertorio che sia comprensibile e "ascoltabile" anche e soprattuto per i non specialisti, evitando le avanguardie più ostiche. E noi per questo lo ringraziamo! Apprezziamo molto di più un progetto come questo, che con intelligenza e entusiasmo prova a portare la musica del '900 a un pubblico più ampio, piuttosto che l'ennesima incisione dei 24 Preludi di Chopin. In sintesi, un disco sicuramente molto interessante che consiglio a chi abbia voglia di esplorare territori nuovi e autori poco conosciuti. Riporto per chi fosse interessato la tracklist: 1 Busoni: 7 Elegien, BV 249 - 7. Berceuse 2 Busoni: Sonatina No.4, BV 274 "in diem nativitatis Christi MCMXVII" 3 Alaleona: La città fiorita, cinque "impronte" per pianoforte - 2. Crisantemo 4 Malipiero: Risonanze - 1. Calmo 5 Malipiero: Risonanze - 2. Fluido 6 Malipiero: Risonanze - 3. Non troppo mosso 7 Malipiero: Risonanze - 4. Agitato, non troppo 8 Lupi: 6 Studi per pianoforte - 1. Vivo e fresco 9 Lupi: 6 Studi per pianoforte - 2. Moderatamente mosso 10 Lupi: 6 Studi per pianoforte - 3. Velocissimo 11 Savagnone: Prisma armonico, Op. 22 - Preludio No. 1: Allegro 12 Berio: 6 Encores - 3. Wasserklavier 13 Castiglioni: Sonatina per pianoforte - 1. Andantino mosso assai dolcino 14 Castiglioni: Sonatina per pianoforte - 2. Ländler. Allegro semplice 15 Castiglioni: Sonatina per pianoforte - 3. Fughetta. Allegretto 16 Mosso: Secondo quaderno per pianoforte 17 Mosso: Pièce mécanique per pianoforte (in memoria di E.Satie) 18 Mosso: 22 Preludi per pianoforte - No. 4 Canzone 19 Mosso: 22 Preludi per pianoforte - No. 11 Allegretto vivo 20 Mosso: 22 Preludi per pianoforte - No. 14 Allegro marziale 21 Mosso: 22 Preludi per pianoforte - No. 18 Canzone di culla 22 Mosso: 22 Preludi per pianoforte - No. 22 Molto allegro, volante 23 Colla: Notturno IV "Moonbow" 24 Colla: Notturno VII "Mosarc" 25 Colla: Notturno IX "Rope bridge" 26 Colla: Notturno X "Lunar Ephemeris"
  9. Arnold Schoenberg, Concerto per violino e orchestra, Verlkaerte Nacht. Isabelle Faust, violino. Swedish Radio Symphony Orchestra, Daniel Harding. Verlkaerte Nacht: Isabelle Faust e Anne Katharina Schreiber, violini, Antoine Tamestit e Danusha Waskiewicz, viole, Christian Poltéra e Jean-Guihen Queyras, violoncelli. Harmonia Mundi, 2020. *** La violinista tedesca Isabelle Faust è solita spaziare con facilità in un repertorio molto ampio che va da Bach alla musica del ‘900. Non sorprende quindi vederla ritornare alla seconda scuola di Vienna, dopo la bella incisione del concerto di Berg con Abbado del 2012, questa volta con un disco interamente dedicato a Schoenberg, contenente il concerto per violino e orchestra e Verklärte Nacht. Composto tra il 1934 e il 1936, negli anni travagliati e bui che seguirono la partenza dalla Germania nazista e il suo trasferimento in America, il concerto per violino e orchestra Op.36 fu dedicato ad Anton Webern ed eseguito per la prima volta nel 1940 a Filadelfia sotto la direzione di Leopold Stokovski. Al violino c’era Louis Krasner, lo stesso che nel 1936 aveva eseguito per la prima volta a Barcellona il concerto per violino di Berg. E’ un lavoro particolare: da un lato il linguaggio dodecafonico e una scrittura straordinariamente impegnativa per il solista (lo stesso Schoenberg scherzando diceva che il violinista “dovrebbe possedere una mano sinistra con sei dita”), dall’altra una struttura classica molto tradizionale in tre movimenti e soprattutto un lirismo davvero intenso. La Faust è davvero bravissima nell’insufflare passione ed energia a queste pagine e a dominare le difficoltà della partitura con assoluta scioltezza, ottimamente accompagnata da un attento e sensibile Daniel Harding e dall’orchestra sinfonica della radio svedese. Faust e Harding riescono a trovare il sottile equilibrio tra innovazione e tradizione di questo concerto, ma soprattutto a convincere l’ascoltatore che non è necessario essere profondi conoscitori delle tecniche compositive dodecafoniche per cogliere la bellezza di queste pagine. Nella seconda parte del disco Isabelle Faust abbandona Daniel Harding e la compagine svedese per riunirsi con un gruppo di amici nell’interpretazione di quella che è una delle opere forse più note di Schoenberg, Verklärte Nacht, qui nella meno nota versione originale per sestetto d’archi del 1899. Curiosamente Verklärte Nacht è un poema sinfonico composto per un complesso da camera, un sestetto d’archi appunto. Solo successivamente, nel 1917, fu arrangiato per orchestra d’archi. Verklärte Nacht fu la prima composizione strumentale di rilievo di Arnold Schoenberg. Lo stile compositivo guarda ancora al contesto tradizionale del sinfonismo tardo romantico tedesco, con abbondanza di materiali cromatici “tristaniani”. La musica segue con precisioni le varie fasi del testo poetico di Richard Dehmel, scrittore all’epoca molto in voga. Rispetto alla versione per orchestra d’archi, la versione per sestetto guadagna in essenzialità e trasparenza quello che perde in ricchezza sonora. Qui la Faust è accompagnata da un gruppo di straordinari artisti: Anne Katharina Schreiber, secondo violino, Antoine Tamestit e Danusha Waskiewicz, viole, Christian Poltéra e Jean-Guihen Queyras, violoncelli. Insieme ci accompagnano in questo percorso musicale e poetico, fino all’incredibile ultimo movimento che lascia l’ascoltatore letteralmente a bocca aperta. In conclusione è un disco che riconcilia, se ce ne fosse il bisogno, con un compositore considerato purtroppo ancora oggi “difficile”. Complimenti alla grandissima Isabelle Faust (e ad Harmonia Mundi) per il coraggio di pubblicare un disco di musica non certo popolare e complimenti a tutti gli artisti coinvolti per la passione e l’amore con i quali hanno ridato vita a queste pagine!
