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  1. Lang Lang: Piano Book Deutsche Grammophon 2019 *** Lang Lang Piano Book, che sarà mai? Un ispirato Lang Lang troneggia in copertina, in cappottino bianco e scarpe da tennis, mentre il suo Steinway a coda si apre come le pagine di un libro. Il programma non è quello di un classico recital di pianoforte, ma ricorda più una playlist, come va sempre più di moda oggi. Lang Lang ci dice di aver raccolto in questo disco una collezione di brani che lo hanno inspirato quando ha cominciato a suonare il pianoforte. C’è un po’ di tutto: da “Per Elisa” a “Clair de lune”, dal primo preludio del Clavicembalo ben temperato alle 12 variazioni di Mozart "Ah, vous dirai-je Maman”, ma anche musiche di film (“La valse d’Amélie”, “Merry Christmas, Mr Lawrence” di Sakamoto) e molto altro. All’ascolto, la musica scorre via senza troppi pensieri, l’istrionico Lang Lang abbonda in sentimento, suono vellutato e saccarosio. Il protagonista è lui: è la sua playlist e ogni brano viene affrontato con il medesimo approccio. Ma se non ci fermiamo qui e ci chiediamo a chi è destinato un prodotto editoriale (mi viene un po’ difficile chiamarlo diversamente) come questo, è evidente che l’ascoltatore difficilmente sarà l’accanito musicofilo alla ricerca dell’ennesima interpretazione dell’Hammerklavier di Beethoven o dell’Op.118 di Brahms. Questo disco è pensato per un mercato più ampio, di chi magari si avvicina alla musica classica per la prima volta e non ne deve essere respinto con musica troppo complessa, quanto piuttosto attratto con brani brevi, celebri e orecchiabili. Non bisogna dimenticare che Lang Lang è una stella planetaria, che ha suonato alla cerimonia di apertura ai giochi olimpici di Pechino nel 2008, così come alla finale dei mondiali di calcio di Rio nel 2014, ha suonato per Papa Francesco e per la regina Elisabetta II ed è stato nominato Messaggero di pace dall’ONU e ambasciatore UNICEF. Il suo personaggio, così conosciuto e che, se vogliamo, sprigiona un entusiasmo infantile, si dice che abbia inspirato 40 milioni di bambini cinesi a iniziare a studiare il pianoforte. La sua fondazione da 10 anni aiuta i bambini ad avvicinarsi al mondo della musica classica. E se un personaggio come Lang Lang, per quanto discutibile e criticabile dagli addetti ai lavori, aiuta a far sembrare il mondo della musica classica meno polveroso e austero e con un disco come questo contribuisce ad incuriosire e ad avvicinare nuovi appassionati alla musica classica, beh, che c’è di male in fondo?
  2. Robert Schumann, opere complete per pianoforte vol.XV. Florian Uhlig, pianoforte. Haenssler Classic, 2021. *** Segnalo l'uscita del XV volume dell'ottima integrale pianistica di Robert Schumann ad opera di Florian Uhlig. Questo volume è dedicato ad alcune seconde edizioni di opere giovanili e contiene gli Studi sinfonici, la terza sonata e l'Impromptus su un tema di Clara Wieck (le interpretazioni delle prime edizioni sono già apparse in altri volumi dell'integrale). Uhlig si conferma interprete sensibile e attento dell'universo schumaniano. Consigliato non solo ai "completisti".
  3. Beethoven, sonate per pianoforte Opp.109, 110 e 111. Steven Osborne, pianoforte. Hyperion, 2019. *** Steven Osborne ritorna alle ultime sonate di Beethoven, dopo il bel disco del 2016 in cui ci regalava una viscerale interpretazione dell’Hammerklavier. Qui troviamo le celeberrime ultime tre sonate (Opp.109, 110 e 111), cavallo di battaglia di tanti grandissimi pianisti. Lo scozzese è un ottimo musicista, con alle spalle una solida e invidiabile discografia, ma in questo disco penso che raggiunga uno dei punti più alti della sua carriera. E’ sorprendente la sua capacità di ridare vita alla partitura. Lo fa con naturalezza, energia, freschezza, intensità, attenzione al dettaglio e visione d’insieme allo stesso tempo. Si potrebbero fare mille confronti con i grandi del passato, così come con le interpretazioni più recenti. Mi vengono in mente tra queste ultime quelle di Igor Levit, Jean-Efflam Bavouzet e Jonathan Bliss, non mancano certo le versioni di riferimento e tante registrazioni memorabili, ma questo disco ha davvero quel qualcosa di magico che caratterizza il raggiungimento di una maturità artistica e di uno stato di grazia, che per nostra fortuna è stato impresso su disco. Forse è l'Op.110 il momento più alto di questo disco, senza nulla togliere alla 109 e alla 111. Ogni sonata è in ogni caso perfettamente caratterizzata e distinta dalle altre. Sono letture che amano esaltare i contrasti tra i momenti di grande delicatezza e profondità e quelli invece più violenti e esplosivi, riuscendo comunque a mantenere l'equilibrio tra gli estremi. Gli ingegneri del suono di Hyperion rendono fortunatamente onore alle qualità del pianista e dello strumento. E' un disco che ho ascoltato e riascoltato più volte negli ultimi mesi e mi sono ormai convinto che Steven Osborne ci abbia offerto una registrazione straordinaria, probabilmente una delle sue più riuscite, che si va ad aggiungere alle migliori dell'imponente catalogo delle ultime sonate del genio di Bonn. Consigliatissimo.
