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happygiraffe

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Blog Entries pubblicato da happygiraffe

  1. happygiraffe

    Recensioni : Musica da Camera
    Sándor Veress, Trio per archi.
    Bela Bartók, Quintetto per pianoforte.
    Vilde Frang (violino), Barnabás Kelemen (violino), Lawrence Power (viola), Nicolas Altstaedt (violoncello), Alexander Lonquich (pianoforte).
    Alpha, 2019
    ***
    E' sempre bello quando il caso ci fa fare scoperte interessanti! Ho ascoltato questo disco più che altro spinto dalla curiosità per il quintetto di Bartók e sono invece rimasto folgorato dal Trio per archi di Sándor Veress, compositore ungherese poco conosciuto, che probabilmente meriterebbe maggiore attenzione.
    Veress fu allievo di Bartók e Kodaly all'Accademia di Budapest e sostituì quest'ultimo alla cattedra di composizione fino al 1949 anno in cui preferì trasferirsi a Berna, per sottrarsi alle imposizioni del regime comunista, dove insegnò composizione e visse fino alla morte, avvenuta nel 1992. Tra i suoi allievi vi furono György Ligeti e György Kurtág, ma anche il celebre oboista e poi direttore d'orchestra Heinz Holliger, che si è fatto promotore delle composizioni di Veress.
    Davvero bello e intenso il Trio per archi, in cui Vilde Frang, Lawrence Power e Nicolas Altstaedt si tuffano con straordinaria partecipazione e bravura. E' una composizione del 1954 in due movimenti, ricca di contrasti e momenti sorprendenti.
    Mi ha appassionato di meno il quintetto per pianoforte di Bartók. Si tratta di una composizione giovanile (1903-1904, Bartok aveva 22-23 anni) che viene eseguita di rado,  ma non per questo non interessante. E' un lavoro denso, appassionato, di chiara ispirazione romantica e con forti echi brahmsiani. Si ascolta molto volentieri. La mia perplessità è legata solo al fatto che non ha proprio niente a che vedere con il Bartok che conosciamo. Se fosse stato il lavoro di un altro compositore, probabilmente lo avrei apprezzato di più, sapendo invece che l'autore è Bela Bartók, mi viene invece da considerarlo per quello che è: un lavoro giovanile, bello, per carità!, ma anacronistico e avulso dal corpus delle composizioni per le quali l'ungherese è entrato nella storia della Musica.
    Ad ogni modo questo disco, realizzato in collaborazione con il Festival internazionale di musica da camera di Lockenhaus, ha il grosso merito di proporci due autentiche rarità, eseguite alla perfezione da un gruppo di ottimi artisti. E mi ha lasciato con la voglia, che appagherò al più presto, di andare ad ascoltare altre composizioni di Veress!
     
  2. happygiraffe

    Recensioni : Musica da Camera
    Alina Ibragimova (violino), Cédric Tiberghien (piano)
    Mozart Violin Sonatas
    Hyperion 2017
    ***
     
    Manca ancora il quinto volume per completare questa bella integrale delle sonate per violino e pianoforte di Mozart, ma già è un fioccare di premi e menzioni per Alina Ibragimova e Cédric Tiberghien.
    A dire il vero sorprende la scelta dei due artisti di dedicarsi alla registrazione di tutte le sonate per violino e pianoforte, che sono trentasei, non tanto per il numero, quanto per il livello compositivo molto poco omogeneo.
    Le prime 16 sonate furono composte da Mozart a un'età compresa tra i sette anni e i 10 anni, mentre le successive furono composte dopo una pausa di dodici anni tra il 1778 e il 1788. Nelle sonate di gioventù è il pianoforte che ricopre il ruolo principale, mentre il violino svolge un ruolo di accompagnamento, secondo una tendenza allora in voga. Erano pensate per essere eseguite in casa e molto probabilmente per mettere in risalto le capacità del giovane pianista.
    Il livello delle sonate successive varia molto a seconda delle circostanze in cui ciascuna sonata fu composta, principalmente dal committente e dalla bravura del violinista destinato a suonarla. Per fare un esempio la bellissima K454 fu eseguita davanti all'Imperatore Giuseppe II e suonata dalla violinista italiana Regina Strinasacchi, celebre a quei tempi, mentre la successiva e deludente K547, ultima delle sonate, fu probabilmente pensata, sebbene mai pubblicata in vita, per essere venduta come sonata facile a musicisti principianti.
    Tuttavia, anche le partiture più semplici possono portare a risultati sorprendenti quando affidate a musicisti di questo calibro.
    Alina Ibragimova è una violinista russa, cresciuta a Londra, Cédric Tiberghien è un pianista francese. Suonano insieme ormai da più di dieci anni e si sente!  
    E' notevole la fluidità che riescono a imprimere al discorso musicale. Anche nelle sonate più semplici, la raffinatezza, la vitalità, la sensualità delle loro interpretazioni sono totali. Cédric Tiberghien ha un ruolo di primissimo piano e non delude: con un suono molto articolato e limpido, e un uso molto parsimonioso del pedale, rende perfettamente lo stile mozartiano. Ibragimova è sublime nell'intrecciarsi con le linee del pianoforte, in modo spontaneo e naturale, sempre originale, anche nelle numerosi parti ripetute.
    Anche se, in tutta onestà, ad un ascolto prolungato le sonate giovanili possono diventare rapidamente stucchevoli e forse avrebbe potuto avere un senso non inciderle proprio, questa integrale rappresenta un punto di riferimento certo per chi fosse interessato a questo repertorio.