  10. Thomas Adès, concerto per pianoforte e orchestra, Totentanz. Kirill Gerstein, pianoforte, Mark Stone, baritono, Christianne Stotij, mezzo-soprano. Boston Symphony Orchestra, direttore Thomas Adès. DG 2020 *** Thomas Adès è un artista poliedrico che ama esibirsi sia in veste di pianista, che di direttore d’orchestra, che di compositore. Lo avevamo ascoltato tempo fafa accompagnare al piano Ian Bostridge in un’intensa lettura del Winterreise di Schubert, mentre più di recente lo avevamo ritrovato come direttore delle sinfonie sinfonie di Beethoven. In questo disco dell’etichetta DG compare invece nella duplice veste di compositore e direttore d’orchestra. Si tratta di registrazioni dal vivo che risalgono al 2019, il concerto per pianoforte con Kirill Gerstein, e al 2016, la Totentanz con Christianne Stotijn e Mark Stone. Adès è con ogni probabilità uno dei compositori contemporanei più eseguiti e più acclamati, certamente nei paesi anglosassoni, ma non solo. Il disco si apre con il concerto per pianoforte del 2018. Sin dalle prime battute appare chiaro che lo sguardo di Adès è rivolto ai modelli del passato: si possono sentire echi di Rachmaninov o di Tchaikovsky, di Bartòk nel secondo movimento, senza dimenticare lo swing frizzante di Gershwin. La scrittura è raffinata, ben assecondata da un Gerstein in forma smagliante, ed il risultato è assolutamente effervescente e spettacolare: possiamo immaginare l’entusiasmo del pubblico che ha assistito a questa esibizione. Se devo però dirvela tutta, al di là del piacere effimero dell’ascolto mi è rimasto poco: il continuo pastiche musicale, per quanto ottimamente organizzato, alla fine sa di maniera e ci dice poco di nuovo. Fosse stato scritto ottanta anni fa, il discorso sarebbe stato probabilmente diverso. Più interessante e più personale la seconda parte del programma con la Totentanz del 2013. Si tratta di una composizione per baritono, mezzo-soprano e orchestra. I testi sono tratti da un affresco del XV secolo ritrovato in una chiesa di Lubecca, poi distrutta durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale, che rappresentava diverse categorie sociali in ordine gerarchico discendente, cominciando dal Papa e terminando con un neonato. Tra un personaggio e l’altro c’era una rappresentazione della Morte danzante. Nell’opera di Adès la Morte è rappresentata dal baritono, mentre le figure umane dal mezzo-soprano. La partitura è densa e questa volta viene da fare un paragone con i lead orchestrali di Mahler. Ma sono pagine intense e emozionanti e non c’è nulla di manieristico a disturbarci. Christianne Stotijn riesce a caratterizzare i sedici personaggi umani con grande varietà e espressività, Mark Stone è perfetto nel suo ruolo lugubre e diabolico. Accompagnati da una Boston Symphony Orchestra assolutamente concentrata, ci guidano fino ad un finale che toglie il fiato. Arrivato alla soglia dei 50 anni Adès è nel pieno della sua maturità creativa e interpretativa. Ultimamente ce lo ha dimostrato in diverse registrazioni. Come compositore in diverse occasioni non ha catturato il mio gusto, ma questa Totentanz, in questa esecuzione, merita un ascolto attento. Thomas Adès, alla guida della Boston Symphony Orchestra con Christianne Stotijn e Mark Stone.
  11. Viviamo in un'epoca fortunata per quel che riguarda la riproduzione della musica. Ci sono tante tecnologie disponibili che permettono di ascoltare musica con molta semplicità e con costi più accessibili rispetto al passato. Vi propongo questo breve sondaggio per capire quali siano le vostre abitudini.
  12. Ecco, questo è un aspetto fondamentale per un corretto impiego degli auricolari: non basta infilarli nelle orecchie, ma devono proprio aderire perfettamente e sigillare il condotto uditivo.
  13. Premetto che non sono un espertodi auricolari. A mio avviso puoi certamente trovare degli auricolari wireless che suonino meglio dei tuoi attuali, ma non penso che la tua esperienza di ascolto possa venire stravolta. Diversa la situazione per gli auricolari non wireless: c’è maggiore scelta, ma se si va in ambito audiophile si arriva a cifre da capogiro (ne ho visti anche da 3500€) e a quel punto l’anello debole diventa il tuo telefono come player...
  14. Io Lizard l’ho ascoltato ieri sera. Anch’io ascolto da un pc portatile, ma collegato a tutto quello che ho descritto sopra
  15. Premessa Faccio una breve premessa prima di iniziare la recensione delle Adam Audio S3V. Sono passati ormai parecchi mesi da quando ho stravolto il setup del mio impianto hifi e penso che ormai sia arrivato il momento di condividere con voi le mie impressioni. Diversi mesi ci aveva impiegato anche l’amico Florestan a convincermi ad abbandonare la tradizionale configurazione con sorgente + pre + finale (integrato nel mio caso) + diffusori passivi a 2 vie e passare a qualcosa di molto diverso, ovvero usare un pc come sorgente + dac con pre integrato + diffusori attivi a 3 vie. Abbiamo già parlato su queste pagine di questo tipo di catena audio e in effetti, avendo ormai una collezione di dischi completamente digitalizzata che risiede su un NAS, aveva perfettamente senso liberarmi del lettore CD che ormai prendeva polvere da anni e del lettore di rete Naim e impiegare come sorgente un semplice laptop collegato al NAS. Come player uso con soddisfazione JRiver, che permette ogni tipo di personalizzazione, e da qualche tempo anche Audirvana. che è perfettamente integrato con Qobuz. Il segnale digitale in uscita dal PC viene poi mandato al DAC, nel mio caso il meraviglio DAC con Pre e Ampli cuffia bilanciato Master 11 Singularity di Audio-GD, marchio che negli ultimi anni ha sfornato ottimi convertitori DA e ampli cuffia con un rapporto qualità prezzo incredibile. Nel mio caso il Master 11 è diventato il cuore della mia catena audio, avendo il compito di convertire il segnale digitale in arrivo dal pc, di amplificarlo e di inviarlo o alle cuffie o ai diffusori attivi. Veniamo ora all’ultimo componente, ossia i diffusori attivi. Cosa sono innanzi tutto? Si tratta di speakers che contengono al loro interno una sezione di amplificazione ottimizzata per ogni driver. In pratica con questo tipo di setup si dice addio agli amplificatori finali perché i diffusori già li contengono al loro interno. Il vantaggio evidente di questa scelta è che il prodotto che esce dalla fabbrica è concepito e ingegnerizzato in modo