  4. Franz Schubert: - 4 Impromptus, op. 90, D. 899 - Piano Sonata No. 19 in C minor, D. 958 - 3 Klavierstucke, D. 946 - Piano Sonata No. 20 in A major, D. 959 ECM 2019 *** Questo disco, da poco uscito per ECM, ma in realtà inciso nel 2016, segue quest'altro disco del 2015, in cui András Schiff riprendeva un repertorio che aveva già registrato nella prima metà degli anni '90 fa per Decca, utilizzando questa volta uno strumento d'epoca: Franz Schubert: - Sonata Op.78, D. 894 - Moments musicaux, Op.94, D. 780 - 4 Impromptus, Op.142, D. 935 - Sonata No.21, D. 960 ECM 2015 I due album si completano perfettamente, per repertorio e scelte interpretative: le ultime tre sonate per pianoforte e la D.894, i Moments musicaux, i due cicli degli improvvisi e i 3 pezzi D.946, tutti eseguiti al fortepiano. Interessante la storia dello strumento che sentiamo in questi dischi. Bisogna sapere che negli anni in cui visse Schubert, c'erano circa un centinaio di fabbricanti di fortepiano a Vienna. Questo strumento fu realizzato nel 1820 da Franz Brodmann, fratello del più noto Joseph, che un giorno dovette vendere la sua attività a un suo allievo, che di nome faceva Ignaz Bösendorfer! Il fortepiano entrò in possesso della famiglia imperiale e ne seguì il destino fino all'esilio di Carlo I in Svizzera nel 1919. Fu restaurato nel 1965 e acquistato nel 2010 da Schiff, che lo ha lasciato in prestito presso la casa di Beethoven a Bonn. Nelle note di copertina del disco del 2015 era lo stesso Schiff che ci raccontava di quanto il suo approccio alla musica eseguita con strumenti d'epoca fosse cambiato nel corso del tempo a partire dai primi anni '80. Era agli inizi affascinato dagli aspetti legati alla filologia e dalla fedeltà al testo scritto, ma ostile ai dogmatismi dei puristi, anche perché spesso le incisioni di quei tempi erano di qualità discutibile per via sia degli strumenti impiegati che degli interpreti. La rivelazione per Schiff fu l'aver suonato il fortepiano di Mozart nella sua casa di Salisburgo: la definisce un'esperienza che gli ha cambiato la vita! I pianoforti moderni da concerto sono infatti strumenti pensati per "proiettare" il suono in sale da concerto da migliaia di posti, con una dinamica e una brillantezza di suono impensabili all'epoca di Schubert. La musica di Schubert era suonata nei salotti borghesi, agli amici, in ambienti relativamente piccoli e così un fortepiano dell'epoca ha una gamma dinamica ridotta, diciamo dal pianissimo al forte. Per questo motivo le composizioni per pianoforte di Schubert, pensate per quegli strumenti, sono tanto difficili da rendere con gli strumenti moderni, che rischiano di soffocarne la dolcezza. Il Brodmann di Schiff, nelle sue mani, invece, si muove a meraviglia tra queste pagine, regalandoci una gamma di timbri, di effetti e di sfumature tra il ppp e il forte che hanno qualcosa di magico. E' uno strumento particolare con quattro pedali, cosa non inusuale a quei tempi, uno dei quali, detto "moderatore", che frappone un panno tra martelletti e corde (un po' come la sordina dei pianoforti verticali) e permette di ottenere un suono molto tenue e dolce. Ma ci sono altre cose che stupiscono, come la cantabilità della mano destra o come i diversi timbri dei tre registri (alti, medi e gravi hanno caratteri diversi) si fondano insieme. E attenzione, perché quando serve il Brodmann è capace di tirar fuori gli artigli anche nei passaggi più forti e energici. Il confronto con le interpretazioni degli anni '90 lasciano un po' interdetti: se quelle erano certamente molto belle, ma anche per certi versi anche un po' accademiche, qui invece quello che ci regala Schiff è un universo sonoro più vivo, palpitante e anche più vivace, pur nel consueto understatement del pianista ungherese. Non basta uno strumento d'epoca, per quanto magnifico come quello utilizzato qui, per far una bella interpretazione, occorre anche un pianista all'altezza e qui Schiff ci mette tanto del suo. Sicuramente è vero che conosce perfettamente il suo strumento e sa come domarlo e trarne il massimo, ma, al di là dell'aspetto tecnico, qui il pianista ci mette tantissima passione e la facilità con cui ci conduce tra le pieghe più intime dei pensieri del compositore è sicuramente il frutto di una lunga maturazione e di un profondo amore per queste pagine. Schiff ci dice che non smetterà di suonare Schubert su strumenti moderni, cosa in fondo necessaria dovendo per mestiere suonare in grandi auditorium, ma la dolcezza del suono di un fortepiano viennese sarà sempre ben presente nella sua mente, per provare a suggerire l'illusione dell'intimità anche in una sala da concerto. Noi continueremo a seguire András Schiff nelle sue esplorazioni con strumenti nuovi e d'epoca, così come ci piace seguire un altro pianista con la stessa grande passione per pianoforti antichi e moderni, Alexander Melnikov, di cui abbiamo già parlato diverse volte su queste pagine. Per il momento vi invitiamo senza esitazione ad abbandonarvi al fascino di questo disco, senza lasciarvi intimorire dal suono particolare del fortepiano.
