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happygiraffe

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Blog Entries pubblicato da happygiraffe

  1. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    Gabriel Fauré, Nocturnes.
    Eric Le Sage, pianoforte.
    Alpha, 2019.
    ***
    Gabriel Fauré (1845-1924) fu un compositore particolare: pur rimanendo ancorato a certi modelli compositivi del passato e impermeabile rispetto all'evoluzione del linguaggio musicale suo contemporaneo, e in questo senso fu sempre indietro rispetto ai suoi tempi, sviluppò uno stile originale, raffinato e di grande fascino. 
    I tredici Nocturnes di questa raccolta furono composti nell'arco di mezzo secolo, dal 1875 al 1921, e testimoniano l'evoluzione dello stile del compositore francese. Se i primi si rifanno dichiaratamente al modello di Chopin, con il tempo Fauré sviluppa un linguaggio originale, lirico, meditavo, equilibrato, molto affascinante dal punto di visto armonico. Per carità, non tutti sono ugualmente belli o interessanti, ma ci sono dei pezzi di assoluta bellezza, come il sesto Nocturne, ma non solo quello, dopo il quale lo stile di Fauré si fa via via sempre più spoglio e concentrato.
    E' un peccato che questi brani e questo tipo di repertorio non sia più diffuso e sia praticamente appannaggio dei soli pianisti francesi. 
    Eric La Sage è certamente uno specialista di questo genere di repertorio: ha inciso tutta la musica da camera con pianoforte di Fauré e tutta la musica per pianoforte di Poulenc (oltre all'integrale della musica per pianoforte e da camera di Schumann, ma questa è un'altra storia).
    La Sage sfodera qui una grande sensibilità interpretativa e svolge la matassa del discorso musicale, a tratti anche denso e complesso, con grande chiarezza e naturalezza, e con un'ampia tavolozza di timbri a disposizione.
    Buona la qualità della registrazione, disponibile in formato liquido a 24 bits/88.20 kHz, con il pianoforte reso in modo limpido, omogeneo e coerente.
    In conclusione un disco che consiglio, sia per la scelta del repertorio, molto bello e ingiustamente trascurato, che per la qualità dell'interpretazione.
  2. happygiraffe

    Recensioni Cuffie
    Come promesso, dopo un abbondante rodaggio eccomi qui a parlarvi delle Focal Clear. In realtà queste cuffie suonano abbastanza bene fin da subito, ma il suono è andato comunque modificandosi e assestandosi anche dopo diverse decine di ore di ascolto.
    Uscite nel 2018 non sono il top di gamma del catalogo Clear, ma con i loro 1.499€ a listino possiamo collocarle a metà strada tra le mirabolanti Utopia da 3.999€ e le più accessibili, ma non economiche, Elear (999€).
    Si tratta di cuffie dinamiche aperte: ciò vuol dire che chi le indossa sentirà i rumori dell’ambiente che lo circonda, quasi come se non le avesse addosso, e chi ci sta intorno sentirà un po’ di suono provenire dalle cuffie. Inutile pensare di usarle, quindi, in ambienti rumorosi, per strada, eccetera.

    Il design è sobrio e curato, l’accostamento dei colori, con il grigio dell’alluminio e il grigio chiaro dei cuscinetti e delle rifiniture, lo trovo moderno ed elegante.
    Pur non essendo leggerissime (450g), nell’uso si sono rivelate molto comode, ben bilanciate e con la giusta pressione sulla testa. I due cuscinetti in schiuma a memoria di forma rivestiti in microfibra, così come l’imbottitura dell’archetto, sono molto morbidi e confortevoli. Ho qualche dubbio sul fatto che col tempo tenderanno a sporcarsi, ma per il momento non sono in grado di parlarne.
    Dal punto di vista degli accessori, Focal fa le cose davvero in grande: le Clear sono dotate di una bella custodia semirigida in cui riporle e di addirittura tre (!) cavi: un cavo da 1.2m con jack da 3.5mm, un cavo da 3m bilanciato con spina XLR a 4 poli, 1 cavo da 3m con jack grande da 6.35mm.

    Ho apprezzato la presenza di tutti questi cavi, che ho avuto modo di usare tutti, e penso che tutti i produttori dovrebbero allinearsi a questa scelta. Il cavo ha una sezione importante ed è contraddistinto da una certa rigidità. Per darvi meglio l’idea, assomiglia un po’ al cavo del ferro da stiro (perdonatemi il paragone!). Questo non mi ha dato particolare fastidio durante l'ascolto, ma quando arriva il momento di riporre le cuffie, i cavi vanno un po' dove vogliono loro.

    Le Clear montano dei driver a M di produzione Focal da 40mm in lega di alluminio-magnesio.

    I trasduttori sono posizionati nella parte anteriore e rivolti all’indietro, con l’obiettivo di creare un ampio soundstage.

    La bassa impedenza le rende facilmente pilotabili anche da dispositivi portatili, tipo DAP e smartphone, ma se vogliamo rendere giustizia a queste cuffie bisogna abbinarle a un amplificatore di qualità.
    Per questo test ho usato l’irreprensibile Audio-GD Master 11, impiegando l’uscita bilanciata, ma ho ascoltato le Clear anche attaccandole a un più modesto ampli cuffia Matrix M-Stage o addirittura all’iPad. Ma con il Master 11 è proprio tutta un’altra storia!
    Test di ascolto
    Ho ascoltato un po' di tutto per questa recensione e devo ammettere che mi sono divertito parecchio. Qui di seguito ci sono le mie impressioni relative ai singoli ascolti. Se non avete voglia di leggerle, potete passare direttamente alle conclusioni in fondo alla pagina.

    The Allman brothers band, The 1971 Fillmore East recordings. Island Def Jam, 2014.
    You don't love me (first show). 24/192kHz.
    Le storiche registrazioni dei concerti al Fillmore East del 1971 degli Allman brothers. Rimango sbalordito: sembra di essere catapultati di fronte al palco la sera del concerto! La voce di Gregg Allman è limpida al centro circondata dagli strumenti dei suoi compagni. Solo la batteria suona un filo indietro. Il ritmo è pulsante, l’impatto è assolutamente realistico e viscerale. Comincio a battere il piede a tempo e mi perdo nella musica. Non ricordavo che questo disco fosse così bello. Cosa si può volere di più?

    Nirvana, Nevermind. Geffen, 2014.
    Smells like teen spirit. 24/96.
    Un pezzo mitico di Cobain e compagnia. Dopo il primo riff di chitarra, entra la batteria di Dave Grohl come una raffica di mitragliatrice: i Nirvana ci danno dentro come se non ci fosse un domani (e per Kurt fu proprio così). Le Clear restituiscono tutta l’energia del brano. Le chitarre elettriche sono aggressive senza essere fastidiose, il basso è pieno e potente. La batteria è in assoluto primo piano e viene riprodotta ottimamente, tranne che per le frequenze più alte dei piatti che man mano che il brano prosegue sembrano perdere un po’ di sostanza. Nel complesso la resa è ottima, tanto che mi vien voglia di mettermi a saltare in mezzo alla sala come un ragazzino. Occhio al volume, perché qui si rischia di lasciarci i timpani. 

    Paul Simon, Still crazy after all these years. Legacy recordings, 1975.
    50 ways to leave  your lover. 24/96 kHz.
    Il groove delle percussioni di Steve Gadd in apertura ha impresso il proprio marchio a questa famosa canzone di Paul Simon. Si sente la pelle dei tamburi vibrare e ogni minimo dettaglio. Poi parte la voce soave di Simon. Ottima la produzione e la recente rimasterizzazione in 24/96. Registrazione molto pulita e ricca di dettagli.

    PJ Harvey, Stories from the City, stories from the sea. Universal-Island Records, 2000.
    You said something. 16/44.1.
    Un disco del 2000 della cantante inglese. La canzone suona decisa e potente, come decisa è la voce di PJ Harvey. Chitarre elettriche e basso sono presenti e pieni di energia. Bene la batteria, a volte un po' indietro i piatti, ma suonano indietro anche con i miei monitor.

    Radiohead, Kid A. XL Recordings, 2000.
    The National Anthem. 16/44.1.
    Un pezzo iconico della band di Oxford che sta a metà tra l’alternative rock e il free jazz. Il brano è un caotico mix di strumenti che vanno a sovrapporsi al riff di basso di Colin Greenwood: troviamo addirittura delle onde Martenot e un ensemble di ottoni. Succede veramente di tutto in questo pezzo, con effetti sonori che volteggiano davanti a noi. Le Clear non si scompongono mai, mettendo ogni strumento od effetto nella sua giusta posizione e trasmettendoci tutta l’energia di questo brano. The National Anthem viene spesso usata per testare gli impianti hifi. Per le Clear esame superato.

    Janis Joplin, Pearl. Columbia Legacy, 1971.
    Mercedes Benz. 24/96.
    in questo breve pezzo, che fu l’ultimo da lei inciso nella sua breve vita, la Joplin canta a cappella. Devo dire di non aver mai ascoltato la sua voce con questo grado di dettaglio: roca, nasale, urlata. Si percepisce con chiarezza riverbero della sala d’incisione. Un’esperienza da pelle d’oca. 

    Keith Jarrett, Jan Garbarek, Palle Danielsson, Jon Christenses, My Song. ECM, 1978. 
    Country, 24/96 kHz.
    Un bellissimo album di Keith Jarrett con il suo quartetto norvegese. Era il 1977, ma suona fresco come mai in questa rimasterizzazione in HD. I quattro musicisti sono perfettamente rappresentati nello spazio. Il piano di Jarrett suona limpido e duetta con il sax di Garbareck, incisivo, ma mai fastidioso. Il contrabbasso è ben presente e nell’assolo suona pieno e ricco di dettagli. La batteria rimane un pelo indietro, a mio avviso.

    Fred Hersch Trio, Live in Europe. Newklypso (for Sonny Rollins). 24/44.1 kHz.
    Un disco straordinario, sia musicalmente che per la qualità dell’incisione. I tre strumenti sono perfettamente definiti davanti a noi e la resa timbrica è eccellente. Difficile sentire un pianoforte così in un disco di Jazz. La batteria, in questo brano in evidenza con un bell’assolo, ci convince pienamente, a differenza del disco precedente di Jarrett.

    Bill Frisell, Epistrophy. ECM, 2019. You only live twice. 24/96 kHz.
    I morbidi virtuosismi della chitarra elettrica di Frisell, qui alla prova con un celebre brano di un film di James Bond, ci deliziano. Frisell è davanti a noi. il contrabbasso di Thomas Morgan, pieno e caldo, è stato volutamente lasciato un pelo indietro. 

    Pharoah Sanders, Africa. Timeless Records, 1987.
    You've got to have freedom. 24/44.1kHz.
    L’incipit di questo pezzo è incredibile. Il coltraniano Sanders fa urlare il suo sax tenore nel suo registro più acuto producendo un effetto che potrebbe ricordare un’oca alla quale si stia tirando il collo (almeno a me dà questa idea!). Le Clear lo seguono senza difficoltà. Il timbro del sax è reso molto bene. Nonostante si spinga molto sugli alti, l’ascolto non è fastidioso e, anzi, quando entra il resto della band è una vera e propria festa.

    Muddy Waters, Folk singer. Geffen Records, 1964.
    Good morning little schoolgirl. 24/192.
    Un disco unplugged registrato incredibilmente bene e riproposto in 24/192. Waters pizzica inizialmente le corde più sottili della sua chitarra, poi comincia a cantare e la sua voce incredibile ci ammaglia. I musicisti sono davanti a noi. La resa timbrica è impeccabile. Siamo nel 1964, ma sembra registrato ieri.

    Smaro Gregoriadou, A healing fire (Bach, Britten, Gubaidulina, Hétu). Delos, 2020.
    Benjamin Britten, Nocturnal after John Dowland. Op.70. 24/48.
    Le Clear rendono bene ogni sfumatura di timbro della chitarra della virtuosa greca Smaro Gregoriadou in questo capolavoro di Benjamin Britten. Il suono è dettagliato e presente, ma anche asciutto e con poco riverbero dell’ambiente di registrazione.

    Gyorgy Ligeti, Works for piano: études, Musica ricercata. Pierre-Laurent Aimard, pianoforte. Sony Classical, 1996.
    L'escalier du diable. 24/44.1.
    Un pezzo massacrante per chi lo suona, per chi lo registra e per l’hifi che lo riproduce. Pianoforte usato in modo percussivo in tutta la sua gamma, dinamiche elevate, grande varietà timbrica. L’incisione di Sony la trovo ottima, così come l’interpretazione di Aimard. Le Clear restituiscono un pianoforte perfettamente centrato, facendoci percepire molto bene i riverberi dell’ambiente circostante. Il suono dello strumento viene riprodotto in tutta la sua varietà di timbri e di dinamiche.

    Beethoven, Trii per pianoforte Op.1 n.3 & Op.70 n.2. BIS, 2020.
    24/96.
    Un disco recente e ottimamente registrato (come di routine con BIS). L'immagine è precisa e ben equilibrata. La scena corretta, anche se non eccessivamente ampia. Il timbro dei tre strumenti tendente al caldo. 

    Monteverdi, il terzo libro dei madrigali. Concerto italiano, Rinaldo Alessandrini. Naïve, 2019.
    Vattene pure, crudel. 24/88.2
    Dio mio, che incisione pazzesca! Difficile fare di meglio. Mi sento Alessandrini in mezzo ai musicisti del Concerto Italiano. Il palcoscenico è incredibilmente tridimensionale. La resa delle voci delle Clear è sublime. Una volta superato lo choc, mi perdo nella musica. E' questo madrigale ("Vattene pure, crudel") su versi del Tasso è così bello che mi commuovo.

    Prokofiev, concerti per violino e orchestra. Lisa Batiashvili, Chamber Orchestra of Europe, Yannick Nézet-Séguin. DG, 2018. 
    Secondo concerto, terzo movimento Allegro, ben marcato. 24/96.
    Un disco registrato divinamente. Il violino si amalgama perfettamente con l’orchestra, né troppo in primo piano, né troppo indietro. Le diverse sezioni dell’orchestra sono chiaramente distinguibili, le percussioni (piatti, triangolo, castagnette, grancassa, rullante) suonano piene e ben presenti. Il palcoscenico è ampio e profondo. 