che tutte le componenti si integrino alla perfezione tra di loro. Ogni driver ha il suo amplificatore, pensato, realizzato, ottimizzato per farlo suonare al meglio. Non abbiamo più un unico ampli che deve cercare di gestire più canali contemporaneamente, ma un singolo ampli calibrato per gestire un solo driver e che in soldoni deve fare solo una cosa e la fa bene. Questo si traduce in una maggiore riserva di potenza a disposizione di ogni singola via e quindi in una maggiore capacità di risolvere le necessità di ogni driver senza influenzare gli altri. Un altro vantaggio è che si eliminano un po’ di cavi, spesso costosi e fonti di interferenze, mentre quelli che rimangono sono bilanciati, quindi non costosi e pensati appositamente per ridurre le interferenze. In termini di spesa, se è vero che i diffusori attivi non sono in assoluto economici, lo diventano però quando consideriamo che l'esborso per un paio di diffuri passivi , ampli e cavi sarebbe sicuramente di gran lunga superiore a parità di qualità. Lo svantaggio di un diffusore attivo chiaramente è quello di essere un sistema completamente blindato, per cui non è possibile sostituirne delle parti in caso volessimo fare degli upgrade. Fatta questa premessa, arriviamo a parlare degli altoparlanti che ho scelto e che sono poi l’oggetto di questa recensione. Caratteristiche principali Si tratta degli Adam Audio S3V, diffusori attivi professionali a 3 vie, in pratica quelli che vengono definiti dei monitor. Sono strumenti pensati per chi lavora in studio e deve masterizzare, mixare o comporre, per cui devono avere una risposta in frequenza più lineare possibile, una spiccata capacità di rivelare i dettagli delle incisioni e quella di ricreare un palcoscenico virtuale. Ascolto prevalentemente musica classica, per cui linearità, dettaglio e soundstage sono elementi per me molto importanti. Il vantaggio poi di lavorare con questo tipo di setup è che, se desideriamo evidenziare qualche range di frequenze, ad esempio i bassi, le voci, etc, possiamo sempre equalizzare il suono a nostro piacimento, sia in JRiver che tramite i diffusori. La famiglia S di Adam Audio prevede anche un modello più piccolo a 2 vie (S2V) e un modello più grande e più potente a 3 vie con un woofer da 12" (S5V). Esite anche una versione orizzontale delle S2V che si chiama S2H. Gli S3V sono diffusori midfield, pensati quindi per essere usati a una certa distanza dall’ascoltatore, a differenza dei nearfield che solitamente sono sparati in faccia a chi ascolta. Sono piuttosto voluminosi: 53cm di altezza senza stand, 29 di larghezza, ma soprattutto sono molto profondi, 38cm, perché devono contenere tutta l’elettronica. Il peso è di 25kg. Solidi e massicci, ricordano più un carro armato che un sofisticato diffusore hifi! Sul davanti si notano i tre driver e l’uscita bass-reflex, mentre sul pannello posteriore troviamo la presa XLR per l’ingresso bilanciato, due prese XLR per audio digitale AES3 e collegare più diffusori in serie, alimentazione e interruttore, presa USB per collegare un pc per le regolazioni del DSP, un piccolo display OLED e una rotellina per regolare varie impostazioni (crossover, ottimizzazione dei driver, possibilità di scegliere tra 5 diverse equalizzazioni, di cui due già pre-impostate). Ogni driver ha una sezione di amplificazione dedicata: 500W in classe D per il woofer, 300W in classe D per i medi, 50W in classe A/B per il tweeter. Le frequenze di crossover sono a 250Hz e a 3kHz. Da specifiche Adam Audio la risposta in frequenza va da 32Hz a 50kHz, la distorsione armonica totale del 0.4% (sopra i 100Hz) e una SPL a 1m superiore a 124dB. Il fatto che siano diffusori a 3 vie permette, rispetto ai 2 vie, di avere un altoparlante ottimizzato per le medie frequenze, che sono quelle dove passa la maggior parte del segnale audio, uno dedicato agli alti e uno ai bassi. Ogni altoparlante gestisce quindi un range di frequenze più piccolo, permettendo quindi una migliore linearità, a patto che gli ingegneri facciano bene il loro lavoro e gestiscano bene le frequenze di crossover, ovvero quei punti in cui il suono passa da un altoparlante all'altro. Le basse frequenze (32-250Hz) sono gestite da un nuovo driver di casa Adam Audio da 9” realizzato espressamente per la serie S.. Per i medi c’è un interessante driver da 4” ibrido cupola/cono in composito di carbonio. Il driver è collocato in una guida d’onda concepita per favorire la dispersione del suono in senso orizzontale e limitarla invece verticalmente, questo per creare un’immagine larga con uno “sweet spot” ampio e ridurre le riflessioni del suono su superfici orizzontali poste di fronte al punto di ascolto (parlando di monitor si intende una console di mixaggio). Per gli altri (sopra i 3kHz) c’è il nuovo tweeter a nastro S-ART con la sua guida d’onda HPS (“high propagation system”), che come per i medi è progettata per offrire uno sweet spot molto ampio orizzontalmente. DSP Come si diceva prima, c’è la possibilità di accedere dal retro dei diffusori a un menù impostazioni che permettere di accedere alla regolazioni DSP e a 5 preset di equalizzazione. Se non fosse agevole accedere al retro dei diffusori, c’è la possibilità di fare queste regolazioni da pc, tramite una presa USB, utilizzando il software di controllo. Le due equalizzazioni preimpostate sono “Pure” (curva piatta) e UNR (Uniform Natural Response), una curva creata da Adam con una moderata accentuazione di basse e alte frequenze. Si può intervenire su 8 bande di equalizzazione: high shelf, low shelf e 6 filtri parametrici che permettono fino a +/-12dB di regolazione da 20 a 20kHz. Segnalo solo che le modifiche impostate via software hanno bisogno di qualche decina di secondi per essere memorizzate nei diffusori. Posizionamento Nel mio caso il posizionamento non ha richiesto molto tempo. Ho lasciato i richiesti 40cm di spazio dalla parete posteriore. Ho messo i due diffusori a circa 180cm l’uno dall’altro con un punto di ascolto a circa 3m. Gli S3V hanno suonato subito bene, con un’immagine ampia e coerente. Risposta in frequenza La risposta in frequenza è quella tipica di un monitor professionale: perfettamente lineare su tutta la gamma. Le basse frequenze cominciano a decadere poco dopo i 36kHz. Non ascoltando musica dal mio impianto in uno studio professionale o in un ambiente d’ascolto ottimizzato, ho equalizzato il segnale che va ai