  5. Mozart, sonate per pianoforte K.280, K.281, K.310, K.333. Lars Vogt, pianoforte. Ondine, 2019. *** Le sonate per pianoforte di Mozart non sono probabilmente quanto di meglio il genio di Salisburgo abbia composto, ciò nonostante alcune di esse sono dei veri e propri gioielli e, nella loro apparente semplicità, rappresentano comunque una sfida per chi li esegue, che si trova costretto a scegliere delle linee interpretative ben precise. C’è chi le suona mettendo in evidenza l’aspetto rococò, elegante e lezioso, chi invece accosta all'equilibrio neoclassico delle raffinatezze timbriche che forse sarebbero più appropriate per Debussy. Il pianista Tedesco Lars Vogt, che qui esegue le sonate K.280, K.281, K.310 e K.333, segue un approccio più diretto e vivo, grazie anche a qualche libertà espressiva, e riesce a caratterizzare molto bene il diverso carattere di ognuna di queste sonate. Nella K.280, che risente ancora dell’influenza di Haydn nei movimenti veloci, ci stupisce il lungo Adagio per l’intensità emotiva e il senso di profonda tristezza che Vogt riesce a imprimere al brano. Se la K.281 scorre più spensierata, è la K.310 il cardine del disco. Vogt ne fa emergere con grande immediatezza l’elemento tragico, come poche altre volte ho sentito, pur mantenendo quell'equilibrio delle emozioni così tipico della musica di Mozart. Questa è la prima tra le sonate di Mozart in tonalità minore e deve il suo carattere così insolitamente concitato sia alle difficoltà del suo soggiorno parigino nel 1778, segnato anche dalla morte della madre, sia anche al desiderio di adattarsi, alla sua maniera, a uno stile musicale più drammatico in voga in quegli anni a Parigi. La K.333 è gioiello di grazia, eleganza e fantasia, con l’allegretto finale che prende a modello lo stile del concerto per pianoforte e orchestra. E' un disco che ho trovato molto convincente, con Vogt bravissimo nel far parlare in maniera diversa ciascuna della quattro sonate, ma sempre in modo vario e molto naturale, senza mai essere eccessivamente cerebrale o sofisticato. Difficilmente ascolto più di due sonate di Mozart di fila senza avvertire un po’ di noia, ma qui le cose sono andate molto diversamente e arrivato alla fine del disco l’ho riascoltato dall'inizio con molto piacere! Buona la qualità dell’incisione, disponibile anche in formato liquido a 48/24, e interessante anche il libretto, che contiene un’intervista a Lars Vogt su queste quattro sonate.
  6. Henri Dutilleux (1916-2013): - Sonate pour piano (1947–48) - 3 Préludes (1973-1988) - Mini prélude en éventail (1987) Pierre Boulez (1925-2016): - Notations (1945) - Une page d'éphéméride (2005) Olivier Messiaen (1908-1992): - La Fauvette Passerinette (1953) - Prélude (1964) Alexander Soares, pianoforte. Rubicon 2019 *** Che sorpresa questo disco di debutto del pianista inglese Alexander Soares! Anziché propinarci il solito repertorio da battaglia ottocentesco, Soares ha messo insieme un programma tutto novecentesco e tutto francese con lavori di Dutilleux, Boulez e Messiaen, tre autori molto distanti per quanto riguarda le scelte compositive, ma in qualche modo legati da un'origine, in senso ampio, comune. Il disco si apre con la straordinaria sonata per pianoforte di Dutilleux, probabilmente uno dei lavori più interessanti per pianoforte composti nel secondo dopoguerra (fu pubblicata nel 1948). Nonostante siano evidenti gli influssi di Debussy e Ravel, ma anche Bartòk e Prokofiev, questa sonata mantiene un linguaggio proprio e molto originale. Molto diverso da quello della sonata invece il linguaggio usato nei tre Préludes e nel Mini prélude en éventail, composti 3-4 decadi dopo, ma comunque molto interessanti. Si passa poi alle Notations di Pierre Boulez. Composte nel 1945, si tratta di 12 brevi brani di 12 battute su una serie di 12 note! Nonostante lo stile seriale e il compositore stesso possano mettere paura, si tratta di una composizione di grande fascino e probabilmente una delle più "ascoltabili" del compositore e direttore francese (i suoi fan mi perdoneranno!), diversamente dalla page d'éphémeride del 2005, che nel disco viene dopo le Notations, che mi lascia piuttosto freddo. Chiudono il disco la Fauvette Passerinette di Messiaen del 1953, opera riportata alla luce da Peter Hill nel 2012 (probabilmente pensata per il Catalogue d'oiseaux) e un breve Prélude del 1964. Alexander Soares dice di avere una grande affinità per questo tipo di repertorio, affinità che riesce a trasformare in un'interpretazione assolutamente convincente, resa con intensità, lucidità e coerenza. Guardando su internet ho trovato una video di qualche tempo fa in cui Soares promuoveva una raccolta fondi per permettergli di realizzare questo suo disco di debutto. Sono contento che i suoi sforzi abbiano avuto successo e che il disco abbia ricevuto un meritatissimo Editor's Choice della rivista Gramophone. Assolutamente meritato!
  7. Franz Liszt Années de Pèlerinage. Deuxième Année - Italie, S161/R10b Légende, S.175: No. 1, St François d'Assise (La prédication aux oiseaux) Francesco Piemontesi, pianoforte Orfeo 2019 *** Esce per Orfeo anche il secondo volume delle Années de pèlerinage di Liszt, dopo il primo, pubblicato nel 2018. Composti durante un viaggio in Italia tra il 1838 e il 1839, questi sette brani traggono ispirazioni dalle arti figurative (come la tela di Raffaello "Lo sposalizio della Vergine" e la statua scolpita da Michelangelo per la tomba di Giuliano de' Medici), così come da opere letterarie (tre sonetti del Petrarca e la Divina Commedia di Dante). Rispetto al primo anno delle Années, l'elemento naturalistico qui è completamente scomparso. Il linguaggio musicale si fa più denso e articolato e richiede all'ascoltatore una maggiore partecipazione e predisposizione. Piemontesi dimostra anche in questa seconda raccolta un grande sintonia con queste pagine. Il pianista svizzero predilige sempre l'aspetto della narrazione, quieta e intimista, su quello virtuosistico, che pure è sempre presente in Liszt, ma che qui non è mai protagonista. Forse, se proprio vogliamo muovere un piccolo appunto, questo approccio interpretativo a volte può sembrare anche eccessivamente bilanciato e controllato, ma qui rientriamo nell'ambito delle preferenze personali. Quello che è certo è che Piemontesi rivela ancora una volta una maturità artistica e un dominio tecnico straordinari! Notevole anche la qualità della registrazione (che ho ascoltato in formato liquido 96/24), realizzata a Lugano nell'Auditorium Stelio Molo della RSI. Il pianoforte è reso in maniera assolutamente realistica in tutto lo spettro, con un'immagine ben centrata e coerente. A questo punto non ci resta che aspettare il terzo volume delle Années!