    Mahler, das Lied von der Erde. Budapest Festival Orchestra, Direttore Ivan Fischer. Robert Dean Smith, tenore, Gerhild Romberger, contralto.
    Channel Classics Records, 2020. 24/192.
    Le incisioni della channel classics sono sempre di grandissima qualità. La scena è ampia, sembra di essere seduti in platea di un grande auditorium, con l’orchestra davanti a noi. Si percepiscono con chiarezza i vari settori dell’orchestra e gli strumenti nel dettaglio. L’organico è ampio e arriva a comprendere addirittura un mandolino che si sente nel finale di Abschied. Le voci dei cantanti sono chiare e in equilibrio con l’orchestra. Robert Dean Smith ha il suo bel da fare per non farsi sommergere dai volumi orchestrali nel primo movimento: ci riesce dal vivo con Jurowski (in un altro disco, però), figuriamoci in questa versione in studio. La voce della Romberger suona pulita e limpida. Nonostante la sua interpretazione possa risultare un po’ distaccata, riesce a commuoverci nell’ultimo, sublime movimento. Nonostante il grado di dettaglio, il suono complessivo è ben amalgamato e realistico. Complimenti agli ingegneri del suono!
    Conclusioni
    Avrete capito che le Clear mi sono piaciute molto. Sono delle straordinarie cuffie aperte, ben bilanciate in quasi tutta la gamma, con un’ottima resa timbrica, dettagliate, ma anche molto coinvolgenti.  Come per tutte le cuffie, però, c’è qualche zona d’ombra. Vediamo i vari elementi nel dettaglio.
    Bassi
    I bassi sono pieni, dettagliati, molto veloci e di grande impatto. Soprattutto sono equilibrati rispetto alle altre frequenze, né troppo enfatizzati, né poco presenti: una giusta e bilanciata via di mezzo. Si estendono piuttosto in basso, ma nella regione dei bassi profondi c’è una certa attenuazione, ma neanche eccessiva.
    Lo dico chiaramente: chi sia alla ricerca di una cuffia con una marcata enfasi nei bassi, non troverà nelle Clear il prodotto giusto.
    Medi
    La gamma media è lineare, limpida e ben dettagliata. Le voci, sia maschili che femminili, suonano in modo totalmente realistico, con una resa timbrica molto convincente e senza particolari problemi di sibilanti. La presentazione del suono è tendenzialmente molto neutrale.
    Alti 
    Gli alti suonano dettagliati e trasparenti, ma anche leggermente indietro e questo rende l’ascolto delle Clear non fastidioso sulle alte frequenze, alle quali io sono piuttosto sensibile. Nella parte più alta dello spettro ci sono però delle zone di comportamento non lineare, per cui, a seconda delle registrazioni, a volte i piatti possono perdere un po’ di sostanza e suonare un po' vuoti. Ripeto, dipende molto dalla registrazione e dal genere musicale che stiamo ascoltando. Nella musica classica, ad esempio, non ho minimamente percepito il problema. 
    Soundstage
    Il palcoscenico varia chiaramente in funzione di quello che stiamo ascoltando. Possiamo dire che per complessi strumentali ridotti, a prescindere dal genere musicale, rock, jazz, classica, il soundstage è piuttosto “intimo”, ponendo l’ascoltatore molto vicino ai musicisti. Per la musica orchestrale, quando è ben registrata, l’impressione è diversa: la scena è assolutamente realistica, come fossimo a un concerto. Il palcoscenico risulta ampio e profondo, anche se in modo non esagerato o artificioso.
    Immagine
    Ho trovato ottima la capacità delle Clear di isolare i vari strumenti e collocarli nello spazio.
    Risoluzione
    In termini di risoluzione, le Clear hanno un grado di dettaglio elevato e possono essere spietate con registrazioni che non siano di buona qualità, tuttavia probabilmente non allo stesso livello di cuffie planari o elettrostatiche in questa fascia di prezzo. Personalmente, trovo che Focal abbia trovato un giusto compromesso, offrendoci un ottimo grado di dettaglio, senza risultare eccessivo o radiografico. Poi, come sempre, tutto dipende da quello che uno si aspetta da un cuffia: se ascoltate musica in cuffia per sentire il ticchettio dell’orologio del direttore d’orchestra e in generale tutto quello che con i diffusori si perde, allora probabilmente ci sono modelli che offrono qualcosa in più.
    Dinamica
    La dinamica è assolutamente stellare. Sono cuffie che danno il meglio in quei tutti quei dischi con grande contenuto energetico: dal rock, alla musica orchestrale, a certa musica jazz. Sanno far pulsare la musica come poche! Mi raccomando, prestate attenzione ai volume d’ascolto: i nostri timpani sono preziosi!
    Equalizzazione
    A mio avviso suonano praticamente perfette così come sono, specialmente per la musica classica. Se volete dare un po’ più di corpo alle altissime frequenze o ai bassi profondi, si possono equalizzare con ottimi risultati. In rete si possono reperire facilmente le impostazioni necessarie.
     
    Conclusioni delle conclusioni
    Per me le cuffie sono un ripiego, perché preferisco nettamente ascoltare la musica dai diffusori. Devo ammettere, però, che con le Clear ho ritrovato molte delle emozioni che provo nell’ascolto in cassa e in alcuni casi anche di più. Sono cuffie molto lineari e omogenee, veloci e in grado di trasmettere tutta l’energia della musica. L’accuratezza dei timbri delle voci e degli strumenti è notevole.
    Le Clear al momento del lancio venivano a listino 1.499€, oggi si trovano anche a 1.275€. Nel valutare il prezzo, bisogna anche tener conto che Focal ci offre tre cavi di diverse tipologie e lunghezze e una bella custodia.
    Certo, sono sempre tanti soldi per un paio di cuffie, per cui bisogna considerare bene quali siano le nostre aspettative e se questo modello sia in grado di soddisfarle. Io nelle Clear ho trovato un grado di coinvolgimento che sinceramente non mi sarei aspettato!
     
    Pro
    gli accessori: custodia e cavi bilanciati e non. buona linearità della risposta in frequenza resa timbrica dinamica, trasparenza, risoluzione capacità di essere pilotate da qualsiasi dispositivo comfort Contro
    qualche irregolarità nella risposta delle frequenze più alte soundstage buono, ma non enorme qualcuno potrebbe desiderare un filo di risoluzione in più i cuscinetti e l’imbottitura dell’archetto sono soggetti a sporcarsi con l’uso. I ricambi dei cuscinetti originali sono piuttosto costosi (200€) I cavi sono un po’ rigidi e non molto comodi da ripiegare  
    P.S.
    Questo test non è stato eseguito utilizzando materiale fornito in prestito dal produttore.
     
  3. happygiraffe
    G.F.Handel: Suites per clavicembalo 1-8, Ouvertures (trascr.).
    Francesco Corti, clavicembalo.
    Arcana, 2022.
    ***
    Il clavicembalo è uno strumento che mi ha sempre causato qualche problema. Di sonnolenza, principalmente. E’ solo negli ultimi anni che ho cominciato ad apprezzarlo (senza cadere in letargo). Poi finalmente mi sono imbattuto in questo del clavicembalista aretino Francesco Corti ed è scoppiato l’amore!
    Di lui avevo ben presente gli ultimi dischi dedicati ai concerti per clavicembalo di J.S.Bach:


     
    Così come questo del 2020:

    In realtà, Corti collabora da diversi anni con i principali ensemble di musica barocca: lo Zefiro diretto da Bernardini (suo il clavicembalo nel magnifico disco dei Brandeburghesi per Arcana), Les Musiciens du Louvre (Minkowski), il Bach Collegium Japan (Suzuki), Les Talens Lyriques (Rousset), Harmonie Universelle (Deuter) e Le Concert des Nations (Savall).
    Quest’ultimo disco è dedicato al primo volume delle Suites per clavicembalo di Handel, pubblicato a Londra nel 1720.
    Tra le diverse Suites Corti inserisce alcune trascrizioni dello stesso Handel delle Ouvertures di alcune opere (Rodenlinda, il Pastor fido, Radamisto, Teseo) e l’arrangiamento per clavicembalo di William Babell di alcune pagine del Rinaldo (Lascia ch’io pianga, tra tutte).
    Ho sempre avuto un parere combattuto su queste pagine di Handel, che fossero eseguite al clavicembalo o al pianoforte, anche da mani illustri, ma qui Corti riesce a riportarle letteralmente in vita, spazzando via qualsiasi perplessità su opere che ormai hanno più di 300 anni di vita alle spalle.
    Quello che Corti riesce a estrarre dal suo strumento (una ricostruzione del 1998 di Andrea Restelli di un esemplare di Christian Vater del 1738) ha del miracoloso: riesce certamente a farlo cantare in modo sublime, ma quello che più stupisce è il volume e l’energia che riesce a produrre, ricordando più il suono potente di un moderno pianoforte o se vogliamo di un organo, che quello minuto e monocorde che normalmente associamo a un clavicembalo.
    Il programma è lungo (quadi 2 ore e mezza di musica) e denso, ma le trascrizioni d’opera sapientemente inserite tra le suites e la maestria di un interprete così brillante e ricco di personalità fanno trascorre il tempo dell’ascolto molto velocemente e con molto piacere.
    Interessante il confronto con la bellissima e recente interpretazione delle prime quattro Suites di Pierre Hantaï. Questione di gusti, ma personalmente mi ritrovo di più nella lettura dell’italiano, più energica e meno leziosa (non me ne voglia Hantaï), e anzi possiamo spingerci ad affermare che anche in Italia ci sono artisti in grado di competere con l’eccellente scuola clavicembalistica francese.
    Ottima la registrazione di Ken Yoshida, che ci rivela ogni minimo dettaglio sonoro dello strumento, un po’ a discapito dell’acustica dell’ambiente.
    Consigliatissimo!
  4. happygiraffe
    Franz Liszt, Années de pèlerinage première année, Suisse; Légende N.2, Saint François de Paule marchant sur les flots.
    Francesco Piemontesi, pianoforte.
    Orfeo 2018
    ***
    E’ uscito per Orfeo il primo volume delle Années de pèlerinage di Liszt ad opera del trentacinquenne pianista svizzero Francesco Piemontesi, già recensito su queste pagine in alcuni concerti di Mozart.
    Il CD è accompagnato da un DVD contenente un film di Bruno Monsaingeon, celebre regista canadese autore di molti ritratti dei maggiori musicisti del nostro tempo.
    E’ questo il primo capitolo di un progetto più ampio che comprenderà nei prossimi anni anche il secondo e terzo volume delle Années.

    Pubblicato nel 1855, il primo volume degli Anni di pellegrinaggio, dedicato alla Svizzera, raccoglie  materiale composto e rielaborato nell’arco di un ventennio e in parte già pubblicato dall’autore nell’Album d’un voyageur del 1842. Si tratta di una Suite di nove pezzi caratterizzata da evidenti riferimenti sia naturalistici che letterari. I brani sono infatti preceduti da citazioni di Schiller, Byron e Sénancour. 
    In questa raccolta ci sono alcune tra le pagine più belle e celebri che Liszt abbia composto, autentico banco di prova per i più grandi pianisti. Su alcune di esse si sono cimentati i più grandi specialisti lisztiani, dal grande Lazar Berman a Arrau, Kempff, Bolet e Brendel. 
    E proprio il grande pianista austriaco Alfred Brendel è stato uno dei maestri di Francesco Piemontesi, ma il pianista svizzero ha sviluppato un linguaggio proprio, piuttosto diverso da quello del suo maestro.
    Sebbene siano pezzi tecnicamente molto impegnativi, anche se non al livello degli Studi Trascendentali, l’aspetto virtuosistico passa decisamente in secondo piano, dominato in modo magistrale da Piemontesi. che appare sempre tranquillamente a proprio agio con queste pagine, affrontate con una sensibilità e una profondità di lettura poco comuni. Molto diverse le sue interpretazioni ad esempio da quelle di Bertrand Chamayou (Naive, 2011), più rapide, effervescenti e, sì, più virtuosistiche.
    Siamo certamente di fronte a un disco importante di un artista maturo, in grado di competere con i mie riferimenti, anche se forse a Piemontesi manca ancora la sacralità di un Berman o il guizzo di un Brendel.
    Aspettiamo con curiosità i prossimi dischi. Il secondo volume è già stato inciso e dovrebbe essere in uscita nei prossimi mesi.

  5. happygiraffe
    Franz Liszt
    Années de Pèlerinage. Deuxième Année - Italie, S161/R10b
    Légende, S.175: No. 1, St François d'Assise (La prédication aux oiseaux)
    Francesco Piemontesi, pianoforte
    Orfeo 2019
    ***
    Esce per Orfeo anche il secondo volume delle Années de pèlerinage di Liszt, dopo il primo, pubblicato nel 2018.
    Composti durante un viaggio in Italia tra il 1838 e il 1839, questi sette brani traggono ispirazioni dalle arti figurative (come la tela di Raffaello "Lo sposalizio della Vergine" e la statua scolpita da Michelangelo per la tomba di Giuliano de' Medici), così come da opere letterarie (tre sonetti del Petrarca e la Divina Commedia di Dante). Rispetto al primo anno delle Années, l'elemento naturalistico qui è completamente scomparso. Il linguaggio musicale si fa più denso e articolato e richiede all'ascoltatore una maggiore partecipazione e predisposizione.
    Piemontesi dimostra anche in questa seconda raccolta un grande sintonia con queste pagine. Il pianista svizzero predilige sempre l'aspetto della narrazione, quieta e intimista, su quello virtuosistico, che pure è sempre presente in Liszt, ma che qui non è mai protagonista. Forse, se proprio vogliamo muovere un piccolo appunto, questo approccio interpretativo a volte può sembrare anche eccessivamente bilanciato e controllato, ma qui rientriamo nell'ambito delle preferenze personali. Quello che è certo è che Piemontesi rivela ancora una volta una maturità artistica e un dominio tecnico straordinari!
    Notevole anche la qualità della registrazione (che ho ascoltato in formato liquido 96/24), realizzata a Lugano nell'Auditorium Stelio Molo della RSI. Il pianoforte è reso in maniera assolutamente realistica in tutto lo spettro, con un'immagine ben centrata e coerente.
    A questo punto non ci resta che aspettare il terzo volume delle Années!
  6. happygiraffe

     
     
    Pur essendo una figura centrale nella storia della fotografia e specialmente nella fotografia di strada, è ancora poco conosciuto dal grande pubblico.
    Garry Winogrand rifiutava la definizione di fotografo di strada, preferiva definirsi uno studioso dell’America. E infatti si ispirò alla fotografia sociale di Walker Evans e Robert Frank, con uno sguardo però più vitale e gioioso.
    Nel corso della sua vita realizzò una cronaca quotidiana della vita metropolitana americana, specialmente a New York, città in cui è nato e vissuto a lungo (nacque nel Bronx), ma anche sulla West Coast.
     