diffusori usando un software di correzione ambientale (Dirac). Qui vi riporto la risposta in frequenza reale misurata con Dirac e una possibile curva target (tipo Harman😞 E questa come dovrebbe apparire la risposta in frequenza in seguito alla correzione del software: La correzione apportata da Dirac è assolutamente efficace. Posso dirlo con certezza, perché in questi giorni sto avendo qualche problema con l'ultima release di Dirac, per cui non posso usarlo. La differenza è come tra il giorno e la notte! L’ascolto Ok, veniamo alla parte più interessante: come suonano queste S3V? La prima cosa che mi ha colpito è l’ampiezza e l’accuratezza dell’immagine che restituiscono, così come il fatto di avere uno sweet spot di ascolto effettivamente piuttosto esteso. C’è poi una sensazione di linearità e chiarezza lungo tutto lo spettro che colpisce molto. Bassi e medio bassi ci sono tutti, chiari, precisi, controllati, senza una sbavatura e con tutta la potenza che serve quando serve. Nella regione dei bassi profondi (sotto i 40Hz) si comincia a perdere sotto i 36Hz. Chi avesse la necessità di arrivare così in basso (non è che sia tanta la musica registrata che ci arriva), un subwoofer permetterebbe di arrivare ai 20Hz o poco più (Adam Audio realizza anche degli ottimi subwoofer), sempre che le nostre orecchie ci arrivino e che non ci si complichi troppo la vita con il setup del sub. La riproduzione della gamma media è semplicemente eccellente, per chiarezza, precisione, dettaglio e dinamica. E’ realmente difficile mettere in difficoltà questi diffusori, anche con le partiture più complesse. La voce umana suona naturale e reale. Negli alti, i tweeter a nastro S-ART fanno un gran lavoro, raffinati e dettagliati nel rendere gli strumenti che arrivano fin qui, tipicamente gli strumenti a percussioni. Vediamo ora qualche prova “sul campo”. Disco 1 Ligeti, L’escalier du diable, Pierre Laurent Aimard, pianoforte. Sony Classical, 1996. FLAC 44,1kHz/16bit. Un brano questo che sembra composto per mettere alla frusta il pianista, ma anche gli impianti hifi. Grandi dinamiche, cambi di registri improvvisi, la tastiera usata in tutta la sua estensione, suono percussivo, ma anche brevi tratti di sonorità ovattate. Pierre Laurent Aimard lo suona con passione e una buona dose di furore. La registrazione è ottima. Il pianoforte è ben centrato davanti a noi, nonostante i continui cambi di registro (quante volte capita di sentire dei pianoforti con i bassi da un lato e gli alti dall’altro?). Si sentono bene le risonanze della sala in cui è stato registrato, soprattutto quando Aimard pesta sulle note più acute. I transienti sono perfettamente gestiti. Le S3V non si scompongono mai durante tutto il brano. Il finale, con il pianoforte che viene lasciato risuonare dopo gli ultimi accordi per diversi secondi, è da brivido! Disco 2 King Crimson, "Starless" da "Radical action to unseat the hold of monkey mind". DGM 2016. FLAC 44,1kHz/24bit. Questo disco del 2016 riprende alcuni pezzi storici dei King Crimson. Parlando di Starless questa nuova registrazione è decisamente migliore di quella del 1976 presente nell'album Red. La formazione non è più la stessa, basti pensare che il mitico batterista Bill Bruford è sostituito da addirittura tre batteristi. Il riff di basso in apertura di Tony Levin è pieno, caldo e accattivamente. L'ingresso della chitarra Robert Fripp, acida al punto giusto e finalmente in primo piano rispetto alla vecchia incisione, regala un brivido di soddisfazione a tutti i fan, così come la voce calda e possente di Jakko Jakszyk. Ma la vera sfida di questa registrazione è la ripresa dei 3 diversi drumset: OK, è difficile rendere un palcoscenico così ampio, ma il risultato è comunque realistico e il contributo di ogni singolo batterista/percussionista si distingue in modo chiaro dagli altri. Disco 3 Beethoven, sinfonia n.5, Musicaeterna, dir.Teodor Currentzis, Sony Classical, 2020. FLAC 96kHz/24bit. Teodor Currentzis con la sua compagine Musicaeterna si esibisce in una (a tratti) feroce interpretazione della quinta sinfonia di Beethoven. Il disco ci offre un sofisticato esempio di ingegneria sonora. Ogni gruppo di strumenti è chiaramente distinguibile all'interno della trama sonora e nello spazio. Dal contrabbasso al flauto piccolo si sentono tutti ed ognuno ha una precisa collocazione nello spazio, con un'effetto di tridimensionalità sorprendente, anche se un po' artificioso. Disco 4 Fiona Apple, Fetch the bolt cutters. Epic, 2020. FLAC 48kHz/24bit. L'ultimo formidabile lavoro di Fiona Apple è stato registrato in casa, con una produzione ridotta all'osso. Pochi strumenti, molte percussioni e di ogni genere (Fiona usa anche una scatola contenente le ossa del suo compianto cane) e su di tutto la voce della Apple, che mai come in questo disco appare messa a dura prova. Tutto converge nel trasmetterci un messaggio di rabbia e viscerale insoddisfazione. Un inaspettato e violento pugno nello stomaco. E le nostre S3V che ci restituiscono la voce di Fiona Apple senza filtri di qualsiasi tipo, in tutta la sua ruvida e sconcertante bellezza. Disco 5 Avishai Cohen Trio, "Beyond" da "From the darkness". Razdaz, 2015. FLAC 96kHz/24bit. Il grandissimo contrabbassista israeliano Avishai Cohen qui in trio con il pianista Nitai Hershkovits e il batterista Daniel Dor in un bellissimo disco Jazz del 2015. Beyond è la prima traccia del disco e si apre con una travolgente e dinamica progressione. Con le S3V mi sento letteralmente scaraventato sul divano. Il contrabbaso di Cohen è potente è sempre in evidenza, il piano di Hershkovits limpido e con una notevole gamma dinamica, la batteria di Dor straordinariamente spumeggiante. Una gioia da ascoltare! Disco 6 Schumann, Myrthen. Christian Gerhaher, baritone, Camilla Tilling, soprano, Gerold Huber, pianoforte. Sony Classical, 2019. FLAC 96kHz/24bit. Lo Schumann giovanile dei Myrthen affidato alle voci di Gerhaher e Tilling e al pianoforte di Huber. Una bellissima interpretazione valorizzata da un'ottima qualità della registrazione. Il pianoforte di Huber è ben presente, il suono è pieno e caldo, leggermente in secondo piano, com'è giusto che sia. La voce della Telling chiara, brillante, a volte volutamente fragile. Quella di Gerhaher più matura, calda ed ambrata. Possiamo tranquillamente chiudere gli occhi e immaginare gli interpreti sul palco davanti a noi. Disco 7 Gustav