  8. Gabriele, sei ancora immerso nella lettura del manuale? Sei riuscito a fare qualche prova in questi giorni?
  9. Idem! La vacanza con gli amici dopo la maturità! Ormai è passato qualche anno, ma il ricordo di quei giorni è ancora molto intenso. Grazie Max per averlo farlo fatto riemergere!
  10. Debussy: Première rhapsodie, L. 116 (Versione per clarinetto e orchestra) Nielsen: Concerto per clarinetto Op. 57, FS 129 Lutosławski: Dance Preludes (Versione per clarinetto e orchestra da camera) Copland: Concerto per clarinetto Blaž Šparovec, Odense Symphony Orchestra, Vincenzo Milletarì. Orchid Classics, 2021. *** L'etichetta Orchid Classics ci presenta un recital del giovane clarinettista sloveno Blaž Šparovec, vincitore del concorso Carl NIelsen del 2019. Ovviamente non poteva mancare in programma il concerto di Nielsen, ma a mio avviso il pezzo più interessante del disco è il bel concerto per clarinetto di Aaron Copland, qui nella sua versione originaria, priva cioè dei cambiamenti che aveva apportato il suo dedicatario Benny Goodman. Timbro caldo, tecnica sicura, interpretazioni intense, mi auguro che sentiremo ancora parlare di Šparovec!
  11. Franz Schubert, sonate per pianoforte D.959, D.959, D.960. Francesco Piemontesi, pianoforte. PentaTone 2019 *** In quest’ultimo anno non sono mancate le registrazioni interessanti dedicate alle ultime sonate di Schubert: dall’affascinante lettura di Schiff su fortepiano (qui), alla tormentata versione di Lonquich (qui accostato alla melliflua e meno convincente Buniatishvili), per finire con la prova iper-raffinata di Volodos (qui). Ora anche il talentuoso pianista ticinese Francesco Piemontesi si mette alla prova con la triade delle ultime sonate, dopo gli ultimi dischi dedicati ai primi due libri delle Années de Pèlerinage. Come abbiamo già avuto modo di scrivere riguardo al suo Liszt, Piemontesi è un pianista che sembra aver raggiunto in questi anni uno stato di grazia, sia dal punto di vista tecnico che interpretativo e questo Schubert ne è una conferma. Ritroviamo qui il Piemontesi grande narratore che avevamo conosciuto in Liszt: ci accompagna con estrema naturalezza nei solitari paesaggi musicali dell’ultimo Schubert, passando dalla quiete alla sommessa disperazione, dall’intima palpitazione dei passaggi più scherzosi allo sconforto più drammatico. Lo fa con grande finezza e eleganza, rendendosi completamente invisibile e totalmente al servizio della musica. E nonostante le “celestiali lunghezze” di Schubert possano spesso indurre torpore, non è fortunatamente il caso qui. Piemontesi riesce a rendere l’architettura dell’opera nella sua complessità e al tempo stesso la cura del dettaglio, con una capacità di controllo magistrale. Siamo ancora una volta di fronte a un disco importante di un artista solido e maturo, che entra di buon diritto tra i miei riferimenti degli ultimi anni. Notevole anche la qualità della registrazione (che ho ascoltato in formato liquido 96/24), realizzata nella bella acustica della Salle de musique a La Chaux-de-Fonds in Svizzera. Il pianoforte è reso in maniera assolutamente realistica in tutto lo spettro, con timbri caldi e rotondi e un'immagine ben centrata e coerente.
  12. Beethoven, sonate per pianoforte Op.54 e Op.78. Rachmaninov, sonata per pianoforte N.2 Op.36. Ivo Pogorelich, pianoforte. Sony Classical, 2019 *** Un disco di Pogorelich dopo più di 20 dall’ultimo? Pubblicato da Sony Classical?? Caspita, deve essere una roba seria, mi sono detto. Il ritorno in grande stile di Pogorelich, controverso pianista croato, molto famoso tra gli anni ’80 e ’90, conosciuto per i suoi atteggiamenti anticonformisti e per le sue interpretazioni a cavallo tra il geniale, l’eccentrico e il provocatorio, poi progressivamente scomparso dalla scena discografica e dai circuiti concertistici più importanti. Ebbene cos’avrà di nuovo da dirci oggi Ivo Pogorelich, arrivato ai 60 anni? Il programma del disco è piuttosto inconsueto e accosta due deliziose sonate di Beethoven, Op.54 e Op.78, alla poderosa seconda sonata di Rachmaninov nella prima versione del 1913. L’ascolto, ahimè, è stato sconcertante, per non dire decisamente irritante. Dinamica, tempi, ritmo, tutti strapazzati, dall'inizio alla fine, senza pietà. A volte si fa addirittura fatica a riconoscere la musica o a seguire la linea melodica. E attenzione che qui non stiamo disquisendo di dove sia il punto di equilibrio tra il rispetto della pagina scritta e la libertà dell’interprete, qui siamo ben oltre: qui siamo alla totale mancanza di rispetto per l’ascoltatore (per non parlare del compositore) da parte di un artista evidentemente sopraffatto da un ego ingombrante e non più affiancato dal genio di un tempo, quasi volesse dirci “eccomi sono ancora il grande Pogorelich, anticonformista per contratto, posso permettermi quello che voglio!”. Non è certo il croato l’unico artista per così dire eccentrico in circolazione. Prendiamo ad esempio la violinista Patricia Kopatchinskaja, conosciuta per le sue interpretazioni fuori dai canoni. Quando la ascoltiamo suonare, al di là della sua prorompente individualità, percepiamo passione, vitalità, un amore sconfinato per la musica che sta suonando, sentiamo che Patricia ci sta comunicando qualcosa. Tutte cose, invece, tristemente assenti da questo ultimo disco del pianista croato. Ma sono certo che come un tempo Pogorelich divideva i pareri di chi l’ascoltava, così anche oggi ci sarà chi griderà con entusiasmo al ritorno del genio croato. Per me invece è semplicemente un peccato vedere tanto talento gettato alle ortiche, ma me ne faccio una ragione, metto il disco da parte e guardo altrove. Per fortuna nella discografia non mancano interpretazioni straordinarie di queste composizioni e nel panorama pianistico attuale non mancano artisti seri, di grande talento e che abbiano qualcosa da dirci. Una nota sulla qualità dell’incisione, assolutamente lontana dagli standard molto elevati ai quali l’etichetta giapponese ci ha abituato. Insomma, un disco da dimenticare velocemente