     
    Richard Nixon Campaign Rally. New York, 1960.
     
     
    New York, 1962.
     
    Garry Winogrand fotografava “per vedere a cosa somigliavano le cose una volta fotografate”.
     
    Non fotografa a progetto, rifiutava l’intellettualizzazione del proprio lavoro. Fotografa la vita davanti a se con il suo stile unico, di cui bisogna prendere tutto: l’eleganza, la vitalità, l’assenza di volgarità, l’umorismo, così come le inquadrature sbilenche, parti di immagini sovraesposte o messe a fuoco imprecise.
     
     
    Park Avenue. New york, 1959.
     
     
    Los Angeles, 1980-1983.
     
     
    Houston, 1964.
     
     
    New York, 1962.
     
    “Quando fotografo vedo la vita. E’ questo quello con cui ho a che fare”. Il suo sguardo curioso sul mondo che lo circonda è sempre molto democratico, ironico a volte, ma mai cinico.
     
     
    New York, 1968.
     
     
    El Morocco. New York, 1955.
     
     
     
     
    Usava una Leica M3-M4, focali corte, tipicamente 28 e 35mm. Questo significa che si avvicinava molto ai suoi soggetti. Dei filmati lo ritraggono mentre passeggia frenetico per la strada, si ferma, si gira, si guarda intorno inquieto con una mimica buffissima, poi scatta a dei passanti a pochi cm da loro, sfoderando il suo disarmante sorriso.
     
    Non faceva proprio niente per nascondersi, anzi, senza che le persone fotografate si risentissero o protestassero.
     
     

     

     
     
    Qui una sua celebre foto:
     
     Central Park Zoo. New York, 1967.
     
    E il "backstage":
     
    «A volte mi sembra che il mondo intero sia un teatro per cui ho comprato il biglietto. Un grande spettacolo a me destinato»:
     
     
    New York's World Fair, 1964.
     
    E la sensazione nella foto qui sopra è che si godesse proprio lo spettacolo! Un'immagine così apparentemente banale e intrigante al tempo stesso.
    Per non parlare di questa, assolutamente cinematografica:
     
     
    Los Angeles, 1964.
     
    Stroncato nel 1984 di un tumore fulminante, lascia un archivio sterminato che continuerà a sfornare capolavori inediti ancora per molti anni.
     
     
    Democratic National Convention. Los Angeles, 1960.
     
    Winogrand scrisse a margine del suo libro del 1960 "Women are beautiful"  :
    "Io non so se tutte le donne in queste fotografie sono belle, ma so che tutte le donne sono belle in fotografia"
     
     
     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     
     
    “I think that those kind of distinctions and lists of titles like “street photographer” are so stupid.”
     
     

     

     

     

     
     
    animali e umani senza distinzione, pari dignità
     
     

     

     

     

     
     
     
    sostanzialmente ingiusto classificarlo dentro la gabbia del "fotografo di street", una definizione che va decisamente stretta ad un curioso che voleva  vedere a cosa somigliavano le cose una volta fotografate  rifiutando progetti, concettualizzazioni e intellettualità.
     

  7. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    '900 Italia. Musiche per pianoforte di Busoni, Alaleona, Malipiero, Lupi, Savagnone, Berio, Cartiglioni, Mosso, Colla.
    Gialnuca Cascioli, pianoforte.
    DG 2019
    ***
    E' davvero interessante il progetto dedicato alla divulgazione del repertorio pianistico del '900 che il pianista e compositore italiano Gianluca Cascioli sta portando avanti da qualche anno.
    Il percorso che ci propone segue un ordine geografico: dopo un primo disco dedico ai paesi dell'Est, diciamo dell'ex Unione Sovietica (Russia, Ucraina, Estonia) e un secondo dedico all'area austro-tedesca, arriva ora questo terzo album dedicato all'Italia.


    Le copertine dei dischi precedenti.
     
    Sono nove i compositori rappresentati in questa antologia che comincia con Ferruccio Busoni (1866-1924) e termina con Alberto Colla, nato nel 1968, passando per una serie di compositori più o meno noti: Domenico Alaleona (1881-1928), Gian Francesco Malipiero (1882-1973), Roberto Lupi (1908-1971), Giuseppe Savagnone (1902-1984), Luciano Berio (1925-2003), Niccolò Castiglioni (1932-1996), Carlo Mosso (1931-1995).
    Ammetto senza vergogna che molti di questi nomi mi erano del tutto sconosciuti, ma non potrebbe essere diversamente, perché tolti Busoni, Malipiero, Berio e Castiglioni, i restanti sono decisamente poco rappresentati in discografia.
    L'ascolto è stato ad ogni modo piacevolmente interessante. Nel selezionare queste opere Cascioli sembra aver seguito il disegno preciso di conquistare l'ascoltatore con un repertorio che sia comprensibile e "ascoltabile" anche e soprattuto per i non specialisti, evitando le avanguardie più ostiche. E noi per questo lo ringraziamo! Apprezziamo molto di più un progetto come questo, che con intelligenza e entusiasmo prova a portare la musica del '900 a un pubblico più ampio, piuttosto che l'ennesima incisione dei 24 Preludi di Chopin.
    In sintesi, un disco sicuramente molto interessante che consiglio a chi abbia voglia di esplorare territori nuovi e autori poco conosciuti.
     
    Riporto per chi fosse interessato la tracklist:
    1 Busoni: 7 Elegien, BV 249 - 7. Berceuse
    2 Busoni: Sonatina No.4, BV 274 "in diem nativitatis Christi MCMXVII"
    3 Alaleona: La città fiorita, cinque "impronte" per pianoforte - 2. Crisantemo
    4 Malipiero: Risonanze - 1. Calmo
    5 Malipiero: Risonanze - 2. Fluido
    6 Malipiero: Risonanze - 3. Non troppo mosso
    7 Malipiero: Risonanze - 4. Agitato, non troppo
    8 Lupi: 6 Studi per pianoforte - 1. Vivo e fresco
    9 Lupi: 6 Studi per pianoforte - 2. Moderatamente mosso
    10 Lupi: 6 Studi per pianoforte - 3. Velocissimo
    11 Savagnone: Prisma armonico, Op. 22 - Preludio No. 1: Allegro
    12 Berio: 6 Encores - 3. Wasserklavier
    13 Castiglioni: Sonatina per pianoforte - 1. Andantino mosso assai dolcino
    14 Castiglioni: Sonatina per pianoforte - 2. Ländler. Allegro semplice
    15 Castiglioni: Sonatina per pianoforte - 3. Fughetta. Allegretto
    16 Mosso: Secondo quaderno per pianoforte
    17 Mosso: Pièce mécanique per pianoforte (in memoria di E.Satie)
    18 Mosso: 22 Preludi per pianoforte - No. 4 Canzone
    19 Mosso: 22 Preludi per pianoforte - No. 11 Allegretto vivo
    20 Mosso: 22 Preludi per pianoforte - No. 14 Allegro marziale
    21 Mosso: 22 Preludi per pianoforte - No. 18 Canzone di culla
    22 Mosso: 22 Preludi per pianoforte - No. 22 Molto allegro, volante
    23 Colla: Notturno IV "Moonbow"
    24 Colla: Notturno VII "Mosarc"
    25 Colla: Notturno IX "Rope bridge"
    26 Colla: Notturno X "Lunar Ephemeris"
  8. happygiraffe
    György Kurtág: Complete Works For Ensemble And Choir
    Reinbert de Leeuw,  Asko/Schönberg, Netherlands Radio Choir
    2017 ECM
    ***
    Forse in pochi lo hanno mai sentito nominare e certamente sono ancora meno quelli che hanno mai ascoltato la sua musica, ma György Kurtág può essere considerato uno dei compositori più significativi degli ultimi 50 anni.
    Kurtág ha avuto un percorso biografico e artistico molto tortuoso. Nato in Romania nel 1926, si trasferì presto in Ungheria, a Budapest, dove frequentò l'Accademia di Musica Ferenc Liszt. Fu lì che conobbe il suo amico György Ligeti e la futura moglie Marta. Si diplomò in pianoforte e composizione nel 1955, senza avere la possibilità di studiare con Béla Bartók, che nel 1940, dopo lo scoppio della guerra, si era rifugiato negli USA, dove morì nel 1945. In seguito alla repressione sovietica della rivoluzione del 1956, fu uno dei tanti ungheresi che lasciò il proprio paese e si rifugiò in Francia.
    A Parigi ebbe la possibilità di studiare con Olivier Messiaen e Darius Milhaud e di conoscere la musica di Anton Webern, che lo influenzò profondamente. Intanto nel suo paese il regime aveva bandito molti lavori di Bartók, Schönberg e  Stravinskij. 
    Afflitto da una grave forma di depressione, si rivolse alle cure della psicologa ungherese Marianne Stein, che seppe dare nuovi stimoli al suo percorso artistico.
    Ritornato a Budapest nel 1959, insegnò pianoforte e musica da camera all'Accademia Ferenc Liszt fino ai primi anni '90. Tra i suoi allievi ci furono anche András Schiff and Zoltán Kocsis.
    I primi riconoscimenti internazionali come compositore arrivarono nei primi anni '80 con i Messages of the Late Miss R.V. Troussova per soprano e orchestra da camera; da quel momento la sua carriera di compositore ebbe uno straordinario impulso che lo portò a essere invitato come compositore "in residence" presso la filarmonica di Berlino, poi  conl'Orchestra Sinfonica di Vienna e l'Ensemble InterContemporain.
    Lo stile musicale di Kurtag chiaramente ha subito un'evoluzione nel corso degli anni ed è il frutto di questo intreccio di esperienze storiche e personali, di incontri con vari compositori e diversi linguaggi musicali. Pur essendo musica "colta" contemporanea, lo stile di Kurtág vuole essere il più inclusivo possibile, lontano dal linguaggio spesso ostico e autoreferenziale delle avanguardie.
    Kurtág riesce a dare il meglio nelle forme brevi. Maestro di uno stile conciso, essenziale, dove l'intensità dei suoni e del silenzio può coinvolgere profondamente l'ascoltatore.

    Il disco che vi proponiamo ricopre un'ampio arco temporale della carriera di Kurtág, dai Quattro Capricci Op.9, composti tra il 1959 e il 1970 ai Brefs Messages Op.47 del 2011.
    Il compositore, noto per essere particolarmente meticoloso, è intervenuto personalmente durante la registrazione del disco, dando indicazioni ai cantanti per telefono.
    Il titolo "opere complete per ensemble e coro" non è particolarmente corrispondente, in quanto alcune delle composizioni non prevedono l'impiego della voce umana.
    Trovo che alcune composizioni come i Messages of the Late Miss R.V. Troussova mostrano un po' i segni del tempo, mentre altre, quelle in cui il discorso musicale si fa più conciso, la trama più rarefatta, come Grabstein für Stephan Op.15c, ...quasi una fantasia... Op.27 n.1 e il Doppio Concerto Op.27 n.2 gli intensissimi Songs Of Despair And Sorrow, Op. 18 e i Brefs Messages Op.47 siano i più suggestivi e emotivamente incisivi.

    Reinbert de Leeuw è un interprete di grande esperienza del repertorio moderno e contemporaneo e si dimostra completamente a proprio agio e in particolare sintonia con la musica di Kurtág.
    E' in generale musica da affrontare poco per volta, con la giusta concentrazione e il giusto stato d'animo, ma che può regalare grandi emozioni. 

  9. happygiraffe

    Recensioni Cuffie
    Hifiman è un produttore cinese di cuffie di cui abbiamo parlato spesso qui su VG. Le HE1000SE sono uno dei modelli di punta del marchio, con un prezzo che si aggira intorno ai 3500€, superate solo dalle mitiche Susvara. 3500€ sono una cifra decisamente impegnativa per un paio di cuffie, per molti oltre i limiti della follia, per cui vediamo di capire cosa hanno di speciale queste HE1000SE.
    Si tratta della terza generazione delle originali HE1000, ma si distinguono dai due modelli precedenti per una facilità di pilotaggio che gli altri non avevano.
    A un primo sguardo l’aspetto è molto elegante, con i due padiglioni ovali molto ampi, contornati da inserti di legno scuro. I padiglioni possono ruotare di 360° e la striscia centrale di pelle può essere regolata in altezza. Le orecchie alloggiano molto comodamente all’interno degli ampi cuscinetti, che si presentano rivestiti in pelle esternamente e di tessuto all’interno. Pur pesando 440g, sono molto comode e apparentemente leggere da indossare, anche per sessioni di ascolto molto prolungate.

    Le cuffie arrivano in una bella scatola di legno con una placca di alluminio. Hifiman questa volta è prodiga di cavi: uno da 1,5m con jack piccolo da 4,4mm, uno sempre da 1,5m con jack grande da 6,3mm e uno lungo 3m bilanciato con XLR a 4 pin. I cavi hanno una sezione piuttosto sottile e una consistenza invero bizzarra, per non dire inquietante, però, al di là dell’aspetto, sono dei buoni cavi.

    Le HE1000SE impiegano un diaframma molto ampio, siamo nell’ordine di 60mmm x 100mm, molto più grande rispetto a delle cuffie dinamiche e molto più sottile. Stiamo parlando di una pellicola con uno spessore dell’ordine dei nanometri! Un trasduttore sottile, comporta una massa più ridotta e di conseguenza una risposta più veloce e minori distorsioni. Inolte HifiMan ha lavorato sulla forma e la posizione dei magneti in neodimio, nonché sul design della griglia, per ridurre interferenze e diffrazioni.