  3. happygiraffe

    Recensioni : Musica da Camera
    Franz Schubert, quartetti per archi n.14 "La morte e la fanciulla" e n.9
    Chiaroscuro quartet
    BIS 2018
    ***
    Il quartetto n.14 di Franz Schubert, composto nel 1824,  rappresenta probabilmente uno dei vertici più alti del repertorio romantico per quartetto d'archi. Viene chiamato "La morte e la fanciulla" perché il tema del secondo movimento venne ripreso dal lied omonimo composto dallo stesso Schubert nel 1817 su testo di Matthias Claudius.
    Il quartetto Chiaroscuro, guidato dalla brava violinista russa Alina Ibragimova, ha la particolarità di suonare su strumenti d'epoca (con corde di budello e archetti classici), ma questo elemento mi è parso secondario rispetto alle emozioni che mi ha regalato questo disco.
    Quello che più di tutto mi più mi ha colpito di questa registrazione e che mi ha fatto letteralmente riscoprire e apprezzare nuovamente questo lavoro è l'esattezza della scelta dei tempi. Prendiamo ad esempio il celebre secondo movimento, eseguito in 11'48'', quasi due minuti in meno di quella che è la prassi (penso all'Italiano o più recentemente al Pavel Haas). Questo riporta il movimento all'indicazione dell'autore di "Andante con moto", togliendo un eccesso di dolente pesantezza al brano, ma senza perdere in drammaticità, anzi.
    Per il resto una lettura tesa, che non manca di pathos, energia, contrasti, raffinatezza timbrica. 
    Dopo tante emozioni, passa onestamente in secondo piano il quartetto giovanile n.9, che preso singolarmente rimane tuttavia un piccolo gioiello.
    La qualità della registrazione, infine, rende giustizia alla bravura degli artisti. Palcoscenico sonoro piuttosto ampio. Disponibile in 96/24.
  4. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    Igor Levit, Life.
    Musiche per pianoforte di Busoni, Brahms, Schumann, Rzewski, Liszt, Evans.
    Sony 2018
    ***
    Ad ogni nuovo disco del trentunenne pianista Tedesco Igor Levit rimango senza parole. 
    Prima l'esordio con le ultime cinque sonate di Beethoven, affrontate con una maturità e una intensità impressionanti, poi le Partite di J.S. Bach, successivamente un poderoso triplo disco contenente le variazioni Goldberg, le variazioni Diabelli e le bizzarre 36 variazioni di Frederic Rzewski “The people united will never be defeated!”. Tutto questo nell’arco di soli tre anni. 

    Ora esce con un doppio disco, intitolato Life, un concept album che letteralmente svernicia i diversi album a programma, spesso molto simili tra loro, che le etichette discografiche ci stanno proponendo (o propinando?) sempre più frequentemente. 
    Il programma è denso e originale, ricco di opere che non si ascoltano spesso (vivaddio!) e in grado di passare dalle epiche costruzioni di un Busoni a momenti di lirica riflessione.
     L’idea di questo album nasce da un momento di profonda sofferenza di Igor Levit per la morte di un caro amico avvenuta nel 2016. Ma questo programma, già dal titolo “Life”, celebra in qualche modo la continuità dell’esistenza, ma anche la continua rinascita del pensiero musicale di un compositore attraverso le riletture degli interpreti e soprattutto tramite le diverse rielaborazioni che ne possono fanno i compositori successivi. Basta uno rapido sguardo alla scaletta per accorgersi che è ricca di trascrizioni e omaggi ad altri compositori (Busoni-Bach, Brahms-Bach, Liszt-Wagner, Busoni-Liszt-Meyerbeer).

    L'elemento del lutto o della morte rimane tuttavia un elemento ben presente in diversi brani del disco. Si comincia infatti con Busoni e la sua Fantasia da Bach BV 253, dedicata alla memoria del padre scomparso. L'interpretazione è intensa e dolente, di un minuto più lunga della versione di Marc-André Hamelin del 2013 per Hyperion, che però tendo a preferire.
    Segue la trascrizione di Brahms della Ciaccona per violino solo dalla seconda partita di Bach per pianoforte, per la sola mano sinistra. Qui Levit ha preferito la rispettosa rilettura di Brahms alla più virtuosistica rilettura di Busoni, che considera più un pezzo da concerto. 
    La sua interpretazione è pura ed essenziale, decisamente diversa dalla versione di Trifonov, più lunga di 2 minuti e mezzo e più...eccessiva in tutto. Levit è più misurato e lascia che le emozioni si accumulino gradualmente man mano che la musica avanza, evitando di eccedere con la retorica.
    Il terzo brano in programma sono le cosiddette Geistervariationen (Variazioni fantasma) WoO 24 di Robert Schumann. Sono l'ultima opera per pianoforte composta da Schumann prima che venisse internato in manicomio. Il povero Schumann sosteneva che il tema gli fosse stato suggerito da delle voci di angeli e durante la composizione delle variazioni tentò il suicidio gettandosi nelle gelide acque del Reno. 
    Si tratta di un lavoro eseguito di rado, che possiede una sua scarna bellezza, sicuramente molto lontano dalle scintillanti e fantasiose opere giovanili.
    Si arriva quindi al lavoro del compositore americano Frederic Rzewski "A Mensch" del 2012, dedicato alla memoria dell'attore e poeta Steve Ben Israel, che lo stesso Levit aveva ascoltato in concerto insieme al suo amico scomparso.