  13. Franz Schubert: sonata per pianoforte D. 959, minuetti D.334, D.335, D.600. Arcadi Volodos, pianoforte. Sony Classical 2019. *** Arcadi Volodos è uno dei migliori pianisti in circolazione per tecnica e sensibilità. Incide di rado, ma quando lo fa lascia il segno, come fu il caso nel 2017 con un disco straordinario dedicato a Brahms o nel 2013 con un album dedicato a Mompou, senza dimenticare lo splendido disco live a Vienna di qualche anno prima. n questo disco ci propone come piatto forte la sonata D. 959 di Schubert, accompagnata da tre minuetti (D.334, D.335, D.600). Volodos suona la 959 incredibilmente bene: ogni nota, ogni frase, ogni accento sono perfettamente resi e calibrati. Si sente che ci sono dietro anni di studio approfondito. L'Andantino del secondo movimento è qualcosa di commovente per la bellezza del timbro e la profondità dell'interpretazione. Tuttavia...sì, purtroppo c'è un tuttavia...tuttavia, dicevamo, è talmente bello assaporare voluttuosamente ogni nota, ogni impercettibile cambiamento di dinamica o di espressione, che forse si perde di vista il quadro d'insieme. La sensazione è quella di un lavoro iper-interpretato, per carità meravigliosamente bene, però a scapito di un po' di freschezza e spontaneità, che probailmente sarà più facile trovare nelle sue esecuzioni dal vivo. Siamo agli antipodi rispetto alla lettura aspra e spiazzante di Lonquich, ma anche da quella più lineare e diretta di Piemontesi, che ha dalla sua un gran senso dell'architettura del brano. Questa tendenza alla cura massima del dettaglio viene portata agli estremi nei tre graziosi minuetti che completano il disco. Gamma timbrica da capogiro, tempi un po' rilassati, stiamo assistendo ad un vero e proprio esercizio di stile, tanto da risultare quasi stucchevole una volta passata l'ammirazione per il gesto tecnico. In conclusione, questo disco, per quanto bello, soprattutto nella prima parte, mi ha lasciato un po' l'amaro in bocca. Pur rimanendo immutata l'ammirazione per le capacità di Volodos, da un artista del suo calibro mi aspetto sempre qualcosa in più (Ma per lui l'asticella è davvero alta!).
  14. "The Diabelli Project", musiche di Beethoven e molti altri. Rudolf Buchbinder, pianoforte. DG, 2020. **** Veterano del circuito pianistico internazionale, Rudolf Buchbinder è un grandissimo esperto del repertorio classico viennese e tedesco e specialmente della musica di Beethoven. Nel corso degli anni ha inciso varie integrali delle sonate, dei concerti e indiscutibilmente ha un rapporto molto stretto con le celebri variazioni Diabelli. Conoscete probabilmente la storia di queste variazioni. Anton Diabelli, compositore, pianista e soprattutto editore (fu il primo editore di Schubert), nel 1819 ebbe questa trovata, che oggi definiremmo di marketing, di chiedere a diversi compositori dell’epoca di scrivere una variazione su un suo breve valzer (assai mediocre, in verità). Risposero tantissimi musicisti, la maggior parte dei quali oggi completamente dimenticati, ma tra di essi troviamo anche nomi noti come Schubert, Moscheles, Hummel, Czerny e un giovanissimo Liszt. Beethoven, inizialmente poco interessato alla proposta di Diabelli, cambiò ben presto idea e nell’arco di quattro anni compose un lavoro monumentale costituito da ben 33 variazioni sul tema originale di Diabelli. Fu una delle sue ultime composizioni per pianoforte e, insieme alle ultime 5 sonate, un vero e proprio lascito alle successive generazioni di pianisti e compositori. Il buon Diabelli decise di pubblicare in due volumi tutti i contributi ricevuti: il primo con le variazioni di 50 diversi compositori (tra i quali anche l’Arciduca Rodolfo, compositore dilettante) e il secondo con il lavoro di Beethoven. Poteva ben dirsi soddisfatto il nostro editore austriaco! Ma torniamo al nostro disco, intitolato “The Diabelli Project”, il progetto Diabelli. Buchbinder ritorna a incidere quest’opera monumentale dopo averla portata in concerto per diversi decenni, ma non si ferma qui. Il pianista austriaco fu anche il primo ad aver registrato tutto il primo libro di variazioni, quello ormai (giustamente) dimenticato contenente i lavori degli altri compositori. Per l’occasione ne riprende una manciata, otto per la precisione, che propone in chiusura di disco. Ma Buchbinder nel suo omaggio al progetto originario di Diabelli va oltre e prova a renderlo più attuale, chiedendo a 12 compositori contemporanei, di generazioni e provenienze diverse, di scrivere la loro variazione sul tema di Diabelli: Krzysztof Penderecki (*1933), Rodion Shchedrin (*1932), Brett Dean (*1961), Max Richter (*1966), Jörg Widmann (*1973), Toshio Hosokawa (*1955), Lera Auerbach (*1973), Brad Lubman (*1962), Philippe Manoury (*1952), Johannes Maria Staud (*1974), Tan Dun (*1957), Christian Jost (*1963). In questo disco ne ripropone undici (manca la variazione di Penderecki, per ragioni che ignoro). Chiaramente l’ascolto si divide in tre parti. Nella prima il pianista austriaco esegue le famose variazioni Diabelli di Beethoven, rivelandoci tutta la sua arte