    La sensibilità è stata portata a 96dB dai 91dB dei modelli precedenti, rendendo questa cuffia semplice da pilotare per qualsiasi amplificatore, compresi i DAP portatili. Il mio consiglio, però, è quello di abbinare queste cuffie con un amplificatore di qualità per poterne estrarre tutto il meglio di quello che possono dare.
    Passiamo ora alla parte più divertente, ovvero ai test, perché, al di là degli aspetti costruttivi e della tecnologia che c’è dietro, quello che veramente importa è come suonano.
    Test di ascolto
    Per questo test ho usato sia l’irreprensibile DAC con ampli cuffia Audio-GD Master 11 che il più economico Audio-GD R2R-11 mk2.
    Ho ascoltato un po' di tutto per questa recensione, spaziando tra diversi generi musicali, e devo ammettere che mi sono divertito parecchio. Qui di seguito ci sono le mie impressioni relative ai singoli ascolti. Se non avete voglia di leggerle, potete passare direttamente alle conclusioni in fondo alla pagina.

    The Allman brothers band, The 1971 Fillmore East recordings. Island Def Jam, 2014.
    You don't love me (first show). 24/192kHz.
    Questo disco raccoglie le storiche registrazioni dei concerti al Fillmore East del 1971 degli Allman brothers. Quello che stupisce è l’ampiezza del palcoscenico, la localizzazione precisa di tutti gli strumenti e una sensazione di musica dal vivo molto realistica. Tutto bellissimo, manca tuttavia quell’impatto viscerale che provo con le mie cuffie dinamiche, le Focal Clear.

    Nirvana, Nevermind. Geffen, 2014.
    Smells like teen spirit. 24/96.
    Album mitico del 1991 del gruppo grunge di Seattle. Incredibile come le HE1000SE siano veloci e dinamiche. Il basso è corposo, la batteria suona piena fino alle frequenze più elevate, solo la chitarra elettrica risulta un pelo fastidiosa alle mie orecchie. Nel complesso l’energia del brano viene trasmessa senza compromessi,

    Paul Simon, Still crazy after all these years. Legacy recordings, 1975.
    50 ways to leave your lover. 24/96 kHz.
    L’inconfondibile introduzione delle percussioni di Steve Gadd suona incredibilmente ricca di dettagli. La raffinatezza con la quale vengono riprodotti gli strumenti acustici e la voce di Paul Simon è semplicemente pazzesca. Meraviglioso.

    Beck, Sea Change. Interscope, 2002.
    Paper Tiger. 24/88.2.
    La linea del basso di Justin Meldal-Johnsen, articolata e inizialmente sottile, poi via via più presente, rimane spesso nascosta sotto gli altri strumenti. Qui invece viene messa nella giusta luce e valorizza l’intero brano.

    Bob Dylan, Rough and rowdy ways. Columbia, 2020.
    I contain multitudes. 24/96.
    L’ultimo disco di Bob Dylan, con in copertina un'iconica foto di Ian Berry, è l’ennesimo gioiello della sua lunghissima carriera. La sua voce consumata dagli anni non è mai suonata così vera. Fa da sfondo un articolato tappeto sonoro di chitarre armoniche, una pedal steel guitar e un contrabbasso suonato con l’archetto.

    Radiohead, Kid A. XL Recordings, 2000.
    The National Anthem. 16/44.1.
    Brano mitico dei Radiohead, molto difficile da riprodurre per la sovrapposizione di svariati strumenti (addirittura delle onde Martenot) e di efffetti sonori. Rimango stupito dall’ottima resa spaziale degli effetti che volteggiano intorno a me. Stupefacente la voce distorta di Tom Yorke quando finalmente comincia a cantare.

    Keith Jarrett, Jan Garbarek, Palle Danielsson, Jon Christensen, My Song. ECM, 1978. 
    Country, 24/96 kHz.
    Era il 1977 quando Keith Jarrett e il suo quartetto norvegese incidevano questo bellissimo disco. I timbri del piano e del sax vengono riprodotti con grandissima raffinatezza. Da commuoversi per come suonano i piatti, così ricchi di dettagli. Bello pieno il contrabbasso nel duetto con il piano. Sembra di esserci.

    Fred Hersch Trio, Live in Europe.
    Newklypso (for Sonny Rollins). 24/44.1 kHz.
    Disco straordinario, inciso benissimo in uno studio radiofonico in Belgio. Pieno e robusto il basso in apertura, ma è impressionante la vividezza di tutti gli strumenti. Chiudendo gli occhi si può vedere la scena davanti a noi.

    Bill Frisell, Epistrophy. ECM, 2019.
    You only live twice. 24/96 kHz.
    Un disco live con la chitarra elettrica di Bill Frisell che duetta con il contrabbasso di Thomas Morgan. La resa timbrica è pazzesca, come pazzesca è la qualità dei bassi, che scendono molto, molto giù. La scena è praticamente in 3D. Emozionante.

    Muddy Waters, Folk singer. Geffen Records, 1964.
    Good morning little schoolgirl. 24/192.
    Disco unplugged inciso divinamente nel 1964 e ora riproposto in 24/192. Tutto magnifico, ma forse più di tutto quello che mi colpisce è la ricchezza del timbro della voce di Muddy Water. Al di là dei dettagli, è veramente’ difficile resistere alla tentazione di batter il piede e ondeggiare col corpo.

    Gyorgy Ligeti, Works for piano: études, Musica ricercata. Pierre-Laurent Aimard, pianoforte. Sony Classical, 1996.
    L'escalier du diable. 24/44.1.
    Un pezzo per pianoforte di Ligeti molto difficile da suonare e da riprodurre. Il pianoforte viene usato in maniera percussiva e le dinamiche sono molto elevate. Lo strumento appare perfettamente centrato all’interno del palcoscenico, l’acustica è molto spaziosa e si possono indovinare le dimensioni della sala. Le HE1000SE sono ancora una volta molto veloci e perfettamente a loro agio nel riprodurre l’ampia gamma di timbri del pianoforte.

    Prokofiev, concerti per violino e orchestra. Lisa Batiashvili, Chamber Orchestra of Europe, Yannick Nézet-Séguin. DG, 2018. 
    Secondo concerto, terzo movimento Allegro, ben marcato. 24/96.
    E’ un disco ottimamente registrato che con le HE1000SE suona divinamente. Il violino della Batiashvili è riprodotto in ogni sua sfumatura e bel si amalgama con il resto dell’orchestra. Il vasto uso delle percussioni (piatti, triangolo, castagnette, grancassa, rullante) in questo terzo movimento del secondo concerto di Prokofiev è perfettamente documentato, con un’evidenza tale che, ancora una volta, sembra di essere seduti in mezzo alla platea.

    Telemann : concerti per viola, ouvertures, fantasie, sonate. Antoine Tamestit, viola, Akademie fur Alte Musik Berlin. Harmonia Mundi, 2022.
    Fantasia per viola sola, TWV 40:14. 24/96.
    Qui siamo proprio all’estasi pura. Ho scelto questo brano per viola sola, perché le HE1000SE sono realmente magiche. La viola Stradivari di Antoine Tamestit, uno dei migliori violisti al mondo, suona divinamente. Lo strumento è di fronte a noi, l’acustica è ampia e riverberante. Si riesce a percepire ogni più piccolo dettaglio e sfumatura di questo meraviglioso strumento.

    Bartók: Orchestral Works. Helsinki Philharmonic Orchestra, Susanna Mälkki. BIS, 2021.
    Musica per archi, percussioni e celesta; Concerto per Orchestra. 24/96.
    Un disco ideale per questo genere di test. Il livello tecnico della registrazione e dell'interpretazione qui sono al top. Inoltre, la Musica per per archi, percussioni e celesta prevede una disposizione particolare dei musicisti, con la sezione degli archi divisa in due e disposta in maniera simmetrica a destra e a sinistra del direttore, e l'impiego di strumenti particolari. La riproduzione con le HE1000SE risulta assolutamente tridimensionale, con ogni strumento che suona come suonerebbe dal vivo. Nel Concerto per Orchestra, dove ogni strumento ha dignita di solista, la compagine orchestrale risulta più amalgamata, ma ogni sezione risulta chiaramente distinguibile. L'esperienza di ascolto è memorabile.
    Conclusioni
    Bassi
    Con riferimento alla gamma bassa, sono due i fattori che mi hanno molto colpito: la linearità fino a frequenze bassissime e la qualità timbrica. In questo senso l’ascolto di Bill Frisell e Beck possono dire molto su queste cuffie. Le HE1000SE sono in grado di scendere davvero molto in basso, mantenendo un elevatissimo grado di dettaglio e di pulizia. Nel complesso la gamma bassa è molto uniforme e equilibrata rispetto alle altre frequenze.
    Medi
    La gamma media è assolutamente meravigliosa, pulita, aperta, neutrale. E’ difficile descrivere il grado di accuratezza con la quale vengono riprodotti i timbri dei diversi strumenti e della voce umana, ma qui siamo a livelli superlativi.
    Alti
    Queste cuffie sono capaci di andare al tempo stesso molto in basso e molto in alto. La quantità di informazioni che riescono a restituire nelle alte frequenze è inaudita. L’accuratezza della resa timbrica è pure impressionante. Per quanto riguarda gli alti, l’unico limite è rappresentato dai nostri timpani. Con alcune dischi, specialmente di musica rock, dove le chitarre elettriche sono spesso distorte, avrei voluto abbassare un po’ le alte frequenze. Qui sta a ciascuno decidere se equalizzarle un po’ o meno.
    Soudstage
    La scena sonora riprodotta è molto ampia e profonda, in maniera assolutamente realistica. Nelle buone registrazioni sembra davvero di aver davanti i musicisti. Giusto a livello di aneddoto, mi è capitato diverse volte di indossare le cuffie, premere play e avere l’impressione che la musica venisse da fuori, al punto di credere di non aver fatto lo switch dai miei diffusori alle cuffie.
    Immagine
    I diversi musicisti sono perfettamente isolati e collocati nello spazio
    Risoluzione
    La risoluzione è impressionante. Queste cuffie sono assolutamente radiografiche, nel senso che sono in grado di isolare e riprodurre qualsiasi infinitesimo dettaglio presente nel segnale sonoro. Di contro, le registrazioni di scarsa qualità mostrano tutti i loro limiti.
    Dinamica
    Per essere delle cuffie planari, le HE1000SE hanno una dinamica eccellente e sono molto veloci. Con registrazioni dall’alto contenuto energetico (rock, metal, etc) a mio avviso perdono leggermente, rendendo a volte preferibile una cuffia dinamica.
    Equalizzazione
    Ha senso equalizzare delle cuffie di questo livello?? A mio avviso per la musica classica, jazz, acustica in generale non è necessario. Nel caso uno fosse sensibile alle frequenze più alte (è una cosa molto soggettiva, io lo sono, ad esempio) si può prendere in considerazione un leggera equalizzazione quando si ascoltano musica rock e affine.
    Conclusioni finali
    Le HE1000SE sono indubbiamente delle cuffie di qualità superlativa. Non manca niente: accuratezza e raffinatezza nella riproduzione dei timbri strumentali, risposta in frequenza esemplare, dinamica notevole, soundstage molto ampio, risoluzione pazzesca.
    In rete c'è chi dice che queste cuffie sono talmente analitiche che si presta più attenzione alla registrazione che non alla musica. Onestamente non mi trovo d'accordo: è vero che sono cuffie che rivelano molto della qulità delle registrazioni che stiamo ascoltando, ma quando si ascoltano buone incisioni, sono in grado di regalare momenti di pura magia, facendoci perdere nella pura dimensione musicale.
    Mi sento di fare ancora una considerazione: per quanto uno strumento come questo possa essere molto costoso, non esistono cuffie che vadano ugualmente bene per tutti i generi musicali. Le HE1000SE, che sicuramente  suonano in maniera spettacolare con qualsiasi musica, danno però il meglio con gli strumenti acustici, rivelandocene ogni più intimo segreto.
     
    Pro
    -          Semplici da pilotare
    -          Comodità e design
    -          Soundstage e separazione degli strumenti
    -          Dettaglio
    -          Realismo e raffinatezza dei timbri strumentali
    -          Linearità e estensione della risposta in frequenza
    -          Probabilmente rappresentano il top per la musica classica e acustica in generale
    Contro
    -          Qualche scricchiolio quando si indossano
    -          Cavi buoni, ma esteticamente non sono un granché
    -          Prezzo molto elevato
     
  10. happygiraffe

    Recensioni Cuffie
    Vorrei innanzitutto ringraziare Hifiman che ci ha fornito questi auricolari in cambio della nostra sincera opinione. La nostra analisi sarà quanto più possibile oggettiva e, anzi, comincio subito col dire che in redazione non siamo dei grandi fan degli auricolari, abituati come siamo ad ascoltare musica tramite cuffie tradizionali (quando non con diffusori), comodamente seduti in poltrona. Ho accettato però con entusiasmo l’idea di testare queste “cuffiette” prodotte da un’azienda molto nota in ambito hifi per le sue magnifiche cuffie magnetostatiche.
    E così veniamo a parlare di queste RE 600s V2, evoluzione delle RE 600 lanciate nel 2013 e appartenenti alla  famiglia “premium” del catalogo di Hifiman.

    Si tratta di auricolari con un driver da 8.5mm, un diaframma in Titanio e un magnete in neodimio, pensati per ascolti di qualità su dispositivi portatili.
    Si presentano in una confezione davvero molto, molto bella, che stupisce per la cura che Hifiman ha voluto dedicare a questo prodotto.

    Al suo interno troviamo un’ampia scorta di “tappini”: 3 paia a doppia flangia (small), 2 paia a doppia flangia (medium), 2 paia monoflangia (small), quattro paia in silicone (small e medium). Tra gli accessori anche cinque coppie di filtri extra, nel caso col tempo si presentasse la necessità di sostituirli.

    In più Hifiman fornisce una comoda e compatta custodia da viaggio circolare (contenente ancora altri ear-tips).