Mahler, sinfonia n.2 "Resurrezione". Budapest Festival Orchestra, coro della radio ungherese, Lisa Milne soprano, Birgit Remmert contralto, Ivàn Fischer direttore. Channel Classics, 2006. FLAC 192kHz/24bit. La seconda sinfonia di Mahler è un'opera mastodontica che prevede un'orchestra decisamente rinforzata (10 corni, 8 trombe, 2 arpe, organo, 5 percussionisti), un soprano, un contralto e un coro. Probabilmente uno dei peggiori incubi per gli ingegneri del suono, che in questo caso fanno un lavoro davvero impressionante. A differenza della quinta di beethoven con Currentzis, in cui il punto di vista sembra essere quello del direttore d'orchesta che ha tutti gli strumenti intorno a sé, qui sembra di essere seduti in mezzo alla platea con l'orchestra ad una certa distanza e il suono dei vari strumenti dell'orchestra che si amalgamano perfettamente insieme. Preferisco questa impostazione, meno radiografica e più vicina al vero. Voci, coro e tutti i gli elementi dell'orchestra sono ben identificabili, ma alla stesso tempo parti di un tutto più ampio, con una dinamica che sembra non aver mai fine. Complimenti agli ingegneri di Channel Classics! Conclusioni Spesso le recensioni che si trovano online di materiale di questo tipo sono fatte da professionisti che li usano quotidianamente per lavoro. Non è questo il caso mio, che invece ne faccio un uso assolutamente ludico, per cui invito i professionisti capitati su questa pagina a prendere tutto quello che ho scritto fin qui e le mie conclusioni "cum grano salis". Personalmente, il passaggio da un paio di diffusori passivi agli S3V per me ha rappresentato un miglioramento notevole della mia esperienza di ascolto. Linearità e estensione della risposta in frequenza, dettaglio, dinamica, immagine, non c’è un parametro che non sia migliorato in modo significativo. Penso che per fare di meglio in ambito hifi (intendo non nel contesto dell’attrezzatura professionale) bisognerebbe spendere molto, molto di più. In fondo stiamo parlando di un diffusore a 3 vie con un sistema di amplificazione che arriva a 850W di potenza complessiva. Roba che nelle boutique hifi vengono vendute a costi esorbitanti. Chiaramente questi sono diffusori che non perdonano: se da un lato sono in grado di valorizzare tutte le incisioni di buona qualità, facendocene apprezzare tutte le sfumature, dall’altro sono spietati con quelle mediocri e non potrebbe essere diversamente. Sono pensati per chi predilige una riproduzione audio analitica e più neutra possibile, ma, come avete visto, oggi c'è la possibilità di lavorare sull'equalizzazione in maniera semplice e efficace per ottenere un suono complessivo più adatto ai nostri gusti o al genere musicale che stiamo ascoltando. Pro Prestazione audio complessivamente eccellente Immagine stereo ampia, stabile e coerente Ampiezza dello sweet spot di ascolto C'è una riserva di potenza a disposizione impressionante Rapporto qualità/prezzo molto elevato se paragonato al mondo hifi non professionale, non saprei dire invece per l'ambito professionale dove in questa fascia di prezzo ci sono altri concorrenti (Neumann, Genelec, etc), che non ho avuto la fortuna di ascoltare. Contro Aspetto: sono strumenti professionali, non di arredamento. L’estetica non fa parte dei loro punti di forza Software di controllo migliorabile Manca una griglia frontale per ripararli dalla polvere, cosa frequente in tutti i monitor professionali. Mancano una manciata di Hz nei bassi profondi per avere una risposta in frequenza perfetta
  16. Io che sono under 50 ho da tempo rottamato il mio vecchio impianto tradizionale. La mia musica sta tutta su un NAS oppure la pesco nello sterminato catalogo di Qobuz, un bel notebook apple che non usavo più come player, JRiver o Audirvana come software, un eccellente dac+pre AudioGD e per finire una coppia di splendidi monitor attivi mid-field della tedesca Adam Audio. E sono contento così! Se voglio togliermi qualche sfizio, mi compro un paio di cuffie nuove, ma ora i soldi li posso investire in ciò che più vale: la Musica!
  17. Beethoven, Trio per pianoforte Op.1 n.3 e Op.70 n.2 Trio Sitkovetsky BIS, 2020. *** Comincia nel migliore dei modi il primo volume di questa nuova integrale dei trii beethoveniani ad opera del giovane ensemble guidato dal violinista Alexander Sitkovetsky. Il numero d’opera non deve trarre in inganno: l’op.1 n.3 fu all’epoca una composizione molto innovativa nel portare questo genere dal repertorio salottiero di intrattenimento ad una dimensione più moderna. Talmente innovativa che l'insegnante del giovane Beethoven, Haydn, pur ammirandone le qualità, ne sconsigliò la pubblicazione, temendo che il pubblico non potesse capirlo. Si tratta in ogni caso del primissimo Beethoven, ancora lontano dall’eroico ardore del periodo centrale o dalle sperimentali astrazioni degli ultimi anni. Il Sitkovetsky ci stupisce subito per il suoi timbri pieni ed eleganti e lo slancio naturale e gioioso del fraseggio. I movimenti si susseguono con grande armonia e equilibrio, in un clima luminoso e gaio. Segue, a guisa di intermezzo, il graziosissimo Allegretto WoO 39, ultimo pezzo composto da Beethoven per trio, scritto per la giovane Maximiliane Brentano, “per incoraggiarla a suonare il pianoforte”. Non potrebbe essere più diversa l’atmosfera del ben più tormentato Trio Op.70 n.2. Privo di un movimento lento, questo trio si apre con un’introduzione sommessa in cui gli strumenti a canone introducono il primo tema, cui segue uno sviluppo decisamente più ombroso e passionale. Se l’Allegretto successivo sotto forma di variazioni, ha un carattere più ossessivo, L’Allegretto ma non troppo prende corpo da una splendida melodia nel più pure stile beethoveniano. Il Finale è un misto di esuberanza e virtuosismo, che ci porta a briglie sciolte verso la conclusione. Davvero irreprensibili i tre musicisti del Trio Sitkovetsky, sia nel equilibrio tra gli strumenti, con il pianoforte di Wu Qian che non domina mai e il violoncello di Isang Enders sempre perfettamente leggibile, sia nella giudiziosa scelta dei tempi. E’ nel complesso un interpretazione molto naturale e “classica”, ma per niente accademica e priva di qualsiasi affettazione. Aspettiamo il seguito! Ottimo anche la qualità della registrazione, che rende bene il suono caldo dell’ensemble con tutte le sue sfumature timbriche e ci restituisce un’immagine omogenea e realistica.