e la sua consumata esperienza con queste pagine, con le quali ha ormai un rapporto di intima affinità. L’ho trovata un'ottima esecuzione che mi ha fatto conoscere un Buchbinder diverso da quello che ricordavo. Nelle variazioni moderne, che occupano la parte centrale del disco, si riconoscono stili diversi e modi diversi di affrontare questo “compito”. Alcune mi sono piaciute, altre meno, ma ho certamente apprezzato l’idea di attualizzare l’intuizione di Diabelli e di mischiare tradizione e innovazione. L’ultima parte del disco con una manciata di variazioni dei contemporanei di Beethoven, riporta i lavori di Johann Nepomuk Hummel, Frédéric Kalkbrenner, Conradin Kreutzer, Franz Liszt, che nel 1819 aveva 8 anni, Ignaz Moscheles, Franz Xaver Wolfgang Mozart, figlio del più famoso genitore, Franz Schubert e Carl Czerny. Sono probabilmente i compositori più significativi tra i cinquanta del primo volume di variazioni, detto questo, oggi queste pagine sono poco più di una curiosità. In conclusione, non posso che raccomandarvi questo disco, che rappresenta fin qui una delle proposte più interessanti e originali nel 250° anniversario della nascita di Beethoven!
  15. Prokofiev, sonate per pianoforte n.4, 7, 9. Alexander Melnikov, pianoforte. Hamonia Mundi 2019 *** Ritorna a Prokofiev l'imprevedibile ed eclettico pianista russo Alexander Melnikov. Dopo il primo disco, che comprendeva le sonate 2, 6, 8, questa seconda registrazione contiene tre sonate, le n. 4, 7, 9, molto diverse tra loro per stile e periodo di composizione. Se la settima sonata è probabilmente una delle pagine più note per pianoforte di Prokofiev, le altre due sono decisamente meno conosciute. Nella quarta sonata (1917), piuttosto cupa e introspettiva, così come nella più serena e comunicativa nona sonata (1947), Melnikov è davvero superlativo nel restituirci emozioni, contrasti improvvisi, cambi di colori e ritmi, con una sensibilità e una poesia poco comuni. Questa sua magistrale interpretazione della nona sonata è probabilmente una delle migliori in discografia. Mi ha lasciato invece piuttosto perplesso nella settima sonata (una delle tre sonate "di guerra"), affrontata da un lato con grande intensità, dall'altro con un'insolita e sorprendente prudenza. Se nella versione di Richter (che ne fu il primo esecutore, dopo averla imparata in soli quattro giorni) ci sembra di sentire i colpi dei cannoni e le bombe che esplodono, se nell'altra famosa interpretazione, quella di Pollini, siamo pervasi da una furiosa disperazione, sembra che qui Melnikov abbia meno successo nel trovare una propria visione interpretativa di questo lavoro, sicuramente più appariscente e virtuosistico rispetto alle altre due sonate del disco, più posate e reticenti. Il diabolico e difficilissimo ultimo movimento in 7/8 viene affrontato con insolita e disarmante lentezza, che rende priva di senso l'indicazione di "Precipitato" del compositore. Peccato, ma anche poco male, perché il disco è comunque da ricordare per le altre due sonate. Un altro passo falso di questo disco, purtroppo, è la qualità della registrazione, realizzata nei celebri Teldex Studio di Berlino: nonostante la dinamica e i timbri del pianoforte siano ottimamente restituiti, l'immagine del pianoforte sembra quasi quella di un'orchestra, con gli alti tutti a sinistra, i medi in mezzo e i bassi tutti a destra. Una scelta davvero incomprensibile da parte di un etichetta di livello come Harmonia Mundi.
  16. Le Six et Satie. Musiche di Auric, Durey, Honegger, Milhaud, Poulenc, Tailleferre e Satie. Pascal e Ami Rogé, pianoforte. Onyx Classics 2020. *** Nel tripudio discografico di celebrazioni del 250 anniversario di Beethoven, un po’ di musica francese giunge come una boccata di aria fresca. E quale musica più anti-germanica potrebbe esserci se non quella del cosiddetto Gruppo dei Sei, musica nata alla fine della grande guerra, sulla spinta dell’antagonismo bellico e di sentimenti nazionalistici, in antitesi alla pesantezza teutonica di Wagner. I compositori in questione sono Darius Milhaud, Arthur Honegger, Francis Poulenc, Germaine Tailleferre, Georges Auric e Louis Durey che, sotto l’influsso di Satie e Cocteau, ebbero un momento di coesione intorno al 1920, quando un critico musicale creò per loro la definizione di “Gruppo dei Sei”, sulla scia del russo “Gruppo dei Cinque”. In realtà questa vicinanza fu effimera e ognuno di loro seguì poi la propria strada, com’è normale. Se il rifiuto della tradizione tedesca è evidente, il tentativo di scrollarsi di dosso l’impressionismo di Debussy fu solo apparente: evidenti sono i numerosi riferimenti allo stile del grande compositore francese, pur sotto un abito ormai molto diverso. E’ musica per lo più disimpegnata, spesso scherzosa e brillante, divertente da ascoltare, nazionalista sì, ma al tempo stesso aperta a tutte le influenze musicali che attraversarono Parigi in quegli anni. Ascoltandola oggi stupisce per la sua modernità e viene quasi da dire che questa musica è invecchiata molto meglio di quella di tanti compositori venuti dopo. Pascal Rogé, qui accompagnato dalla moglie Ami, è un pianista straordinario, sicuramente uno dei migliori nel rendere al meglio il repertorio francese (ricordo una bellissima integrale di Poulenc e tanti altri bei dischi). Negli ultimi anni ha inciso spesso in coppia con la moglie con ottimi risultati. Un disco che mi ha regalato degli autentici momenti di buonumore (cosa rara di questi tempi) e che mi sento di consigliare anche a chi ha poca familiarità con questo repertorio.