    Si torna poi indietro nel tempo con la trascrizione di Liszt della marcia solenne al sacro Graal dal Parsifal di Wagner (S.450). L'interpretazione è tesa, magistralmente controllata, così intensa da togliere il fiato.
    Si arriva così al pezzo più lungo e complesso del disco: la mastodontica composizione di Liszt Fantasia e Fuga sulla corale "Ad nos, ad salutarem undam" di Meyerbeer (S.259) nella trascrizione dall'organo al pianoforte ad opera di Busoni. Chiaramente la trasposizione dall'organo al pianoforte ci riconsegna un pezzo che sembra totalmente nuovo rispetto all'originale. Io l'ho trovato molto bello, con il meraviglioso Adagio centrale, onirico nella versione per organo, che qui diventa qualcosa di trascendente.
    Si continua con Liszt e la sua trascrizione del Liebestod di Isotta, dal Tristano e Isotta di Wagner. La versione di Levit è di circa un minuto più lunga di quella di Alfred Brendel, che però a mio modo di vedere ci regala una lettura più avvincente.
    Ci si avvia alla conckusione del disco e passando dalla breve e dolce Berceuse tratta dalle Elegie BV 249 di Busoni, si arriva, con una certa sorpresa, alla lirica e meditativa Peace Piece, celebre brano del jazzista statunitese Bill Evans, improvvisato durante le registrazioni di "Everybody digs Bill Evans" (Riverside, 1959). Già Jean-Yves Thibaudet aveva ripreso questa composizione nel suo disco del 1997 dedicato a Bill Evans (Conversations with Bill Evans, Decca). Levit nei tempi è più vicino alla versione di Evans di quanto non lo sia Thibaudet, decisamente più lento. Il pezzo con la sua serenità prende per mano l'ascoltatore e lo accompagna fuori da un percorso contraddistinto da una certa cupezza. 

    In sintesi un programma molto interessante e originale, che tiene la strada nonostante una certa eterogeneità dei pezzi, eseguito in modo straordinario da un pianista che si conferma dotato di una intelligenza interpretativa e di una maturità fuori dal comune. Sicuramente, visti il tema conduttore del disco e l'intensità emotiva che ne deriva, va ascoltato con una certa predisposizione d'animo. Per me è uno dei migliori dischi del 2018.
     
     
  5. happygiraffe
    Beethoven, sonate per pianoforte Opp.109, 110 e 111.
    Steven Osborne, pianoforte.
    Hyperion, 2019.
    ***
    Steven Osborne ritorna alle ultime sonate di Beethoven, dopo il bel disco del 2016 in cui ci regalava una viscerale interpretazione dell’Hammerklavier. Qui troviamo le celeberrime ultime tre sonate (Opp.109, 110 e 111), cavallo di battaglia di tanti grandissimi pianisti.

    Lo scozzese è un ottimo musicista, con alle spalle una solida e invidiabile discografia, ma in questo disco penso che raggiunga uno dei punti più alti della sua carriera.
    E’ sorprendente la sua capacità di ridare vita alla partitura. Lo fa con naturalezza, energia, freschezza, intensità, attenzione al dettaglio e visione d’insieme allo stesso tempo.
    Si potrebbero fare mille confronti con i grandi del passato, così come con le interpretazioni più recenti. Mi vengono in mente tra queste ultime quelle di Igor Levit, Jean-Efflam Bavouzet e Jonathan Bliss, non mancano certo le versioni di riferimento e tante registrazioni memorabili, ma questo disco ha davvero quel qualcosa di magico che caratterizza il raggiungimento di una maturità artistica e di uno stato di grazia, che per nostra fortuna è stato impresso su disco.
    Forse è l'Op.110 il momento più alto di questo disco, senza nulla togliere alla 109 e alla 111. Ogni sonata è in ogni caso perfettamente caratterizzata e distinta dalle altre. Sono letture che amano esaltare i contrasti tra i momenti di grande delicatezza e profondità e quelli invece più violenti e esplosivi, riuscendo comunque a mantenere l'equilibrio tra gli estremi.
    Gli ingegneri del suono di Hyperion rendono fortunatamente onore alle qualità del pianista e dello strumento.
    E' un disco che ho ascoltato e riascoltato più volte negli ultimi mesi e mi sono ormai convinto che Steven Osborne ci abbia offerto una registrazione straordinaria, probabilmente una delle sue più riuscite, che si va ad aggiungere alle migliori dell'imponente catalogo delle ultime sonate del genio di Bonn.
    Consigliatissimo.
     