  18. Bottesini: Gran Duo concertante Piazzolla: Le Grand Tango Rota: Divertimento concertante Ödön Rácz, contrabbasso. Noah Bendix-Balgley, violino. Franz Liszt Chamber Orchestra Speranza Scapucci, direttore. Deutsche Grammophon, 2019 *** Ammetiamolo, tra gli strumenti ad arco il contrabbasso è sicuramente quello più trascurato dai compositori, pur rivestendo un ruolo fondamentale all'interno dell'orchestra. Stupisce quindi vedere che DG pubblichi un disco interamente dedicato a musiche per contrabbasso. Qui è il virtuoso ungherese Ödön Rácz che si cimenta con alcune delle pagine più note (agli esperti!) composte per questo strumento: il Gran Duo Concertante di Bottesini e il il Divertimento Concertante di Nino Rota. Giovanni Bottesini (1821-1889) fu un celebre contrabbassista, compositore e direttore d'orchestra ottocentesco, noto come il "Paganini del contrabbasso". Fu autore di diverse composizioni per questo strumento, tra cui questo Gran Duo concertante, qui nella trascrizione per contrabbasso e violino dall'originale (meno nota) per due contrabbassi. Si tratta di un bel pezzo di bravura, assolutamente godibile. Ho trovato tuttavia più interessante la seconda parte del programma, con il Divertimento Concertante per contrabbasso e orchestra di Nino Rota (1911-1979). Notissimo e prolifico compositore di musica per film (realizzò 157 colonne sonore!), Rota ebbe anche una consistente produzione di musica classica tradizionale di stampo neoclassico. Questo Divertimento Concertante ha una storia particolare. Bisogna sapere che Rota insegnò a lungo al Conservatorio di Bari e ne fu direttore dal 1950 fino al 1977. Nella stanza sopra il suo ufficio dal 1967 si tenevano i corsi di contrabbasso tenuti dal grandissimo virtuoso Franco Petracchi, che gli commissionò un'opera per il suo strumento. Il Divertimento fu composto tra il 1967 e il 1969. Se il secondo movimento, " Marcia", riprende scherzosamente alcuni degli esercizi che Petracchi faceva fare ai suoi allievi e che il povero Rota era costretto a sentire tutti i giorni dal piano di sotto, il terzo movimento "Aria", fu in origine composto per la colonna sonora del film "Dottor Zivago", progetto che poi per varie ragioni fallì e fu affidato a Maurice Jarre, che ci vinse l'Oscar. Il Divertimento Concertante è un lavoro brillante, pieno di humour e di momenti vivaci, così come di momenti più riflessivi e malinconici, come nel terzo movimento. Ricorda spesso il Prokofiev più sereno e scherzoso. Ödön Rácz è un grande: suona il suo contrabbasso con una sensibilità difficilmente immaginabile e riesce a farlo cantare con la grazia e la dolcezza dei suoi fratelli più piccoli. In sintesi, un disco molto piacevole, che raccomando volentieri!
  19. Beethoven, le sonate per pianoforte. Igor Levit, pianoforte. Sony Classical 2013/2019 *** Ormai è chiaro che Igor Levit è un pianista a cui piace darsi degli obiettivi ambiziosi: esordio impressionante con le ultime sonate di Beethoven, poi tutte le partite di Bach, poi un triplo album con Goldberg, Diabelli e le bizzarre variazioni di Rzewski, nel 2018 un personalissimo e densissimo concept album, Life. Ora arriva addirittura l’integrale delle 32 sonate di Beethoven! Incisa tra la fine del 2017 e i primi mesi del 2019, recupera le sonate 28-32 dal suo disco di esordio del 2013. Ma al di là della sua passione per le sfide, quello che impressiona sempre di Levit è la solidità delle sue scelte interpretative. Questa integrale colpisce per la coerenza e per la linearità dello stile attraverso tutto il ciclo di sonate. Analizzando i tempi utilizzati (questione perennemente dibattuta), Levit segue chiaramente la tradizione di Schnabel, che privilegia tempi veloci e accentua i contrasti tra movimenti veloci e movimenti lenti. E’ un Beethoven vigoroso, energico e scattante. E’ una scelta netta, da tenere in considerazione sulla base delle proprie preferenze. C’è continuità anche nel modo in cui è stato “ripreso” il pianoforte dagli ingegneri del suono, nonostante le registrazioni si siano svolte in tre luoghi diversi in periodi diversi. Non è un pianoforte come solitamente siamo abituati ad ascoltare, con microfoni molto vicini e un suono pulito e analitico con separazione tra i vari registri e se vogliamo poco realistico, ma è un pianoforte come potremmo sentirlo in una sala da concerti, ampio, con i registri ben amalgamati tra loro, ma meno “radiografico”. E’ un fatto questo che condiziona di molto tutta l’esperienza di ascolto. Si può perdere qua e là qualche sfumatura o qualche dettaglio, ma probabilmente si guadagna in impatto emotivo. Personalmente ho sempre trovato che questo tipo di registrazioni mi facciano rivivere molto di più l’esperienza del concerto. Prime sonate (1795-1800) Già dalle prime sonate, spesso punto di debole di altre integrali, così rivolte alla tradizione classica di Haydn e Mozart, ma già cariche di idee nuove, si capisce che il Beethoven di Levit è già tutto proiettato verso il futuro. I tempi sono piuttosto rapidi, le dinamiche accese. Pur mantenendo uno sguardo riconoscente verso il passato, lo Sturm und Drang è già arrivato. Questo è messo sempre più in evidenza man mano che si passa dalle prime sonate Op.2 via via verso letture sempre più energiche delle 3 sonate Op.10, dell'Op 13 "Patetica", fino all'Op.22 che chiude il periodo delle prime sonate, ma che già precorre il gruppo delle sonate di mezzo. Sonate Centrali (1801-1814) Con il gruppo delle sonate cosiddette centrali si va nel cuore della produzione beethoveniana ed è qui che emergono le capacità introspettive di Levit, che riesce con facilità ad andare sotto la superficie a cogliere l'essenza di ogni sonata. E’ un Beethoven energico e grintoso che vola sui tasti, ma con profondi momenti di riflessione nei movimenti lenti. Sono tanti i momenti degni di nota: una “Marcia funebre” cupa e intensa, una “Pastorale” di rara sensibilità, una "Appassionata" da ricordare, assolutamente viscerale e spericolata; la "Waldstein" ha un avvio sprintosissimo e un finale pirotecnico. Se devo proprio trovare qualche punto negativo, sorprende qua e là (e anche nelle sonate del primo gruppo) una certa fretta nei movimenti finali e nelle battute conclusive, quasi che il pianista avesse fretta di chiudere lo strumento e andarsene. Ma se guardiamo a questo gruppo di sonate nel loro insieme, sono evidenti da un lato la sicurezza, davvero senza esitazioni, del pianista nelle proprie scelte interpretative, dall'altra anche la volontà di mettersi in gioco e di prendersi dei rischi, anche a scapito di quella perfezione tanto ricercata in studio di registrazione. In questo senso questa integrale, anche per come è stata registrata, riporta all'ascoltatore le emozioni che di solito si possono provare in un’esecuzione dal vivo. Pur essendo un musicista di grande personalità, non ho trovato in queste esecuzioni quel desiderio di stupire a tutti i costi che spesso caratterizza le interpretazioni di un repertorio così frequentato. C’è anzi un rispetto per la lettera, ma soprattutto per lo spirito di questa musica, che vorremmo vedere più spesso (Vedi ultimo disco di Pogorelich). Sebbene Levit non abbia adottato scelte eccessive o estreme (Pollini in alcune sonate è stato ben più radicale), certamente alcuni potranno desiderare un po' più di respiro o un approccio più misurato o più contemplativo. Ultime sonate (1816-1822) Le ultime 5 sonate di questa integrale sono riprese dallo splendido disco di esordio del 2013. L'approccio si fa più riflessivo, specie nei movimenti lenti eseguiti con grandissima intensità (Op.101, Op.106) ad evidenziare il contrasto coni movimenti veloci eseguiti con il consueto vigore (si ascolti il primo movimento della "Hammerklavier", così febbrile e concitato). La capacità di rendere con lucidità l'architettura dell'opera nella sua interezza, dote davvero rara, qui è assoluta, così come l'abilità nell'accompagnare chi ascolta in un viaggio nella musica. Riascoltando oggi l'Op.111, a distanza di qualche anno dalla sua uscita e con l'ascolto freschissimo di questa integrale, mi rendo maggiormente conto di qualche passaggio leggermente troppo lento per i miei gusti, ma stiamo davvero parlando di dettagli. Ormai non ci devono più stupire le capacità e la maturità interpretativa e intellettuale di questo pianista. Quest'ultima fatica di Levit ne è un'altra riprova. Pur non mancando le integrali di peso (da quelle storiche di Schnabel, Backhaus, Kempff, Gilels, purtroppo non completa, Arrau, poi quelle di Brendel, Pollini, Barenboim, Kovacevich, fino ai giorni d'oggi con quella di Biss, ormai quasi completata), questa nuova integrale, costruita con una visione sicura, lucida e coerente, è destinata a essere ricordata. E ora che ha archiviato in una manciata di anni le 32 sonate e le variazioni Diabelli, forse Levit si dedicherà ai 5 concerti?
  20. Vorrei innanzitutto ringraziare Hifiman che ci ha fornito questi auricolari in cambio della nostra sincera opinione. La nostra analisi sarà quanto più possibile oggettiva e, anzi, comincio subito col dire che in redazione non siamo dei grandi fan degli auricolari, abituati come siamo ad ascoltare musica tramite cuffie tradizionali (quando non con diffusori), comodamente seduti in poltrona. Ho accettato però con entusiasmo l’idea di testare queste “cuffiette” prodotte da un’azienda molto nota in ambito hifi per le sue magnifiche cuffie magnetostatiche. E così veniamo a parlare di queste RE 600s V2, evoluzione delle RE 600 lanciate nel 2013 e appartenenti alla famiglia “premium” del catalogo di Hifiman. Si tratta di auricolari con un driver da 8.5mm, un diaframma in Titanio e un magnete in neodimio, pensati per ascolti di qualità su dispositivi portatili. Si presentano in una confezione davvero molto, molto bella, che stupisce per la cura che Hifiman ha voluto dedicare a questo prodotto. Al suo interno troviamo un’ampia scorta di “tappini”: 3 paia a doppia flangia (small), 2 paia a doppia flangia (medium), 2 paia monoflangia (small), quattro paia in silicone (small e medium). Tra gli accessori anche cinque coppie di filtri extra, nel caso col tempo si presentasse la necessità di sostituirli. In più Hifiman fornisce una comoda e compatta custodia da viaggio circolare (contenente ancora altri ear-tips). Sono auricolari di taglia piuttosto ridotta e, una volta trovata la coppia di adattatori che meglio si adatta alle nostre orecchie, sono in grado di fornire un buon isolamento dai rumori esterni. L’ingombro limitato e la loro leggerezza li rendono piuttosto comodi da utilizzare. Il cavo, cambiato rispetto alla versione precedente, è di buona sezione e termina con un jack dritto da 3.5mm. Da notare che il cavo è fisso, cosa prevedibile viste le dimensioni dell’auricolare. Prova d’ascolto Ho dovuto sottoporre questi auricolari ad un lungo rodaggio di circa 100 ore prima che cominciassero a dare il meglio delle loro possibilità. Da nuovi facevo davvero fatica ad ascoltarli. Per questa prova li ho accoppiati al fidato lettore Fiio X5. Bassi I bassi sono ben presenti, ma mai esagerati, anzi molto equilibrati e di qualità, in linea con l’impostazione molto neutra di queste cuffie. A volte sentiremmo l’esigenza di un basso più pieno e presente, ma servirebbe un driver più ampio per ottenerlo. Come prevedibile si percepisce una certa attenuazione dai 100Hz in giù. Medi Le medie frequenze sono il vero grande punto di forza di questi auricolari: il suono è aperto e trasparente, le voci umane hanno corpo e presenza e sono riprodotte con grande naturalezza. I timbri degli strumenti sono assolutamente realistici e ben bilanciati. Alti Le frequenze medio-alte presentano un