  17. Ho iniziato a fare acquisti su Qobuz già nel 2013, poi da qualche tempo sono passato all'abbonamento per lo streaming e non tornerei più indietro. L'offerta di musica classica, che è quella che più mi interessa, ma anche di musica di altri generi è molto, molto ampia. Come Mauro, anche io quando trovo un disco che mi piace molto (sempre meno in realtà, sto diventando più difficile...) preferisco acquistarlo e averlo definitivamente nella mia collezione.
  18. Mi è capitato di ascoltare negli stessi giorni due dischi dedicati a Schubert di due artisti molto diversi tra loro e così ho deciso di farli salire sul ring per una sfida all'ultima nota. Signore e signori, preparatevi a un incontro senza pari. Da un lato l'esuberante georgiana Khatia Buniatishvili, classe 1987, dall'altro lo schivo pianista tedesco Alexander Lonquich, classe 1960. Partiamo dalla veste grafica. Khatia si presenta come una novella Ophelia, vestita di bianco e semi-annegata in acque torbide: Se da un lato vien da pensare al celebre Lied "La morte e la fanciulla", visivamente questa immagine richiama la celebre Ophelia del pittore preraffaellita John Everett Millais: Passiamo alla copertina del disco di Lonquich, dove ci appare un primo piano del pianista con gli occhi chiusi, di tre quarti, in penombra, con uno sfondo nero: Per una strana associazione della mia mente stramba, a me questa immagine ha fatto venire in mente il Kurtz di Marlon Brando in Apocalypse Now di Coppola: Per fortuna, appena aperto il libretto Lonquich ci appare in un ritratto vagamente più rassicurante con gli occhi aperti: Dovendo scegliere tra le due, la mia preferenza va a Khatia, per aver avuto il coraggio di posare nell'acqua gelida pur di realizzare questa copertina Copertina: Khatia Vs Alexander 1-0. Passiamo ora ai programmi dei due dischi: Khatia Buniatishvili esegue di Franz Schubert: - Sonata per pianoforte N.21 D.960 - 4 Improvvisi Op.90, D.899 - Ständchen, trascrizione di Franz Liszt S. 560/7 dal Lied D.957/4 Alexander Lonquich invece esegue di Franz Schubert: - Sonata per pianoforte N.19 D.958 - Sonata per pianoforte N.20 D.959 - Sonata per pianoforte N.21 D.960 - 3 Klavierstucke D.946 Il disco si intitola 1828, anno in cui furono composte queste opere e anno in cui morì il giovane Franz. Decisamente più denso e impegnativo il programma presentato da Lonquich. Voto sul programma: Khatia Vs Alexander 0-1. Proseguiamo e andiamo a leggerci i libretti che accompagnano i due dischi. Cominciamo da quello della Buniatishvili. Al di là di altri due ritratti della giovane georgiana sempre immersa nelle stesse acque fredde e torbide della copertina, il libretto ci stupisce per un breve saggio della stessa pianista intitolato "Note di una femminista", dove ci parla del lato femminile, della vulnerabilità e della grande sensibilità di Schubert. Rimango un po' perplesso e rimango in ogni caso convinto che il femminismo sia una cosa ben diversa da quanto ci dice Khatia. Passo al libretto del disco di Lonquich, dove trovo un saggio anche in questo caso scritto dall'interprete stesso. Lonquich analizza le quattro opere in programma, fornendo spunti e rimandi molto interessanti. Davvero un'ottima lettura, che ci serve anche per capire le scelte interpretative. Anche per il libretto non c'è storia... Voto sul libretto: Khatia Vs Alexander 0-1. Passiamo ora alla parte più gustosa: il confronto tra le due interpretazioni. Le scelte dei due pianisti non potrebbero essere più diverse. In verità, ho trovato entrambi i dischi spiazzanti, ma per motivi opposti. La lettura della Buniatishvili, che come sappiamo mira a esaltare l'aspetto femminile di Schubert, tende a restituirci un'atmosfera ovattata di calma assoluta, in cui ogni asperità appare smussata, ogni contrasto appiattito. Il rischio che corre è che le "celestiali lunghezze" di Schubert (come le aveva definite Schumann), diventino dei languidi momenti di torpore. La sonata D.960 scivola via con dolcezza, senza troppi sussulti, se non fosse per alcune repentine accelerazioni e decelerazioni, che spesso non sembrano giustificate. Anche i quattro improvvisi op.90 non lasciano il segno e confermano l'impressione di un'interpretazione che, nonostante le intenzioni, non vada mai in profondità. Ho trovato anche la lettura di Lonquich piuttosto spiazzante e ammetto di aver ascoltato il disco più volte prima di ritrovarmici. Il suo è uno Schubert molto diverso da quello al quale siamo abituati. Diciamo innanzitutto che Lonquich sembra non voler fare molto per compiacere l'ascoltatore: Il timbro è spesso spigoloso e duro, dimentichiamoci il suono morbido e raffinato di un Brendel o addirittura di Zimerman e lo Schubert intimo e consolatorio che ci ha tramandato la tradizione. Al contrario di Khatia, i contrasti vengono portati all'estremo e ogni piccola asperità della partitura viene enfatizzata, restituendoci uno Schubert tormentato, in cui la tensione drammatica viene amplificata nota per nota, creando un collegamento evidente con l'ultimo Beethoven. Si