  6. happygiraffe
    Luigi Nono, Djamila Boupacha per soprano solo.
    Joseph Haydn, Sinfonia n.49 Hob.I:49.
    Géerard Grisey, Quattre chants pour franchir le seuil.
    Barbara Hannigan, soprano: Ludwig Orchestra.
    Alpha, 2020.
    ***
    La Passione è un disco in tre parti che ruota intorno al tema della morte, in varie forme e varie epoche. Ma passione è anche quel sentimento che Barbara Hannigan infonde in misure straordinaria in queste interpretazioni, nella doppia veste di cantante e direttrice d’orchestra.
    Il programma è sicuramente molto particolare e si apre con una composizione per soprano solo di Luigi Nono, Djamila Boupacha, dedicato alla giovane donna algerina che divenne un caso politico nel 1960, quando, dopo settimane di torture e violenze da parte dei soldati francesi, ebbe il coraggio di dire al giudice che la processava che la sua confessione era stata estorta sotto tortura e di chiedere l’indipendenza dell’Algeria. Il suo caso ispirò un quadro di Picasso, un libro di Simone de Beauvoir e una poesia di Jesus Lopez Pacheco, che fu musicata da Nono nel 1962.
    La voce duttile della Hannigan è assoluta protagonista di questo breve lavoro che dura appena cinque minuti, ma che ci commuove con il suo grido di dolore, ora intimo e sommesso, ora lacerato e urlato.
    Il contrasto con la composizione che segue, la sinfonia n.49 “La Passione” di Franz Joseph Haydn è solo apparente. Le note dolenti che aprono il primo movimento ben si sposano con lo sgomento nel quale ci aveva lasciato il lavoro di Luigi Nono. Ora Barbara Hannigan riposa la voce e impugna la bacchetta di direttrice per guidare la Ludwig Orchestra, compagine olandese con la quale collabora da diverso tempo, in una lettura intensa e ricca di pathos.
    Il piatto forte del disco ancora deve, ancora venire ed è rappresentato dai “Quattre chants pour franchir le seuil” (quattro canti per varcare la soglia), del compositore francese Gérard Grisey, per soprano e 15 strumenti. Sono delle meditazioni in musica sulla morte in quattro parti (la morte dell’angelo, la morte della civiltà, la morte della voce, la morte dell’umanità) cui segue una berceuse in conclusione. I testi dei vari movimenti provengono da epoche e civiltà diverse. Non è una composizione che portò bene al povero Grisey, che scomparve prematuramente poco tempo dopo averla terminata.  È un ‘opera che richiede enormi capacità tecniche ai suoi interpreti, le cui voci si intrecciano e sovrappongono continuamente e addirittura si disgregano letteralmente nel terzo movimento “la morte della voce”.  Ed è un’opera che richiede anche una discreta predisposizione da parte di chi ascolta a recepire questo linguaggio musicale e a lasciarsene coinvolgere.
    Ottimo il libretto che accompagna il disco, con un saggio della stessa Hannigan, tutti i testi delle opere di Nono e Grisey e tante belle foto (segnalo che la bella foto di copertina di Elmer de Haas ritrae la stessa Hannigan sott’acqua come una sirena!).
    Due parole sulla qualità della registrazione, davvero ottima in tutte e tre le parti che compongono questo disco: voce sola, orchestra classica e voce con ensemble. La stessa Hannigan in un’intervista ci spiega del rapporto di straordinaria fiducia che la lega all’ingegnere del suono, Guido Tichelman, che conosce da 25 anni e che, conoscendo ogni piega della sua voce, è in grado di consigliarla e di spingerla sempre al massimo:”è come se mi desse un paio di ali supplementari, proprio nel momento in cui ce n’è bisogno”.
    Un grande disco, non per tutti, ma comunque un grande disco!
  7. happygiraffe

    Recensioni Cuffie
    Vorrei innanzitutto ringraziare Hifiman che ci ha fornito questi auricolari in cambio della nostra sincera opinione. La nostra analisi sarà quanto più possibile oggettiva e, anzi, comincio subito col dire che in redazione non siamo dei grandi fan degli auricolari, abituati come siamo ad ascoltare musica tramite cuffie tradizionali (quando non con diffusori), comodamente seduti in poltrona. Ho accettato però con entusiasmo l’idea di testare queste “cuffiette” prodotte da un’azienda molto nota in ambito hifi per le sue magnifiche cuffie magnetostatiche.
    E così veniamo a parlare di queste RE 600s V2, evoluzione delle RE 600 lanciate nel 2013 e appartenenti alla  famiglia “premium” del catalogo di Hifiman.

    Si tratta di auricolari con un driver da 8.5mm, un diaframma in Titanio e un magnete in neodimio, pensati per ascolti di qualità su dispositivi portatili.
    Si presentano in una confezione davvero molto, molto bella, che stupisce per la cura che Hifiman ha voluto dedicare a questo prodotto.

    Al suo interno troviamo un’ampia scorta di “tappini”: 3 paia a doppia flangia (small), 2 paia a doppia flangia (medium), 2 paia monoflangia (small), quattro paia in silicone (small e medium). Tra gli accessori anche cinque coppie di filtri extra, nel caso col tempo si presentasse la necessità di sostituirli.