    Sono auricolari di taglia piuttosto ridotta e, una volta trovata la coppia di adattatori che meglio si adatta alle nostre orecchie, sono in grado di fornire un buon isolamento dai rumori esterni. L’ingombro limitato e la loro leggerezza li rendono piuttosto comodi da utilizzare. Il cavo, cambiato rispetto alla versione precedente, è di buona sezione e termina con un jack dritto da 3.5mm. Da notare che il cavo è fisso, cosa prevedibile viste le dimensioni dell’auricolare.
    Prova d’ascolto
    Ho dovuto sottoporre questi auricolari ad un lungo rodaggio di circa 100 ore prima che cominciassero a dare il meglio delle loro possibilità. Da nuovi facevo davvero fatica ad ascoltarli. Per questa prova li ho accoppiati al fidato lettore Fiio X5.

    Bassi
    I bassi sono ben presenti, ma mai esagerati, anzi molto equilibrati e di qualità, in linea con l’impostazione molto neutra di queste cuffie. A volte sentiremmo l’esigenza di un basso più pieno e presente, ma servirebbe un driver più ampio per ottenerlo. Come prevedibile si percepisce una certa attenuazione dai 100Hz in giù.
    Medi
    Le medie frequenze sono il vero grande punto di forza di questi auricolari: il suono è aperto e trasparente, le voci umane hanno corpo e presenza e sono riprodotte con grande naturalezza. I timbri degli strumenti sono assolutamente realistici e ben bilanciati.
    Alti
    Le  frequenze medio-alte presentano un buon grado di dettaglio, ma quando messe alla corda da alcuni strumenti (clavicembalo, ma anche pianoforte, chitarre elettriche) ho invece percepito una leggera asprezza che può rendere l’ascolto di alcuni brani un po’ faticoso a chi ha orecchie più sensibili a queste frequenze, come è il mio caso. Andando più su le cose migliorano, anche grazie ad un’evidente attenuazione della parte più alta dello spettro.
    Palcoscenico
    Il soundstage è a mio avviso il secondo punto di forza di queste cuffie: l’immagine riprodotta stupisce molto per ampiezza, profondità e capacità di separare e localizzare con precisione gli strumenti nello spazio e questo non è cosa da poco!
    Conclusioni
    Riassumendo, si tratta di un paio di ottimi auricolari che suonano in modo molto neutrale e ricco di dettaglio e che fanno della linearità nelle medie frequenze il loro punto di eccellenza, insieme a un palcoscenico virtuale davvero sorprendente.
    Nel trarre le conclusioni non si può fare a meno di considerare l’elemento economico. Questi sono auricolari che al momento del lancio venivano venduti a 400$ (negli USA), prezzo che trovo eccessivamente alto per quello che offrono. Oggi si possono trovare a 120€ nel più famoso negozio online del pianeta, mentre sullo store di Hifiman sono proposti in offerta addirittura a 64,99$, anziché a 200$.
    A questo prezzo diventano oggetti decisamente più interessanti e appetibili, con un rapporto qualità-prezzo molto favorevole, che mi rende molto più facile consigliarli a chi sia interessato a questo tipo di dispositivi. Siamo comunque, a mio avviso, ancora lontani da un’esperienza di tipo “audiophile”, come dicono nei paesi anglosassoni, per la quale bisognerà passare a modelli superiori per qualità e prezzo.
    Segnalo l’esistenza di un modello più economico, le RE400, che oggi si trovano intorno ai 60€, che mantengono la stessa impostazione molto neutrale delle RE600S e un’ottima gamma media, ma con prestazioni complessivamente inferiori, che potrebbe interessare chi ha un budget più ristretto.
     
    Pro
    Confezione molto bella, ideale per un regalo
    Leggerezza e comfort
    Dettaglio
    Palcoscenico ampio
    Suono bilanciato e neutrale
    Ampia disponibilità di eartips
     
    Contro
    Cavo fisso
    Basso un po’ esile
    Medio alti a tratti un po’ aspri
  11. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    Igor Levit, Life.
    Musiche per pianoforte di Busoni, Brahms, Schumann, Rzewski, Liszt, Evans.
    Sony 2018
    ***
    Ad ogni nuovo disco del trentunenne pianista Tedesco Igor Levit rimango senza parole. 
    Prima l'esordio con le ultime cinque sonate di Beethoven, affrontate con una maturità e una intensità impressionanti, poi le Partite di J.S. Bach, successivamente un poderoso triplo disco contenente le variazioni Goldberg, le variazioni Diabelli e le bizzarre 36 variazioni di Frederic Rzewski “The people united will never be defeated!”. Tutto questo nell’arco di soli tre anni. 

    Ora esce con un doppio disco, intitolato Life, un concept album che letteralmente svernicia i diversi album a programma, spesso molto simili tra loro, che le etichette discografiche ci stanno proponendo (o propinando?) sempre più frequentemente. 
    Il programma è denso e originale, ricco di opere che non si ascoltano spesso (vivaddio!) e in grado di passare dalle epiche costruzioni di un Busoni a momenti di lirica riflessione.
     L’idea di questo album nasce da un momento di profonda sofferenza di Igor Levit per la morte di un caro amico avvenuta nel 2016. Ma questo programma, già dal titolo “Life”, celebra in qualche modo la continuità dell’esistenza, ma anche la continua rinascita del pensiero musicale di un compositore attraverso le riletture degli interpreti e soprattutto tramite le diverse rielaborazioni che ne possono fanno i compositori successivi. Basta uno rapido sguardo alla scaletta per accorgersi che è ricca di trascrizioni e omaggi ad altri compositori (Busoni-Bach, Brahms-Bach, Liszt-Wagner, Busoni-Liszt-Meyerbeer).

    L'elemento del lutto o della morte rimane tuttavia un elemento ben presente in diversi brani del disco. Si comincia infatti con Busoni e la sua Fantasia da Bach BV 253, dedicata alla memoria del padre scomparso. L'interpretazione è intensa e dolente, di un minuto più lunga della versione di Marc-André Hamelin del 2013 per Hyperion, che però tendo a preferire.
    Segue la trascrizione di Brahms della Ciaccona per violino solo dalla seconda partita di Bach per pianoforte, per la sola mano sinistra. Qui Levit ha preferito la rispettosa rilettura di Brahms alla più virtuosistica rilettura di Busoni, che considera più un pezzo da concerto. 
    La sua interpretazione è pura ed essenziale, decisamente diversa dalla versione di Trifonov, più lunga di 2 minuti e mezzo e più...eccessiva in tutto. Levit è più misurato e lascia che le emozioni si accumulino gradualmente man mano che la musica avanza, evitando di eccedere con la retorica.
    Il terzo brano in programma sono le cosiddette Geistervariationen (Variazioni fantasma) WoO 24 di Robert Schumann. Sono l'ultima opera per pianoforte composta da Schumann prima che venisse internato in manicomio. Il povero Schumann sosteneva che il tema gli fosse stato suggerito da delle voci di angeli e durante la composizione delle variazioni tentò il suicidio gettandosi nelle gelide acque del Reno. 
    Si tratta di un lavoro eseguito di rado, che possiede una sua scarna bellezza, sicuramente molto lontano dalle scintillanti e fantasiose opere giovanili.
    Si arriva quindi al lavoro del compositore americano Frederic Rzewski "A Mensch" del 2012, dedicato alla memoria dell'attore e poeta Steve Ben Israel, che lo stesso Levit aveva ascoltato in concerto insieme al suo amico scomparso.

    Si torna poi indietro nel tempo con la trascrizione di Liszt della marcia solenne al sacro Graal dal Parsifal di Wagner (S.450). L'interpretazione è tesa, magistralmente controllata, così intensa da togliere il fiato.
    Si arriva così al pezzo più lungo e complesso del disco: la mastodontica composizione di Liszt Fantasia e Fuga sulla corale "Ad nos, ad salutarem undam" di Meyerbeer (S.259) nella trascrizione dall'organo al pianoforte ad opera di Busoni. Chiaramente la trasposizione dall'organo al pianoforte ci riconsegna un pezzo che sembra totalmente nuovo rispetto all'originale. Io l'ho trovato molto bello, con il meraviglioso Adagio centrale, onirico nella versione per organo, che qui diventa qualcosa di trascendente.
    Si continua con Liszt e la sua trascrizione del Liebestod di Isotta, dal Tristano e Isotta di Wagner. La versione di Levit è di circa un minuto più lunga di quella di Alfred Brendel, che però a mio modo di vedere ci regala una lettura più avvincente.
    Ci si avvia alla conckusione del disco e passando dalla breve e dolce Berceuse tratta dalle Elegie BV 249 di Busoni, si arriva, con una certa sorpresa, alla lirica e meditativa Peace Piece, celebre brano del jazzista statunitese Bill Evans, improvvisato durante le registrazioni di "Everybody digs Bill Evans" (Riverside, 1959). Già Jean-Yves Thibaudet aveva ripreso questa composizione nel suo disco del 1997 dedicato a Bill Evans (Conversations with Bill Evans, Decca). Levit nei tempi è più vicino alla versione di Evans di quanto non lo sia Thibaudet, decisamente più lento. Il pezzo con la sua serenità prende per mano l'ascoltatore e lo accompagna fuori da un percorso contraddistinto da una certa cupezza. 

    In sintesi un programma molto interessante e originale, che tiene la strada nonostante una certa eterogeneità dei pezzi, eseguito in modo straordinario da un pianista che si conferma dotato di una intelligenza interpretativa e di una maturità fuori dal comune. Sicuramente, visti il tema conduttore del disco e l'intensità emotiva che ne deriva, va ascoltato con una certa predisposizione d'animo. Per me è uno dei migliori dischi del 2018.
     
     
  12. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    Dmitri Shostakovich, 24 Preludi e Fughe Op.87.
    Ronald Stevenson, Passacaglia on DSCH.
    Igor Levit, pianoforte.
    Sony Classical, 2021.
    ***
    Igor Levit negli ultimi anni si è imposto come uno dei migliori pianisti della sua generazione, distinguendosi da un lato per le scelte di repertorio che danno ampio spazio a compositori e composizioni meno noti, dall’altro come l’uomo delle incredibili maratone pianistiche (l’ultima sua follia che mi viene in mente è la diretta su YouTube di Vexations di Érik Satie, 18 ore di musica!). Levit è un pianista colto e intelligente che affronta la sala d’incisione con grandissima serietà e preparazione. Quest’ultimo disco ci offre un’altra prova ciclopica: i 24 preludi e fighe Op.87 di Shostakovich e la meno nota Passacaglia su D.S.C.H. di Ronald Stevenson, per un totale di 3 ore e 50 minuti di musica.
    Era il 1950 quando Dmitri Shostakovich (1906-1975), che aveva allora 44 anni, fu chiamato a Lipsia come giurato di una rassegna che celebrava il secondo centenario della morte di Bach. In quello stesso contesto conobbe la giovane pianista russa Tatjana Nikolaeva, vincitrice del concorso pianistico. Fu in quell’occasione che decise di rendere un omaggio a Bach, componendo una serie di 24 preludi e fughe per pianoforte, che percorrevano tutte le tonalità maggiori e minori, così come aveva fatto Bach nel Clavicembalo ben temperato, ma questa volta non in ordine cromatico, bensì secondo il circolo delle quinte (Do-Sol-Re-La-Mi ecc. dove al maggiore segue il relativo minore). Era la sequenza già adottata da Chopin nei suoi 24 Preludi, op.28.

    Una prima parziale esecuzione avvenne per mano dello stesso compositore nel 1951, ma l’opera fu bollata di “formalismo” dal regime sovietico (in pratica non era conforme al realismo social-popolare al quale gli artisti dovevano piegarsi in quegli anni). Fu la stessa Tatjana Nikolaeva ad eseguire integralmente i Preludi e Fughe in pubblico nel 1952 e ad assicurarne la pubblicazione.
    Pur nell’evidente omaggio a Bach, il linguaggio di quest’opera è lontano da ogni manierismo e anzi si apre a un ampio ventaglio di stili e caratterizzazioni diversi: da lirico a marziale, da epico a introspettivo, da sfrenato a dolente, da serio a sarcastico.
    Ed è nella precisa e raffinata restituzione di tutti questi diversi caratteri che si rivela la maestra di Igor Levit. Ascoltiamo la soave evocazione delle primo preludio in do maggiore, o l’andamento misterioso del quarto preludio e fuga in re maggiore. E poi l’iridescente e gioiosa settima fuga in la maggiore, resa con una delicatezza commovente, seguita dall’ironica marcetta dell’ottavo preludio, che porta a quello che forse è il capitolo più introspettivo e doloroso di tutta l’opera, la lunga fuga in Fa diesis minore. La vivace immediatezza della successiva fuga in Mi maggiore ci riporta gioia e speranza. Si arriva così alla conclusione della prima metà, con Levit che ci porta dagli abissi del dodicesimo preludio alla sfrenata cavalcata della fuga in 5/4!
    Il provocativo sarcasmo del quindicesimo preludio è restituito in maniera implacabile e la successiva fuga in re bemolle maggiore, velocissima, ci trascina in un feroce vortice in cui si arriva a sfiorare l’atonalità. Il preludio e fuga che seguono, arrivano alle nostre orecchie come una soave e lunga consolazione. Il suono delicato e morbido di Levit è di commovente bellezza.
    Si arriva così all'ultimo grandioso preludio e fuga al quale il pianista riesce a conferire un senso di tragica inesorabilità, pur mancando nel finale di imprimere quel furioso cambio di tempo, indicato nella partitura e eseguito da molti altri pianisti.
    Tatjana Nokolaeva registrò tre volte i Preludi e Fughe Op.87, nel 1962, 1987e 1990 e per molti anni queste incisioni sono state considerate un riferimento assoluto nella discografia.

    Grandi pianisti russi come Richter e Gilels ne incisero purtroppo solo una manciata. C’è una testimonianza discografica dello stesso Shostakovich che ne esegue un discreto numero in questo disco molto interessante:

    In tempi più recenti si ritrovano diverse incisioni (addirittura ce n’è una di Keith Jarrett), delle quali ricordo quella notevole di Alexander Melnikov per Harmonia Mundi, purtroppo non disponibile su Qobuz, ma reperibile comunque su altri siti.