percepisce che quella di Lonquich è una visione maturata a lungo nel corso degli e che questa interpretazione è il frutto di un'analisi e di uno studio che hanno scavato a fondo la partitura. Il risultato può essere più o meno persuasivo (personalmente ho apprezzato di più la 958 e la 960 del resto del programma) e soprattutto può convincere o meno l'ascoltatore, abituato ad ascoltare uno Schubert generalmente molto diverso da questo, ma comunque penso che meriti un grande rispetto. Dovendo scegliere tra le interpretazioni di Khatia e Alexander, anche qui non ho dubbi. La lettura di Lonquich, per quanto spiazzante e molto personale, lascia il segno e rimane impressa nella memoria. Quella di Khatia, non me ne voglia!, l'ho trovata acerba e superficiale. Voto sull'interpretazione: Khatia Vs Alexander 0-1. Un'ultima nota sulla qualità della registrazione dei due dischi. Il pianoforte della Buniatishvili mostra un'enfasi eccessiva sul registro medio-basso, che appare gonfio e riverberante, pur mantenendo una mano destra leggibile e chiara. Molto più omogeneo e limpido il suono del pianoforte di Lonquich, anche se un po' "asciutto", reso in ogni caso in maniera più realistica e convincente dagli ingegneri del suono dell'Alpha, che battono a sorpresa quelli di Sony. Voto sulla qualità della registrazione: Khatia Vs Alexander 0-1. Siamo arrivati alla fine della nostra sfida: Alexander Lonquich sconfigge senza troppa fatica Khatia Buniatishvili, con il punteggio finale di 4 a 1. Ci farebbe piacere vedere un pianista del calibro di Lonquich più presente sul mercato discografico e sicuramente ci fa piacere vedere che l'etichetta Alpha gli abbia permesso di realizzare questo disco. *** I due contendenti di questa sfida: Khatia Buniatishvili, Schubert. - Franz Schubert, Sonata per pianoforte N.21 D.960 - Franz Schubert, 4 Improvvisi Op.90, D.899 - Franz Schubert, Ständchen, trascrizione di Franz Liszt S. 560/7 dal Lied D.957/4 Sony Classical, 2019. _____ Alexander Lonquich, 1828. Franz Schubert: - Sonata per pianoforte N.19 D.958 - Sonata per pianoforte N.20 D.959 - Sonata per pianoforte N.21 D.960 - 3 Klavierstucke D.946 Alpha, 2018.
  19. Schubert, Fantasia “Wanderer” D 760 op. 15 Berg, sonata per pianoforte op.1 Liszt, sonata per pianoforte in Si minore S 178 Seong-Jin Cho, pianoforte DG 2020 *** Vincitore del Concorso Chopin nel 2015, il coreano Seong.Jin Cho è ormai un pianista affermato, con un contratto stabile con DG e ormai già qualche disco al suo attivo. Qui ci propone un programma tanto bello quanto impegnativo: la Fantasia Wanderer di Schubert, la sonata di Berg e quella di Liszt per concludere. Cho possiede una tecnica ineccepibile: un fraseggio elegante, una gamma timbrica sgargiante, un virtuosismo mai appariscente. Il suo Schubert è di alto livello, tecnicamente immacolato, con un controllo e una resa dell’architettura del brano impeccabile. Tuttavia mi sento di dire che è convincente, ma non sconvolgente. Al giovane Cho manca ancora qualcosa. La sua Wanderer non ha l’impeto di un Richter, il furore di un Pollini, l’introspettiva complessità di un Brendel, la follia di un Sofronitsky. E’ come se ci fossero un controllo e una reticenza eccessivi, quando invece ci sarebbero voluti un po’ di rischio e di slancio in più. La bellissima sonata di Berg viene eseguita con una sensibilità straordinariamente acuta. È ben presente quel senso di inquietudine che in fondo la accomuna con le altre due opere di questo disco. Cho è in grado di rendere alla perfezione la filigrana dei vari piani sonori, le impennate e le decelerazioni della musica, con una palette timbrica di prim’ordine. Rispetto alla lettura di Pollini, che guarda avanti alla musica degli anni successivi, Cho ha un approccio più tradizionale. È la sonata di Liszt, che chiude il disco, il brano che mi ha convinto di più. Tutto il virtuosismo di Cho è al servizio della diabolica partitura del grande compositore ungherese e questa volta c’è anche quello slancio che finora ci era mancato. Certo è che non mancano le grandi interpretazioni di questa sonata ed è sempre difficile per un giovane pianista poter dire qualcosa di nuovo. Il risultato è comunque di tutto rispetto. Ripensando a questo disco nel suo complesso, mi sento assolutamente di consigliarlo. Mi rimane comunque l’impressione di trovarmi di fronte a un ottimo pianista dotato di grandissimi mezzi, ma che ancora deve trovare la sua strada dal punto di vista interpretativo, quella strada che gli permetterebbe di lasciare il segno. Se lo confrontiamo con i suoi quasi coetanei, non trovo né l’elettrizzante fantasia di Benjamin Grosvenor, né lo slancio e l’intellettualismo di Igor Levit o la felina naturalezza di Yuja Wang. Poco male, va bene anche così. Vorrò dire che il meglio deve ancora venire. Modificato 9 Maggio 2020 da Eusebius
  20. Ma Beatrice è molto meglio di una rockstar!! Programma non particolarmente originale, ma sono comunque assai curioso di ascoltarlo.
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