    In più Hifiman fornisce una comoda e compatta custodia da viaggio circolare (contenente ancora altri ear-tips).

    Sono auricolari di taglia piuttosto ridotta e, una volta trovata la coppia di adattatori che meglio si adatta alle nostre orecchie, sono in grado di fornire un buon isolamento dai rumori esterni. L’ingombro limitato e la loro leggerezza li rendono piuttosto comodi da utilizzare. Il cavo, cambiato rispetto alla versione precedente, è di buona sezione e termina con un jack dritto da 3.5mm. Da notare che il cavo è fisso, cosa prevedibile viste le dimensioni dell’auricolare.
    Prova d’ascolto
    Ho dovuto sottoporre questi auricolari ad un lungo rodaggio di circa 100 ore prima che cominciassero a dare il meglio delle loro possibilità. Da nuovi facevo davvero fatica ad ascoltarli. Per questa prova li ho accoppiati al fidato lettore Fiio X5.

    Bassi
    I bassi sono ben presenti, ma mai esagerati, anzi molto equilibrati e di qualità, in linea con l’impostazione molto neutra di queste cuffie. A volte sentiremmo l’esigenza di un basso più pieno e presente, ma servirebbe un driver più ampio per ottenerlo. Come prevedibile si percepisce una certa attenuazione dai 100Hz in giù.
    Medi
    Le medie frequenze sono il vero grande punto di forza di questi auricolari: il suono è aperto e trasparente, le voci umane hanno corpo e presenza e sono riprodotte con grande naturalezza. I timbri degli strumenti sono assolutamente realistici e ben bilanciati.
    Alti
    Le  frequenze medio-alte presentano un buon grado di dettaglio, ma quando messe alla corda da alcuni strumenti (clavicembalo, ma anche pianoforte, chitarre elettriche) ho invece percepito una leggera asprezza che può rendere l’ascolto di alcuni brani un po’ faticoso a chi ha orecchie più sensibili a queste frequenze, come è il mio caso. Andando più su le cose migliorano, anche grazie ad un’evidente attenuazione della parte più alta dello spettro.
    Palcoscenico
    Il soundstage è a mio avviso il secondo punto di forza di queste cuffie: l’immagine riprodotta stupisce molto per ampiezza, profondità e capacità di separare e localizzare con precisione gli strumenti nello spazio e questo non è cosa da poco!
    Conclusioni
    Riassumendo, si tratta di un paio di ottimi auricolari che suonano in modo molto neutrale e ricco di dettaglio e che fanno della linearità nelle medie frequenze il loro punto di eccellenza, insieme a un palcoscenico virtuale davvero sorprendente.
    Nel trarre le conclusioni non si può fare a meno di considerare l’elemento economico. Questi sono auricolari che al momento del lancio venivano venduti a 400$ (negli USA), prezzo che trovo eccessivamente alto per quello che offrono. Oggi si possono trovare a 120€ nel più famoso negozio online del pianeta, mentre sullo store di Hifiman sono proposti in offerta addirittura a 64,99$, anziché a 200$.
    A questo prezzo diventano oggetti decisamente più interessanti e appetibili, con un rapporto qualità-prezzo molto favorevole, che mi rende molto più facile consigliarli a chi sia interessato a questo tipo di dispositivi. Siamo comunque, a mio avviso, ancora lontani da un’esperienza di tipo “audiophile”, come dicono nei paesi anglosassoni, per la quale bisognerà passare a modelli superiori per qualità e prezzo.
    Segnalo l’esistenza di un modello più economico, le RE400, che oggi si trovano intorno ai 60€, che mantengono la stessa impostazione molto neutrale delle RE600S e un’ottima gamma media, ma con prestazioni complessivamente inferiori, che potrebbe interessare chi ha un budget più ristretto.
     
    Pro
    Confezione molto bella, ideale per un regalo
    Leggerezza e comfort
    Dettaglio
    Palcoscenico ampio
    Suono bilanciato e neutrale
    Ampia disponibilità di eartips
     