    Quest’ultima di Igor Levit si pone a mio avviso come il nuovo riferimento assoluto per chi si voglia avvicinare a quest’opera. 
    Veniamo ora alla seconda parte di questo disco, la Passacaglia su DSCH di Ronald Stevenson (1928-2015), compositore scozzese conosciuto solo agli addetti ai lavori e decisamente meno noto di Shostakovich. Socialista, pacifista, obiettore di coscienza, Stevenson fu un compositore, ma anche un grande virtuoso del pianoforte, ponendosi sulla scia di Busoni. E’ ricordato principalmente proprio per questa Passacaglia, famosa per essere un’opera in un unico movimento (in realtà contiene delle suddivisioni) della durata di circa 85 minuti.

    Composta nel 1963, la Passacaglia è un omaggio dichiarato allo stesso Shostakovich. DSCH è il monogramma musicale ideato dallo stesso Shostakovich: D.Sch., D–Es–C–H, che nella notazione tedesca equivalgono infatti ai nostri Re, Mi bemolle, Do, Si. Il compositore russo usò queste 4 note in molte sue composizioni, come una vera e propria firma.
    Lo stesso motivo è alla base della lunga serie di variazioni di Stevenson che compongono la Passacaglia.
    Stevenson la suddivide in tre grandi parti: la prima che riunisce l’iniziale Sonata, una suite di danze e altri pezzi brevi, il secondo che ricorda più una fantasia composta da variazioni di carattere molto diverso e études, il terzo contenente una poderosa tripla fuga.
    Quest’opera monumentale contiene diversi riferimenti e influenze musicali (oltre a Shostakovich, scorgiamo Liszt, Busoni, Messiaen, fino alle manifeste citazioni finali del Dies Irae e del monogramma di Bach, B.A.C.H.), così come storici (da uno slogan di Lenin, alle vittime dell’Olocausto, passando per l’Africa emergente). 
    Si tratta di un lungo viaggio, che richiede tempo e concentrazione all’ascoltatore, ma che può regalare molte soddisfazioni.
    Pochissime le incisioni alternative, tra le quali quella di John Ogdon, che però non è più reperibile.
    Questa versione di Levit sicuramente si pone come un riferimento, non solo per le capacità tecniche con le quali supera le difficoltà della partitura, ma per la capacità di tenere insieme una struttura così lunga, articolata e complessa.
    Tirando le conclusioni, questo è un disco monumentale che impegna l’ascoltatore in un lungo tour de force, ma che da un punto di vista artistico e intellettuale è probabilmente una delle migliori produzioni discografiche degli ultimi anni.

     
  13. happygiraffe
    Il pianoforte sembrava uno strumento ormai maturo e per il quale era difficile prevedere particolari evoluzioni. I grandi produttori come Yamaha e Steinway da decenni producono i loro strumenti senza mostrare particolari tensioni innovative. E' stato il belga Chris Maene negli ultimi anni a dar prova di grande originalità, prima con il pianoforte a coda con corde parallele, sviluppato insieme al pianista e direttore d'orchestra Daniel Barenboim:

    e più recentemente con un pianoforte con la tastiera erognomica, vale a dire curva, in modo che il pianista possa suonare agli estremi della tastiera in maniera più naturale è confortevole:

    Anche in questo modello le corde sono disposte in modo da non sovrapporsi:

    L'idea di questo strumento nasce da una chiacchierata tra l'architetto Rafael Viñoly, Martha Argerich e Daniel Barenboim ed è poi stata realizzata da Chris Maene sulla base del progetto di Viñoly, con la collaborazione di artisti del calibro di Emanuel Ax, Daniel Barenboim, Kirill Gerstein e Stephen Hough. Per la realizzazione del telaio è stata necessaria la consulenza dell'Università di Leuven e di una società di ingegneria.
    Lo strumento ha un aspetto principesco, così come principesco è l'assegno che bisogna staccare per portarselo a casa (330k€ più IVA, per chi fosse interessato).

    Il pianoforte è stato presentato al festival di Verbier la scorsa estate dal pianista Kirill Gerstein. Vi condivido il breve video che gira in rete, dal quale però è difficile farsi un'idea di come suoni davvero. Bisognerà aspettare ancora qualche mese per poterlo ascoltare in qualche disco. 
     
  14. happygiraffe

    Recensioni Audio
    Breve preambolo per chi non fosse un impallinato di hifi e musica liquida.
    Ci sono principalmente due modi di ascoltare la musica liquida, che provenga da una delle diverse piattaforme (tidal, qobuz, apple, amazon, etc) o dal nostro archivio di musica digitale. Il primo è quello di usare uno streamer, ovvero un apparecchio dedicato che si collega tramite internet alle varie piattaforme di musica liquida e tramite un dac interno converte il segnale digitale in un formato analogico che viene poi inviato ad un amplificatore e da qui alle casse. In pratica lo streamer è il corrispettivo "liquido" di quello che una volta era il lettore cd.
    Il secondo modo è quello di usare un pc come player. La musica in formato digitale esce tramite la porta usb e viene inviata a un convertitore digitale-analogico (DAC) e da qui a un amplificatore. 
    Ogni sistema ha i suoi pro e contro. Li ho usati entrambi, ma alla fine ho preferito servirmi del pc per modularità, versatilità e minore obsolescenza rispetto a uno streamer.
    Il pc, nel mio caso un portatile, ha però un grosso problema. A meno che non parliamo di computer particolari progettati per la riproduzione audio, solitamente i pc dei comuni mortali usano l'uscita usb per mandare i file musicali all'esterno. L'uscita usb non nasce per la riproduzione audio ed ha due grossi problemi: il primo è che il segnale audio è "sporcato" dal rumore digitale, il secondo è che il segnale è affetto da "jitter": in pratica il metronomo che batte il tempo della musica che stiamo ascoltando non è preciso, a volte accellera, a volte rallenta.
    Per risolvere il problema, già da anni esistono sul mercato quelle che si chiamano interfacce digitali, ovvero degli apparecchi che prendono il segnale audio dall'uscita USB del computer, lo ripuliscono dal rumore e lo rimettono al tempo corretto, grazie a un clock interno sensibilmente migliore di quelli normalmente usati nei pc, e infine lo inviano al DAC.

    Dopo aver ignorato le interfacce digitali per anni e sottovalutato i problemi di jitter e rumore digitale, qualche settimana fa ho deciso di provarne una: il Singxer SU-6.
    Singxer è un'azienda cinese, presente da una decina d'anni sul mercato. L'SU-6 si presenta come una scatoletta poco pretenziosa, larga circa 24cm:

    Sul retro troviamo l'ingresso USB e le diverse uscite:

    - due uscite S/PDIF, una con connettore RCA e una BNC
    - AES/EBU
    - ottica
    - i2s tramite RJ45
    - i2s tramite HDMI (doppia)
    - un'uscita per il clock con interfaccia BNC
    L'SU-6 impiega due oscillatori Crystek CCHD-957 e accetta file PCM fino a 384kHz/32bit e DSD512 (tramite I2S). Sul mercato ci sono apparecchi che arrivano a risoluzioni maggiori, ma a me queste bastano e avanzano.

    Una particolarità riguarda l'alimentazione: un banale trasformatore esterno carica un supercondensatore, che viene quindi usato per alimentare L'SU-6 e che virtualmente annulla l'impatto dell'alimentatore esterno sulla performance. Non c'è un interruttore, si collega il trasformatore alla presa, il condensatore ci mette circa un minuto per caricarsi abbastanza da far funzionare l'SU-6 e a quel punto si accende la spia sul display frontale. Il sistema è fatto per rimanere sempre acceso. In realtà occorrono 20 minuti perché il condensatore sia completamente carico.


    Altra particolarità è che sulla parte inferiore dell'apparecchio ci sono degli switch per configurare l'uscita i2s HDMI. Il manuale fornisce i dettagli per configuare i vari switch per alcuni marchi di DAC:


    E' una soluzione che va bene se non si prevede di passare spesso da un modello di DAC a un altro.
    L'impiego è banale: si collega l'ingresso usb al pc e una delle uscite al DAC. Fine. Il display frontale non fornisce indicazioni particolari: ci informa se stiamo riproducendo musica e file DSD.
    Ci vuole qualche giorno di rodaggio perché suoni al meglio. 
    All'ascolto il risultato è semplicemente eclatante! In realtà un'interfaccia digitale ha il solo il compito trasferire al DAC il segnale digitale così come dovrebbe essere, vale a dire ripulito dal rumore e dal jitter, e quanto pare il mio DAC è stato felice di cibarsi finalmente di un segnale di qualità! Quello che mi ha sorpreso è la naturalezza del suono e del posizionamento degli strumenti nella scena, nonché la sensazione che diffusori e cuffie scompaiano letteralmente (con buone registrazioni ovviamente).
    Già con l'uscita coassiale il risultato è notevole, passando all'uscita i2s c'è ancora un po' di miglioramento.
    Non nascondo di aver avuto qualche problema con l'uscita i2s su hdmi. Saltuariamente riscontravo un'attenuazione e delle distorsioni delle alte frequenze. Il problema sembra essere rientrato pulendo i contatti della presa sul DAC con del DeoxIT. 
    Il costo ad oggi si aggira tra i 600 e i 700€, non pochissimo, ma se penso a quanto è migliorato il suono del mio impianto, il rapporto qualità/prezzo è molto elevato. In conclusione arrivo a dire che non si tratta di una semplice ottimizzazione, ma di un upgrade sostanziale.
     

     
  15. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    Ivan Moravec: Portrait.
    Supraphon, 2020.
    ***
    Supraphon rende omaggio allo straordinario pianista ceco Ivan Moravec (1930-2015) nel novantesimo anniversario della sua nascita. Lo fa nel migliore dei mondi, ovvero con un bel cofanetto di 11 cd e 1 DVD che raccolgono alcune delle sue migliori registrazioni, talune inedite, prendendole dal proprio catalogo, ma attingendo anche da materiale di altre etichette, come Vox, Nonesuch, e Connoisseur Society.
    Conosciuto più dagli intenditori che dal grande pubblico, Moravec fu un pianista incredibile, dotato di una tecnica del suono molto raffinata e di capacità interpretative che hanno dato il meglio nel repertorio di Chopin e Debussy.
    La raccolta si apre con tre concerti di Mozart (14, 23, 25), non quelli con Neville Marriner, ma quelli precedenti (1973-74) con la Czech Chamber Orchestra e la Czech Philarmonic Orchestra. 
    Seguono due dischi dedicati a Beethoven, con un paio di concerti e diverse sonate. Svetta un quarto concerto da antologia con l’orchestra del Musikverein diretta da Turnovsky. Bellissime l’Op.90 e Les Adieux, ma il livello è sempre molto alto.
    Si apre poi una sezione dedicata a Chopin: 3 dischi con le ballate, gli scherzi, i 24 preludi, la seconda sonata, la barcarole e un buon numero di mazurche. Moravec riesce a far cantare Chopin come pochi altri, con una sottilissima varietà di timbri e un uso del rubato tanto raffinati quanto assolutamente naturali all’orecchio di chi ascolta. Seppure Moravec pare che fosse un perfezionista maniacale nella messa a punto dello strumento, nell’ascolto non si percepisce nessuna volontà di controllo assoluta, come purtroppo spesso succede, ma si assiste semplicemente a un poeta del pianoforte, che fa uso della tastiera e della propria tecnica come di un mezzo per parlarci con la voce del compositore. In questo senso i Préludes sono emblematici e valgono da soli l’acquisto di questo cofanetto. 
    Dopo un paio di dischi dedicati a Schumann e Brahms (ahimè non tutti i brani sono disponibili nella versione online disponibile su Qobuz), si giunge a un paio di dischi dedicati a Debussy, Ravel e Franck. Viene dato molto spazio a Debussy (i due libri di Images, poi Estampes, Pour le Piano, Childern’s Corner e una selezioni di Preludi di entrambi i libri) e si capisce il perché: è una gioia da ascoltare! Moravec riesce a far parlare questa musica come pochi altri, una vera delizia. Anche il Prélude, Choral et Fugue di César Franck, pezzo stupendo, è da antologia.
    L’ultimo disco della raccolta è dedicato a musiche di Janacek, Martinu e Smetana, ma anche qui, probabilmente per un problema di accordi con gli editori, non tutto il materiale è disponibile nella versione online che ho ascoltato su Qobuz.
    Un DVD, che non ho visto, raccoglie un documentario su Moravec e ancora tanta musica (Beethoven, Prokofiev, Mozart e Ravel).
    Fa da complemento a questa bella raccolta un libretto esemplare, contenente tutte le informazioni sulle diverse registrazioni, un breve saggio dell’amico Murray Perahia e una lunga intervista a Moravec.
    Complimenti a Supraphon che ha realizzato questo “portrait” in modo davvero ineccepibile, un vero e proprio gesto d’amore che va oltre il semplice progetto editoriale e che ci fa trasparire l’ammirazione e il rispetto che ancora devono portare per questo pianista. 
    Chiaramente qui non c’è tutto il lascito discografico di Moravec: Supraphon ha lasciato fuori qualche pezzo forte come i Notturni di Chopin e gran parte del materiale che qui non è presente è stato pubblicato da etichette diverse. Speriamo in un futuro secondo volume, ma intanto ci godiamo questo con gratitudine!
  16. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    Beethoven, sonate per pianoforte Op.54 e Op.78.
    Rachmaninov, sonata per pianoforte N.2 Op.36.
    Ivo Pogorelich, pianoforte.
    Sony Classical, 2019
    ***
     
    Un disco di Pogorelich dopo più di 20 dall’ultimo? Pubblicato da Sony Classical?? Caspita,  deve essere una roba seria, mi sono detto. Il ritorno in grande stile di Pogorelich, controverso pianista croato, molto famoso  tra gli anni ’80 e ’90, conosciuto per i suoi atteggiamenti anticonformisti e per le sue interpretazioni a cavallo tra il geniale, l’eccentrico e il provocatorio, poi progressivamente scomparso dalla scena discografica e dai circuiti concertistici più importanti.