buon grado di dettaglio, ma quando messe alla corda da alcuni strumenti (clavicembalo, ma anche pianoforte, chitarre elettriche) ho invece percepito una leggera asprezza che può rendere l’ascolto di alcuni brani un po’ faticoso a chi ha orecchie più sensibili a queste frequenze, come è il mio caso. Andando più su le cose migliorano, anche grazie ad un’evidente attenuazione della parte più alta dello spettro. Palcoscenico Il soundstage è a mio avviso il secondo punto di forza di queste cuffie: l’immagine riprodotta stupisce molto per ampiezza, profondità e capacità di separare e localizzare con precisione gli strumenti nello spazio e questo non è cosa da poco! Conclusioni Riassumendo, si tratta di un paio di ottimi auricolari che suonano in modo molto neutrale e ricco di dettaglio e che fanno della linearità nelle medie frequenze il loro punto di eccellenza, insieme a un palcoscenico virtuale davvero sorprendente. Nel trarre le conclusioni non si può fare a meno di considerare l’elemento economico. Questi sono auricolari che al momento del lancio venivano venduti a 400$ (negli USA), prezzo che trovo eccessivamente alto per quello che offrono. Oggi si possono trovare a 120€ nel più famoso negozio online del pianeta, mentre sullo store di Hifiman sono proposti in offerta addirittura a 64,99$, anziché a 200$. A questo prezzo diventano oggetti decisamente più interessanti e appetibili, con un rapporto qualità-prezzo molto favorevole, che mi rende molto più facile consigliarli a chi sia interessato a questo tipo di dispositivi. Siamo comunque, a mio avviso, ancora lontani da un’esperienza di tipo “audiophile”, come dicono nei paesi anglosassoni, per la quale bisognerà passare a modelli superiori per qualità e prezzo. Segnalo l’esistenza di un modello più economico, le RE400, che oggi si trovano intorno ai 60€, che mantengono la stessa impostazione molto neutrale delle RE600S e un’ottima gamma media, ma con prestazioni complessivamente inferiori, che potrebbe interessare chi ha un budget più ristretto. Pro Confezione molto bella, ideale per un regalo Leggerezza e comfort Dettaglio Palcoscenico ampio Suono bilanciato e neutrale Ampia disponibilità di eartips Contro Cavo fisso Basso un po’ esile Medio alti a tratti un po’ aspri
  21. Luigi Nono, Djamila Boupacha per soprano solo. Joseph Haydn, Sinfonia n.49 Hob.I:49. Géerard Grisey, Quattre chants pour franchir le seuil. Barbara Hannigan, soprano: Ludwig Orchestra. Alpha, 2020. *** La Passione è un disco in tre parti che ruota intorno al tema della morte, in varie forme e varie epoche. Ma passione è anche quel sentimento che Barbara Hannigan infonde in misure straordinaria in queste interpretazioni, nella doppia veste di cantante e direttrice d’orchestra. Il programma è sicuramente molto particolare e si apre con una composizione per soprano solo di Luigi Nono, Djamila Boupacha, dedicato alla giovane donna algerina che divenne un caso politico nel 1960, quando, dopo settimane di torture e violenze da parte dei soldati francesi, ebbe il coraggio di dire al giudice che la processava che la sua confessione era stata estorta sotto tortura e di chiedere l’indipendenza dell’Algeria. Il suo caso ispirò un quadro di Picasso, un libro di Simone de Beauvoir e una poesia di Jesus Lopez Pacheco, che fu musicata da Nono nel 1962. La voce duttile della Hannigan è assoluta protagonista di questo breve lavoro che dura appena cinque minuti, ma che ci commuove con il suo grido di dolore, ora intimo e sommesso, ora lacerato e urlato. Il contrasto con la composizione che segue, la sinfonia n.49 “La Passione” di Franz Joseph Haydn è solo apparente. Le note dolenti che aprono il primo movimento ben si sposano con lo sgomento nel quale ci aveva lasciato il lavoro di Luigi Nono. Ora Barbara Hannigan riposa la voce e impugna la bacchetta di direttrice per guidare la Ludwig Orchestra, compagine olandese con la quale collabora da diverso tempo, in una lettura intensa e ricca di pathos. Il piatto forte del disco ancora deve, ancora venire ed è rappresentato dai “Quattre chants pour franchir le seuil” (quattro canti per varcare la soglia), del compositore francese Gérard Grisey, per soprano e 15 strumenti. Sono delle meditazioni in musica sulla morte in quattro parti (la morte dell’angelo, la morte della civiltà, la morte della voce, la morte dell’umanità) cui segue una berceuse in conclusione. I testi dei vari movimenti provengono da epoche e civiltà diverse. Non è una composizione che portò bene al povero Grisey, che scomparve prematuramente poco tempo dopo averla terminata. È un ‘opera che richiede enormi capacità tecniche ai suoi interpreti, le cui voci si intrecciano e sovrappongono continuamente e addirittura si disgregano letteralmente nel terzo movimento “la morte della voce”. Ed è un’opera che richiede anche una discreta predisposizione da parte di chi ascolta a recepire questo linguaggio musicale e a lasciarsene coinvolgere. Ottimo il libretto che accompagna il disco, con un saggio della stessa Hannigan, tutti i testi delle opere di Nono e Grisey e tante belle foto (segnalo che la bella foto di copertina di Elmer de Haas ritrae la stessa Hannigan sott’acqua come una sirena!). Due parole sulla qualità della registrazione, davvero ottima in tutte e tre le parti che compongono questo disco: voce sola, orchestra classica e voce con ensemble. La stessa Hannigan in un’intervista ci spiega del rapporto di straordinaria fiducia che la lega all’ingegnere del suono, Guido Tichelman, che conosce da 25 anni e che, conoscendo ogni piega della sua voce, è in grado di consigliarla e di spingerla sempre al massimo:”è come se mi desse un paio di ali supplementari, proprio nel momento in cui ce n’è bisogno”. Un grande disco, non per tutti, ma comunque un grande disco!
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