    Contro
    Cavo fisso
    Basso un po’ esile
    Medio alti a tratti un po’ aspri
  8. happygiraffe
    The Beethoven connection, Vol.1
    Jean-Efflam Bavouzet, pianoforte.
    Joseph Wölfl (1773-1812), sonata Op.33 N.3 (1805).
    Muzio Clementi (1752-1832), sonata Op.50 n.1 (1804-21).
    Johann Nepomuk Hummel (1778-1837), sonata n.3, Op.20 (1807).
    Jan Ladislav Dussek (1760-1812), sonata Op.61, C 211 (1806-1807)
    Chandos, 2020.
    ***
    Si sa che il 2020 è stato un anno di celebrazioni beethoveniane e sono fioccate nuove incisioni delle pagine più o meno celebri del genio di Bonn. Pur avendo già registrato pochi anni fa una bella integrale delle sonate, non si è lasciato trovare impreparato o a corto di idee il bravo pianista francese Jean-Efflam Bavouzet.
    È così che, anziché proporci musiche di Beethoven, ha scelto di offrirci pagine di musicisti contemporanei a Beethoven all’epoca piuttosto noti, ma che oggi sono conosciuti per lo più dagli addetti ai lavori.
    A quei tempi Beethoven non era certo l’unico compositore a scrivere musica per pianoforte (o fortepiano) e se i suoi illustri predecessori (Mozart e Haydn) sono celebri, sappiamo probabilmente meno di che tipo di musica scrivevano i suoi contemporanei. L’intento del disco, ben spiegato nelle ottime note di copertina, è proprio quello di farci capire “il linguaggio comune dell’epoca” e mostrare che i capolavori di Beethoven non originano dal nulla, ma da un contesto musicale florido con cui tanto aveva in comune.
    Bavouzet ci invita quindi a cogliere le influenze di Beethoven sui contemporanei così come le quelle di questi ultimi su Beethoven stesso.
    Sono tutti lavori composti tra il 1804 e il 1809, periodo in cui Beethoven sfornava capolavori come la Waldstein (1803), l’Appassionata (1805) e Les adieux (1810) e, sebbene sia evidente che le sonate di questo disco non vi si avvicinino neanche lontanamente, possiamo cogliere molte affinità, soprattutto con le precedenti sonate beethoveniane.
    La sonata in Mi maggiore di Joseph Wölfl ci stupisce per grazia e fantasia. La sonata Op.50 n.1 di Muzio Clementi è forse la meno interessante del disco, ma è noto quanto il compositore romano contribuì all’evoluzione della tecnica e del linguaggio pianistico di quell’epoca e quanto fosse tenuto in considerazione dallo stesso Beethoven.
    Brillante, virtuosa e audace la terza sonata di Johann Nepomuk Hummel, che all'epoca venica considerato l’erede di Mozart e che fu il successore di Haydn come direttore d’orchestra presso il principe Esterházy.
    Molto bella la sonata in due movimenti Op.61 “elegia armonica” di Jan Ladislav Dussek, quella che più di tutte riesce a guardare avanti nel tempo e che possiamo tranquillamente definire pre-romantica. Con il suo carattere più simile ad una fantasia e suoi ritmi concitati e sincopati del secondo movimento fanno quasi pensare a un Robert Schumann, che all’epoca non era ancora nato!
    Esemplare le interpretazioni di Bavouzet, che riesce a imprimere a ogni sonata il giusto carattere, suonando con la consueta finezza ed eleganza. Come "bonus track" il pianista francese ci propone cinque esempi di affinità tra frammenti di sonate di Beethoven, Clementi Hummel e Dussek.
    Molto buona anche la qualità della registrazioni, che rende giustizia al suono nitido e preciso di Bavouzet e ci presenta un pianoforte piuttosto vicino e con una buona dinamica.
    Onestamente, confesso che quando ho visto che era uscito questo disco, sulle prime ho pensato che fosse di una noia mortale. Sono contento di essere stato smentito e di aver conosciuto compositori e opere di cui ignoravo l’esistenza. A questo punto non mi resta che aspettare le prossime due uscite (si tratta di un progetto suddiviso in 3 dischi), augurandomi che siano altrettanto belli.
  9. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    Beethoven, sonate per pianoforte Op.54 e Op.78.
    Rachmaninov, sonata per pianoforte N.2 Op.36.
    Ivo Pogorelich, pianoforte.
    Sony Classical, 2019
    ***
     
    Un disco di Pogorelich dopo più di 20 dall’ultimo? Pubblicato da Sony Classical?? Caspita,  deve essere una roba seria, mi sono detto. Il ritorno in grande stile di Pogorelich, controverso pianista croato, molto famoso  tra gli anni ’80 e ’90, conosciuto per i suoi atteggiamenti anticonformisti e per le sue interpretazioni a cavallo tra il geniale, l’eccentrico e il provocatorio, poi progressivamente scomparso dalla scena discografica e dai circuiti concertistici più importanti.