    Ebbene cos’avrà di nuovo da dirci oggi Ivo Pogorelich, arrivato ai 60 anni?
    Il programma del disco è piuttosto inconsueto e accosta due deliziose sonate di Beethoven, Op.54 e Op.78, alla poderosa seconda sonata di Rachmaninov nella prima versione del 1913.
    L’ascolto, ahimè, è stato sconcertante, per non dire decisamente irritante. 
    Dinamica, tempi, ritmo, tutti strapazzati, dall'inizio alla fine, senza pietà. A volte si fa addirittura fatica a riconoscere la musica o a seguire la linea melodica. E attenzione che qui non stiamo disquisendo di dove sia il punto di equilibrio tra il rispetto della pagina scritta e la libertà dell’interprete, qui siamo ben oltre: qui siamo alla totale mancanza di rispetto per l’ascoltatore (per non parlare del compositore) da parte di un artista evidentemente sopraffatto da un ego ingombrante e non più affiancato dal genio di un tempo, quasi volesse dirci “eccomi sono ancora il grande Pogorelich, anticonformista per contratto, posso permettermi quello che voglio!”.
    Non è certo il croato l’unico artista per così dire eccentrico in circolazione. Prendiamo ad esempio la violinista Patricia Kopatchinskaja, conosciuta per le sue interpretazioni fuori dai canoni. Quando la ascoltiamo suonare, al di là della sua prorompente individualità, percepiamo passione, vitalità, un amore sconfinato per la musica che sta suonando, sentiamo che Patricia ci sta comunicando qualcosa. Tutte cose, invece, tristemente assenti da questo ultimo disco del pianista croato.
    Ma sono certo che come un tempo Pogorelich divideva i pareri di chi l’ascoltava, così anche oggi ci sarà chi griderà con entusiasmo al ritorno del genio croato.
    Per me invece è semplicemente un peccato vedere tanto talento gettato alle ortiche, ma me ne faccio una ragione, metto il disco da parte e guardo altrove. Per fortuna nella discografia non mancano interpretazioni straordinarie di queste composizioni e nel panorama pianistico attuale non mancano artisti seri, di grande talento e che abbiano qualcosa da dirci.
    Una nota sulla qualità dell’incisione, assolutamente lontana dagli standard molto elevati ai quali l’etichetta giapponese ci ha abituato.
    Insomma, un disco da dimenticare velocemente
  17. happygiraffe

    Recensioni : clavicembalo
    J.S.Bach: Suites francesi BWV 812-817, 818a, 819.
    Pierre Gallon, clavicembalo.
    Encelade, 2022.
    ***
    Le Suite francesi sono delle composizioni per clavicembalo di J.S.Bach derivate dalle forme di danza che ne compongono i diversi movimenti. Furono chiamate francesi solo successivamente, perché idealmente si rifanno allo stile francese, anche se in realtà ritroviamo anche elementi dello stile italiano.
    Nelle belle note del libretto è lo stesso Gallon che ci dice che “testimoniano della volontà di Bach di inculcare ai suoi allievi una certa idea dello stile francese: finezza del discorso, elegante semplicità della linea melodica, nobiltà e varietà portate dai diversi caratteri delle danze”.
    Per chi studia il pianoforte e il clavicembalo, le Suite francesi sono state spesso considerate un facile punto di ingresso nel complesso universo musicale bachiano. Già dai tempi di Bach i suoi allievi le consideravano tali, come testimoniano le diverse copie manoscritte che ne fecero, complicando così la vita agli interpreti e studiosi moderni che si devono districare tra le diverse varianti stratificate.

    Il clavicembalista francese Pierre Gallon, collaboratore stabile dell’Ensemble Pygmalion e del suo direttore Raphael Pichon, in questo disco affianca alle sei suite francesi della raccolta canonica anche le due suite BWV 818a e 819 (completandola con una Giga di W.F.Bach), che compaiono nel primo manoscritto, ma che spariscono dalle copie successive. Inoltre, fa precedere ogni Suite da un preludio, preso in prestito dallo stesso JS Bach, ma anche da Couperin e Dieupart, come era solito avvenire nella prassi esecutiva del tempo. E' lo stesso Gallon che ci spiega che in alcune fonti si trovano in effetti dei preludi prima delle Suite di danze. Il risultato è indubbiamente molto convincente.
    L’interpretazione di Gallon è molto fluida e “danzante”, con tempi piuttosto comodi, ma che trovo corretti, e soprattutto una grande attenzione alla relazione tra i vari movimenti.
    Lo strumento che suona è una riproduzione moderna di un magnifico clavicembalo fiammingo del 1679,  opera dell’Atelier Ducornet.
    La registrazione è sublime e ci restituisce tutta la varietà timbrica di questo strumento in un’acustica sontuosa.
    Gran bel disco, molto curato in ogni suo aspetto.
     
  18. happygiraffe

    Recensioni : Musica da Camera
    Leoš Janáček: quartetto per archi No. 1 "Kreutzer Sonata", quartetto per archi No. 2 "Intimate letters"
    György Ligeti: quartetto per archi No. 1 "Métamorphoses Nocturnes"
    Quartetto Belcea
    Alpha Classics 2019
    ***
    Per una volta anticipo le conclusioni e vi dico subito che questo è un gran bel disco, sia per il programma tutto novecentesco, che mette insieme i meravigliosi quartetti di Janáček e il primo quartetto di Ligeti, che naturalmente per come è suonato dal Belcea Quartet.
    Curiosa la parabola artistica di Leoš Janáček, compositore moravo nato nel 1854 e morto nel 1928. Considerato uno dei massimi compositori dei primi decenni del ‘900, specialmente nel repertorio operistico, scrisse la gran parte dei lavori per cui è ricordato oggi solo negli ultimi 10-15 anni della sua vita e raggiunse un certo successo solo in tarda età.
    Sarebbe curioso anche accostare il percorso del moravo Janáček a quello del suo coevo Gustav Mahler, nato solo a un paio di centinaia di chilometri di distanza: mentre il primo rinnovò il linguaggio tardo-romantico di Smetana e Dvorak tramite una concezione molto libera dell’armonia e con un interesse da un lato per le avanguardie europee e l’espressionismo e dall’altro per il folklore moravo, il secondo fu forse l’ultimo straordinario erede del sinfonismo tedesco e non riuscì mai a rompere con le convenzioni del linguaggio tonale. Ma questo va ben oltre la recensione di questo disco, per cui se ne parlerà un’altra volta.
    Curioso invece che il Belcea quartet abbia deciso di ritornare in studio per registrare i due quartetti di Janáček dopo il successo che aveva riscosso proprio con il loro disco del 2003, ma questi due quartetti di Janáček sono talmente belli, che ogni nuova registrazione è benvenuta!

    Il disco del 2003.
    Il primo quartetto del 1923 trae spunto dal famoso racconto di Tolstoj “La sonata a Kreutzer”, in cui il protagonista arriva a uccidere la moglie per il sospetto che questa l’abbia tradito con un violinista, che lui stesso aveva presentato alla consorte, violinista che si faceva accompagnare dalla donna nella celebre sonata di Beethoven. La musica di Janáček si rifà all’atmosfera drammatica del racconto, che viene descritta con uno stile originale, procedendo tramite la contrapposizione di blocchi tematici diversi, con frequenti e bruschi cambiamenti di tempo, di tonalità, di espressione. Un tema ricorrente in tutti i movimenti, una sorta di leitmotiv, crea l’effetto di coesione di quest’opera.
    Il secondo quartetto del 1928, intitolato “Lettere intime” nasce invece dalla passione che infiammò il sessantenne Janáček per la giovane Kamila Stõsslovà. Leoš scrisse a Kamila più di 600 lettere in un periodo di 10 anni, fino a quando la moglie Zdenka non scoprì questa corrispondenza e lo convinse a bruciare tutte le lettere. Janáček le bruciò, ma decise comunque di raggiungere la sua amata e di mettere in musica la sua corrispondenza amorosa e i sentimenti e le emozioni di questa storia d’amore. Janáček morì sei mesi dopo aver terminato di comporre questo quartetto, a 74 anni.

    Janáček riprese in questo secondo quartetto alcuni elementi compositivi del primo, come le forti contrapposizioni ritrmiche e dinamici e il succedersi di episodi brevi e diversi, ma in un contesto più vario e comunicativo e decisamente meno drammatico.
    Nonostante il linguaggio originale e innovativo, sono entrambi lavori molto ascoltabili anche per chi frequenta poco la musica del ‘900 e che riescono a trasmettere grandi passioni e emozioni.
    Certamente il merito qui va allo straordinario quartetto Belcea, che affronta queste opere facendo rivivere tutte le emozioni che percorrevano l’anziano Janáček. Rispetto all’incisione del 2013 i tempi sono lievemente più lenti e l’impressione è che il Belcea controlli di più l’energia che scorre abbondante tra queste pagine, a vantaggio della trasparenza e dell’equilibrio tra le varie voci, senza perdere però in immediatezza e dinamismo. Gli ingegneri del suono di Alpha ci restituiscono un’immagine sonora del quartetto con i quattro strumenti molto vicini a noi e ben definiti nello spazio, cosa che va a vantaggio della chiarezza e della percezione dei dettagli. Il rovescio della medaglia è che si perde a mio avviso in coesione e naturalezza, che invece non mancavano nella registrazione del 2013.
    Ma il disco non finisce qui, perché l’ascolto prosegue con il primo quartetto del compositore ungherese György Ligeti (1923-2006), intitolato “Metamorfosi notturne”, che fu terminato nel 1954, due anni prima che il compositore lasciasse la patria per fuggire a Vienna, in seguito alla repressione sovietica della rivolta.

    Questo primo quartetto risente molto dell’influenza inevitabile di Béla Bartók ed è molto diversa dallo stile di Ligeti che conosciamo di più, che è quello degli anni ’60 e ’70. Non mancano però gli elementi di originalità. Definito da Ligeti come una “serie di variazioni senza un vero e proprio tema”, esplora in vario modo le possibilità degli strumenti, creando un universo sonoro che riesce a spiazzare continuamente l’ascoltatore, ma anche a rassicurarlo e a catturarlo, con un certo malizioso umorismo, nel suo percorso.
    Il Belcea dimostra una straordinaria affinità con questa musica, che richiede grandi capacità tecniche: l’esecuzione è assolutamente impeccabile e emozionante al tempo stesso. A mio avviso qui siamo ai livelli, se non meglio, del mio personale riferimento che è il quartetto Arditti.
    In conclusione, un gran bel disco di musica da camera del ‘900, ben pensato, ottimamente eseguito e assolutamente godibilissimo!  
  19. happygiraffe
    The Beethoven connection, Vol.1
    Jean-Efflam Bavouzet, pianoforte.
    Joseph Wölfl (1773-1812), sonata Op.33 N.3 (1805).
    Muzio Clementi (1752-1832), sonata Op.50 n.1 (1804-21).
    Johann Nepomuk Hummel (1778-1837), sonata n.3, Op.20 (1807).
    Jan Ladislav Dussek (1760-1812), sonata Op.61, C 211 (1806-1807)
    Chandos, 2020.
    ***
    Si sa che il 2020 è stato un anno di celebrazioni beethoveniane e sono fioccate nuove incisioni delle pagine più o meno celebri del genio di Bonn. Pur avendo già registrato pochi anni fa una bella integrale delle sonate, non si è lasciato trovare impreparato o a corto di idee il bravo pianista francese Jean-Efflam Bavouzet.
    È così che, anziché proporci musiche di Beethoven, ha scelto di offrirci pagine di musicisti contemporanei a Beethoven all’epoca piuttosto noti, ma che oggi sono conosciuti per lo più dagli addetti ai lavori.
    A quei tempi Beethoven non era certo l’unico compositore a scrivere musica per pianoforte (o fortepiano) e se i suoi illustri predecessori (Mozart e Haydn) sono celebri, sappiamo probabilmente meno di che tipo di musica scrivevano i suoi contemporanei. L’intento del disco, ben spiegato nelle ottime note di copertina, è proprio quello di farci capire “il linguaggio comune dell’epoca” e mostrare che i capolavori di Beethoven non originano dal nulla, ma da un contesto musicale florido con cui tanto aveva in comune.
    Bavouzet ci invita quindi a cogliere le influenze di Beethoven sui contemporanei così come le quelle di questi ultimi su Beethoven stesso.
    Sono tutti lavori composti tra il 1804 e il 1809, periodo in cui Beethoven sfornava capolavori come la Waldstein (1803), l’Appassionata (1805) e Les adieux (1810) e, sebbene sia evidente che le sonate di questo disco non vi si avvicinino neanche lontanamente, possiamo cogliere molte affinità, soprattutto con le precedenti sonate beethoveniane.
    La sonata in Mi maggiore di Joseph Wölfl ci stupisce per grazia e fantasia. La sonata Op.50 n.1 di Muzio Clementi è forse la meno interessante del disco, ma è noto quanto il compositore romano contribuì all’evoluzione della tecnica e del linguaggio pianistico di quell’epoca e quanto fosse tenuto in considerazione dallo stesso Beethoven.
    Brillante, virtuosa e audace la terza sonata di Johann Nepomuk Hummel, che all'epoca venica considerato l’erede di Mozart e che fu il successore di Haydn come direttore d’orchestra presso il principe Esterházy.
    Molto bella la sonata in due movimenti Op.61 “elegia armonica” di Jan Ladislav Dussek, quella che più di tutte riesce a guardare avanti nel tempo e che possiamo tranquillamente definire pre-romantica. Con il suo carattere più simile ad una fantasia e suoi ritmi concitati e sincopati del secondo movimento fanno quasi pensare a un Robert Schumann, che all’epoca non era ancora nato!
    Esemplare le interpretazioni di Bavouzet, che riesce a imprimere a ogni sonata il giusto carattere, suonando con la consueta finezza ed eleganza. Come "bonus track" il pianista francese ci propone cinque esempi di affinità tra frammenti di sonate di Beethoven, Clementi Hummel e Dussek.
    Molto buona anche la qualità della registrazioni, che rende giustizia al suono nitido e preciso di Bavouzet e ci presenta un pianoforte piuttosto vicino e con una buona dinamica.
    Onestamente, confesso che quando ho visto che era uscito questo disco, sulle prime ho pensato che fosse di una noia mortale. Sono contento di essere stato smentito e di aver conosciuto compositori e opere di cui ignoravo l’esistenza. A questo punto non mi resta che aspettare le prossime due uscite (si tratta di un progetto suddiviso in 3 dischi), augurandomi che siano altrettanto belli.
  20. happygiraffe

    Recensioni : Musica da Camera
    Julia Fischer, Daniel Mueller-Schott: Duo Sessions
    Orfeo, 2016.
    ***
    Riprendo volentieri questo disco uscito qualche tempo fa. 
    Adoro la musica per violino e violoncello e ascoltando un disco come questo viene da chiedersi come mai il repertorio sia così limitato.
    Possiamo dire che questo programma, peraltro quasi identico a quello di un disco di Nigel Kennedy e Lynn Harrel del 2000, comprenda le migliori opere del repertorio per questi due strumenti.
    Composte nell'arco di un decennio le opere di Kodaly, Schulhoff e Ravel si sposano perfettamente tra loro.
    Il Duetto Op.7 di Kodaly, composto nel 1914, ma mai eseguito in pubblico fino al 1924, incorpora diversi temi di origini popolare in una struttura classica in tre movimenti. Questo Duetto è probabilmente secondo in popolarità solo alla Sonata di Ravel.
    Fischer e Mueller-Schott ne offrono una lettura appassionata e esuberante, mantenendo al tempo un equilibrio esemplare tra i due strumenti.
    Segue il Duetto di Schulhoff. Composto nel 1925 e dedicato al maestro Janacek, si articola in quattro movimenti traendo ispirazione dalla musica popolare ceca. Il linguaggio di Schulhoff è stilisticamente più complesso e impiega un ampio bagaglio di scelte tecniche che si traducono in un ricco ventaglio di timbri e dinamiche.
    L'interpretazione di Julia Fischer e Daniel Mueller-Schott è ancora una volta trascinante, rendendo magistralmente la ricchezza stilistica, timbrica e la frenesia dei ritmi di questo lavoro.
    Il pezzo forte del programma è naturalmente l'imprescindibile Sonata di Ravel. Pubblicata nel 1922, costò al compositore francese un anno e e mezzo di lavoro e fu dedicata alla memoria di Claude Debussy, morto nel 1918. Questa sonata rappresenta una delle opere più sperimentali di Ravel, che parlò di "scarnificazione spinta all'estremo" e di "rinuncia alla fascinazione armonica". L'accoglienza del pubblico fu a dir poco fredda ("un massacro"), sconcertato dal linguaggio scabro e il ripetersi ossessivo delle linee melodiche. Nonostante sia certamente uno dei lavori più arditi del compositore francese, oggi questo pezzo è considerato un classico del repertorio per violino e violoncello e ci affascina proprio per le stesse ragioni che all'epoca disorientarono i primi ascoltatori.
    Fischer e Mueller-Schott ne danno un'ottima lettura, molto intensa, anche se forse non all'altezza di altre interpretazioni. Si ascolti ad esempio la versione dei Capuçon (Erato, 2001), non meno intensa, ma più vibratile e viva.
    Si termina con la Passacaglia di  Johan Halvorsen, compositore, violinista e direttore d'orchestra norvegese. Composta nel 1894, la Passacaglia è la virtuosistica trascrizione per violino e violoncello (o viola) dell'ultimo movimento della Suite in Sol minore HWV 432 di Handel. E' un brillante e pirotecnico brano da concerto che chiude felicemente questo bel disco.
  21. happygiraffe
    Franz Schubert, sonate per pianoforte D959 e D960
    Krystian Zimerman
    Deutsche Grammophon 2017
    ***
    Ammetto che sono un po' in imbarazzo nel dover parlare di questo disco. Krystian Zimerman è considerato una leggenda vivente del pianoforte e in più i suoi dischi da solista sono molto rari: se si esclude la seconda sonata per pianoforte della Bacewicz del 2011, il disco precedente risale addirittura al 1993 (Préludes di Debussy).
    Nutrivo quindi grandi aspettative, anche se devo ammettere che ho sempre guardato con una certa diffidenza al pianista polacco: pur riconoscendogli una tecnica straordinaria e alcuni dischi leggendari, spesso mi lascia perplesso per una ricerca maniacale del suono e per una cura del microdettaglio che va a scapito della spontaneità.
    In questa incisione dedicata a Schubert leggiamo che ha addirittura modificato la meccanica del pianoforte con il duplice scopo di sostenere meglio il suono della linea melodica e non appesantire le note ripetute dell'accompagnamento.
    Il timbro che ne risulta è in effetti molto particolare e conferisce un carattere ben definito a questa registrazione.
    Zimerman ancora una volta colpisce per la raffinatezza del suo pianismo, per la tecnica sopraffina, per la cura del dettaglio. Le sue interpretazioni di queste due celebri sonate sono sicuramente di un livello altissimo, tuttavia...tuttavia dopo diversi ascolti ho l'impressione che manchi quella fluidità del discorso musicale, quella capacità di rendere il senso della struttura, vado oltre sperando di non essere accusato di blasfemia, quella capacità di andare coraggiosamente in profondità per cogliere il senso pieno del discorso musicale,  tutte cose che permettono di catturare l'attenzione dell'ascoltatore per quella quarantina di minuti che dura ciascuna di queste due sonate. 
    In conclusione, certamente un disco importante, con alcuni momenti memorabili, ma che aggiunge poco di nuovo all'ampia discografia già presente.
  22. happygiraffe
    Luigi Nono, Djamila Boupacha per soprano solo.
    Joseph Haydn, Sinfonia n.49 Hob.I:49.
    Géerard Grisey, Quattre chants pour franchir le seuil.
    Barbara Hannigan, soprano: Ludwig Orchestra.
    Alpha, 2020.
    ***
    La Passione è un disco in tre parti che ruota intorno al tema della morte, in varie forme e varie epoche. Ma passione è anche quel sentimento che Barbara Hannigan infonde in misure straordinaria in queste interpretazioni, nella doppia veste di cantante e direttrice d’orchestra.
    Il programma è sicuramente molto particolare e si apre con una composizione per soprano solo di Luigi Nono, Djamila Boupacha, dedicato alla giovane donna algerina che divenne un caso politico nel 1960, quando, dopo settimane di torture e violenze da parte dei soldati francesi, ebbe il coraggio di dire al giudice che la processava che la sua confessione era stata estorta sotto tortura e di chiedere l’indipendenza dell’Algeria. Il suo caso ispirò un quadro di Picasso, un libro di Simone de Beauvoir e una poesia di Jesus Lopez Pacheco, che fu musicata da Nono nel 1962.
    La voce duttile della Hannigan è assoluta protagonista di questo breve lavoro che dura appena cinque minuti, ma che ci commuove con il suo grido di dolore, ora intimo e sommesso, ora lacerato e urlato.
    Il contrasto con la composizione che segue, la sinfonia n.49 “La Passione” di Franz Joseph Haydn è solo apparente. Le note dolenti che aprono il primo movimento ben si sposano con lo sgomento nel quale ci aveva lasciato il lavoro di Luigi Nono. Ora Barbara Hannigan riposa la voce e impugna la bacchetta di direttrice per guidare la Ludwig Orchestra, compagine olandese con la quale collabora da diverso tempo, in una lettura intensa e ricca di pathos.
    Il piatto forte del disco ancora deve, ancora venire ed è rappresentato dai “Quattre chants pour franchir le seuil” (quattro canti per varcare la soglia), del compositore francese Gérard Grisey, per soprano e 15 strumenti. Sono delle meditazioni in musica sulla morte in quattro parti (la morte dell’angelo, la morte della civiltà, la morte della voce, la morte dell’umanità) cui segue una berceuse in conclusione. I testi dei vari movimenti provengono da epoche e civiltà diverse. Non è una composizione che portò bene al povero Grisey, che scomparve prematuramente poco tempo dopo averla terminata.  È un ‘opera che richiede enormi capacità tecniche ai suoi interpreti, le cui voci si intrecciano e sovrappongono continuamente e addirittura si disgregano letteralmente nel terzo movimento “la morte della voce”.  Ed è un’opera che richiede anche una discreta predisposizione da parte di chi ascolta a recepire questo linguaggio musicale e a lasciarsene coinvolgere.
    Ottimo il libretto che accompagna il disco, con un saggio della stessa Hannigan, tutti i testi delle opere di Nono e Grisey e tante belle foto (segnalo che la bella foto di copertina di Elmer de Haas ritrae la stessa Hannigan sott’acqua come una sirena!).
    Due parole sulla qualità della registrazione, davvero ottima in tutte e tre le parti che compongono questo disco: voce sola, orchestra classica e voce con ensemble. La stessa Hannigan in un’intervista ci spiega del rapporto di straordinaria fiducia che la lega all’ingegnere del suono, Guido Tichelman, che conosce da 25 anni e che, conoscendo ogni piega della sua voce, è in grado di consigliarla e di spingerla sempre al massimo:”è come se mi desse un paio di ali supplementari, proprio nel momento in cui ce n’è bisogno”.
    Un grande disco, non per tutti, ma comunque un grande disco!
  23. happygiraffe
    Oggi per lavoro mi è capitato di essere a Genova non molto lontano dal ponte Morandi. Già dall'autostrada la visione del cavalcavia spaccato a metà mi aveva riempito il cuore di angoscia e di rabbia. Poi casualmente ho intravisto questi bambini che giocavano a pallone con lo sfondo del ponte spezzato e mi sono fermato per fare uno scatto. 

    "La vita continua?" mi ha chiesto Mauro. Sì, la vita continua come sempre, ma la rabbia e l'angoscia rimangono, così come il senso di precarietà.
    Il contrasto in questa immagine è molto forte, spero di non urtare la sensibilità di nessuno. In caso contrario non avrò problemi a rimuoverla.
  24. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    Lang Lang: Piano Book
    Deutsche Grammophon 2019
    ***
    Lang Lang Piano Book, che sarà mai? Un ispirato Lang Lang troneggia in copertina, in cappottino bianco e scarpe da tennis, mentre il suo Steinway a coda si apre come le pagine di un libro.
    Il programma non è quello di un classico recital di pianoforte, ma ricorda più una playlist, come va sempre più di moda oggi. 
    Lang Lang ci dice di aver raccolto in questo disco una collezione di brani che lo hanno inspirato quando ha cominciato a suonare il pianoforte. C’è un po’ di tutto: da “Per Elisa” a “Clair de lune”, dal primo preludio del Clavicembalo ben temperato alle 12 variazioni di Mozart "Ah, vous dirai-je Maman”, ma anche musiche di film (“La valse d’Amélie”, “Merry Christmas, Mr Lawrence” di Sakamoto) e molto altro.
    All’ascolto, la musica scorre via senza troppi pensieri, l’istrionico Lang Lang abbonda in sentimento, suono vellutato e saccarosio. Il protagonista è lui: è la sua playlist e ogni brano viene affrontato con il medesimo approccio.
    Ma se non ci fermiamo qui e ci chiediamo a chi è destinato un prodotto editoriale (mi viene un po’ difficile chiamarlo diversamente) come questo, è evidente che l’ascoltatore difficilmente sarà l’accanito musicofilo alla ricerca dell’ennesima interpretazione dell’Hammerklavier di Beethoven o dell’Op.118 di Brahms.  
    Questo disco è pensato per un mercato più ampio, di chi magari si avvicina alla musica classica per la prima volta e non ne deve essere respinto con musica troppo complessa, quanto piuttosto attratto con brani brevi, celebri e orecchiabili.
    Non bisogna dimenticare che Lang Lang è una stella planetaria, che ha suonato alla cerimonia di apertura ai giochi olimpici di Pechino nel 2008, così come alla finale dei mondiali di calcio di Rio nel 2014, ha suonato per Papa Francesco e per la regina Elisabetta II ed è stato nominato Messaggero di pace dall’ONU e ambasciatore UNICEF.
    Il suo personaggio, così conosciuto e che, se vogliamo, sprigiona un entusiasmo infantile, si dice che abbia inspirato 40 milioni di bambini cinesi a iniziare a studiare il pianoforte. La sua fondazione da 10 anni aiuta i bambini ad avvicinarsi al mondo della musica classica.
    E se un personaggio come Lang Lang, per quanto discutibile e criticabile dagli addetti ai lavori,  aiuta a far sembrare il mondo della musica classica meno polveroso e austero e con un disco come questo contribuisce ad incuriosire e ad avvicinare nuovi appassionati alla musica classica, beh, che c’è di male in fondo?
     
  25. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    Chopin, Ballate e Notturni Op.15 N.1, Op.48 N.1, Op.62 N.1
    Leif Ove Andsnes, pianoforte.
    Sony Classical 2018
    ***
    A 48 anni il pianista norvegese Leif Ove Andsnes è all'apice di un percorso musicale costruito con serietà e senza il divismo di tanti suoi colleghi più giovani.

    Ritorna a Chopin dopo più di 25 anni dall'ultimo disco dedicato al compositore polacco con un programma dedicato alle magnifiche Ballades.
    Ho molto apprezzato la scelta di inframezzare le Ballate con tre Notturni: la Ballate infatti furono composte nell'arco di diversi anni e comunque non per essere suonate come un ciclo completo. I tre Notturni spezzano un'intensità emotiva che in un ascolto continuo potrebbe essere eccessiva.
    Andsnes affronta le Ballate con decisione ed è in grado di rendere l'architettura dei brani con straordinaria chiarezza. Il confronto con la recente incisione delle Ballate dell'ultimo vincitore del concorso Chopin Seong-Jin Cho mette bene in risalto quest'ultimo aspetto.
    Il suono che produce Andsnes è meravigliosamente terso e cristallino, passando dalle più delicate sfumature ai fortissimo pieni e corposi.
    Ma se vogliamo trovare un difetto al pianismo per molti versi magistrale del norvegese è quello di essere eccessivamente controllato: da questa musica e da un interprete di questo calibro mi aspetto un ardore e un trasporto che sappiano contagiare chi ascolta. Qui spesso i finali delle Ballate, dove Chopin porta il discorso musicale a un climax irresistibile per poi concludere con delle code assolutamente fiammeggianti, li ho trovati un po' sgonfi.
    E' possibile, anzi è probabile, che Andsnes dal vivo sappia regalare emozioni che finora in alcuni suoi dischi non ho trovato, ma purtroppo non ho mai avuto modo di ascoltarlo in concerto.

    Rimane comunque un disco di assoluto rilievo, meravigliosamente registrato, ma a mio avviso un pelo sotto altre incisioni come, solo per fare un paio di esempi, quelle di Perahia o di Pollini.
     

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