    Ebbene cos’avrà di nuovo da dirci oggi Ivo Pogorelich, arrivato ai 60 anni?
    Il programma del disco è piuttosto inconsueto e accosta due deliziose sonate di Beethoven, Op.54 e Op.78, alla poderosa seconda sonata di Rachmaninov nella prima versione del 1913.
    L’ascolto, ahimè, è stato sconcertante, per non dire decisamente irritante. 
    Dinamica, tempi, ritmo, tutti strapazzati, dall'inizio alla fine, senza pietà. A volte si fa addirittura fatica a riconoscere la musica o a seguire la linea melodica. E attenzione che qui non stiamo disquisendo di dove sia il punto di equilibrio tra il rispetto della pagina scritta e la libertà dell’interprete, qui siamo ben oltre: qui siamo alla totale mancanza di rispetto per l’ascoltatore (per non parlare del compositore) da parte di un artista evidentemente sopraffatto da un ego ingombrante e non più affiancato dal genio di un tempo, quasi volesse dirci “eccomi sono ancora il grande Pogorelich, anticonformista per contratto, posso permettermi quello che voglio!”.
    Non è certo il croato l’unico artista per così dire eccentrico in circolazione. Prendiamo ad esempio la violinista Patricia Kopatchinskaja, conosciuta per le sue interpretazioni fuori dai canoni. Quando la ascoltiamo suonare, al di là della sua prorompente individualità, percepiamo passione, vitalità, un amore sconfinato per la musica che sta suonando, sentiamo che Patricia ci sta comunicando qualcosa. Tutte cose, invece, tristemente assenti da questo ultimo disco del pianista croato.
    Ma sono certo che come un tempo Pogorelich divideva i pareri di chi l’ascoltava, così anche oggi ci sarà chi griderà con entusiasmo al ritorno del genio croato.
    Per me invece è semplicemente un peccato vedere tanto talento gettato alle ortiche, ma me ne faccio una ragione, metto il disco da parte e guardo altrove. Per fortuna nella discografia non mancano interpretazioni straordinarie di queste composizioni e nel panorama pianistico attuale non mancano artisti seri, di grande talento e che abbiano qualcosa da dirci.
    Una nota sulla qualità dell’incisione, assolutamente lontana dagli standard molto elevati ai quali l’etichetta giapponese ci ha abituato.
    Insomma, un disco da dimenticare velocemente
  10. happygiraffe
    Mahler: das Lied von der Erde
    Robert Dean Smith, tenore. Gerhild Romberger, contralto.
    Budapest Festival Orchestra, Direttore Ivan Fischer.
    Channel Classics 2020
    ***

    Mahler: das Lied von der Erde
    Robert Dean Smith, tenore. Sarah Connolly, contralto.
    Rundfunk-Sinphonieorchester Berlin, Direttore Vladimir Jurowski.
    Pentatone 2020
    ***

    Mahler: das Lied von der Erde
    Yves Saelens, tenore, Lucile Richardot, contralto.
    Het Collectief, Direttore Reinbert De Leeuw.
    Alpha 2020
    ***
    Il Canto della Terra, composto negli ultimi anni di vita di Mahler, rappresenta probabilmente uno dei punti più alti della su arte. E’ un’opera particolare, che Mahler definisce sinfonia, ma che curiosamente non rientra nel computo delle sue sinfonie (scaramanzia?). E’ composto da sei lieder orchestrali per tenore e contralto, su testi tratti da un’antologia di poesie cinesi curata da Hans Bethge, di cui l’ultimo, il meraviglioso Der Abschied, dura quanto gli altri cinque messi insieme.
    Fu composto nel periodo buio che seguì la scomparsa della figlia primogenita di Gustav e Alma a soli cinque anni nel 1907, anni in cui il loro matrimonio entrò in crisi e in cui a Mahler fu diagnosticata una patologia cardiaca che lo portò alla morte nel 1911. 
    i coniugi Mahler cercarono rifugio dal loro dolore in Val Pusteria, nei pressi di Dobbiaco, dove Gustav si fece costruire una piccola capanna per poter comporre. E fu quindi nei boschi ai piedi delle Dolomiti che portò a compimento nel 1908 il Canto della Terra, che però fu rappresentato postumo solo nel 1911.
    Opera figlia di un dramma personale, ma anche così rappresentativa di un periodo storico che stava per svanire, ha avuto interpretazioni storiche di grande valore (Walter, Klemperer, Jochum, Berntein, Kubelik) con voci straordinarie (Ludwig, Ferrier, Wunderlich, Haefliger, tra gli altri). 
    Stupisce vedere nel 2020 uscire in contemporanea tre nuove incisioni del Canto del Terra di ottimo livello. Si tratta di tre produzioni che hanno però degli elementi distintivi.
    Vediamole ordine cronologico di registrazione.

    Ivan Fischer
    La prima è quella pubblicata da Channel Classics che vede la Budapest Festival Orchestra diretta da Ivan Fischer. Robert Dean Smith è il tenore, Gerhild Romberger il contralto. Si tratta di una registrazione effettuata a marzo del 2017.

    Vladimir Jurowski
    La seconda esce per Pentatone e si tratta di una registrazione live di un concerto che si è tenuto nel mese di ottobre del 2018 alla Philarmonie di Berlino. La Rundfunk-Sinphonieorchester di Berlino è diretta da Vladimir Jurowski. Ritroviamo anche qui Robert Dean Smith, a distanza di un anno e mezzo dalla prova con Fischer, e Sarah Connoly come contralto.

    Reinbert De Leeuw
    La terza e più recente esce per Alpha ed è quella più particolare. Si tratta di un arrangiamento per quindici strumentisti più le due voci eseguito dallo stesso Reinbert De Leeuw, che qui è anche alla direzione. Le voci sono quelle di Yves Saelens e Lucile Richardot. La registrazione è del gennaio del 2020. Fu il canto del cigno di De Leeuw, che morì il mese successivo.
    Come dicevo si tratta di tre interpretazioni di grande spessore. 
    Nel primo dei tre, Fischer può contare su un’orchestra, la sua orchestra, in forma smagliante e su un’ottima coppia di cantanti. Smith domina la partitura con naturalezza. La Romberger pure, ma mi è parsa meno emotivamente coinvolta e coinvolgente rispetto alle grandi interpreti del passato. Diciamo che interpreta il ruolo con un maggiore understatement. L'affiatamento tra direttore e orchestra è tale, che la Budapest Festival Orchestre sembra essere un'emanazione del pensiero di Fischer.

    Robert Dean Smith, protagonista delle versioni di Fischer e Jurowski.
    La versione di Jurowski ha i pregi (tanti) e i difetti (pochi) di un live: al di là della magnifica prova orchestrale, sono le voci che fanno la differenza. Smith, a distanza di un anno e mezzo dalla registrazione con Fischer, sembra aver maturato ancora di più la propria parte o forse l’esibizione dal vivo gli dà quell’adrenalina in più che gli fa fare un’ulteriore salto di qualità. La Connoly da un lato ci emoziona più della Romberger con Fischer, dall’altro ci lascia un po’ perplessi per un vibrato che a tratti (ahimè nei momenti più belli) sembra essere fuori controllo.

    Sarah Connoly
    Dovendo scegliere tra Fischer e Jurowski (scelta davvero difficile!), probabilmente sceglierei il primo, perché offre il risultato più omogeneo (la Connoly in certi momenti non mi è proprio andata giù, non me ne voglia).

    Gerhild Romberger
    Il terzo Canto della Terra, quello di De Leeuw, è davvero particolarissimo. De Leeuw sceglie di arrangiare la partitura riducendo l’immenso organico orchestrale di Mahler ad appena una quindicina di strumentisti (qualcuno suona due strumenti). L’effetto è davvero particolare e devo dire che non sembra assolutamente di ascoltare una versione semplificata o addirittura impoverita del capolavoro mahleriano, quanto piuttosto un Canto della Terra portato ai suoi elementi essenziali, in cui ogni musicista dà il meglio di sé. I cantanti, Yves Saelens e Lucille Richardot, offrono un’ottima prova, ma a differenza dei loro colleghi hanno forse la vita più semplice, non dovendo rivaleggiare con un’orchestra di grandi dimensioni, ma con un ensemble da camera.

    Lucille Richardot
    In questi mesi bui, queste pagine pregne di un senso commiato e di febbrile malinconia, mi hanno offerto quella consolazione che solo la musica può dare. Fischer, Jurowski e De Leeuw e i loro splendidi musicisti e cantanti le interpretano in modo diverso, ma con uguale sottigliezza e profonda immedesimazione.
    Pur andando la mia preferenza a Fischer, raccomando caldamente l’ascolto di tutte e tre le versioni!
  11. happygiraffe

    Recensioni : Musica da Camera
    Béla Bartók, integrale dei quartetti per archi.
    Quatuor Diotima
    naïve 2019
    ***
    La realizzazione dell'integrale dei sei quartetti del compositore ungherese Béla Bartók (1881-1945) è un'impresa artistica che merita sempre rispetto. In questo caso è il turno del quartetto Diotima, formazione francese molto nota soprattutto nell'interpretazione della musica moderna e contemporanea: il Diotima ha collaborato in passato con Boulez e con Lachenmann ed è dedicatario di diversi lavori per quartetto.
    Di certo non sono i primi a cimentarsi con i quartetti di Bartók. Mi vengono in mente diverse versioni di riferimento o importanti, come quelle del quartetto Vegh (1954 e 1972), del Julliard (1950 e 1963) e del Tokyio (1977), Emerson (1988), Takács (1998) e in tempi più recenti del Belcea (2008).
    Composti nell'arco di 30 anni, tra il 1909 e il 1939, questi quartetti sono testimoni dell'evoluzione dello stile compositivo di Bartók nel corso degli anni e sono indispensabili per comprendere a pieno la sua arte.
    Se il primo quartetto (1908-1909) si trova all'incrocio tra post-romanticismo tedesco e la scoperta di Debussy, il secondo (1916-1917) si avvicina all'espressionismo e evidenzia i prim risultati degli studi di Bartók sul canto popolare ungherese; Il terzo quartetto (1927) trae in qualche modo ispirazione dalla Suite Lirica di Alban Berg e rappresenta un passo avanti in termini compositivi, come delle tecniche e degli effetti impiegati: i cosiddetti col legno, sulla tastiera, glissando, pizzicato, martellato. Il quarto quartetto del 1928 spinge più avanti alcuni elementi già presenti nel precedente e trova una struttura particolare con cinque movimenti disposti in modo simmetrico e concentrico. Il quinto quartetto del 1934, che vede un riavvicinamento alla tonalità ed è strutturato ancora in forma concentrica, raggiunge vette di straordinaria perfezione artistica. L'ultimo quartetto del 1939, fu una delle ultime opere composte da Bartók prima di lasciare l'Europa per gli Stati Uniti e riflette il dramma personale del compositore, costretto a lasciare la sua terra in quegli anni bui. Anche qui la struttura è innovativa, con i quattro movimenti introdotti sempre da un Mesto.

    Inutile dire che il quartetto Diotima dimostra un magistrale dominio della partitura così ricca di difficoltà tecniche e interpretative. I quattro musicisti si dimostrano pienamente a proprio agio in questo percorso in cui si incrociano linguaggi, influenze e momenti storici diversissimi. Ho trovato la lettura del Diotima da un lato analitica e in grado di dipanare un linguaggio così denso e a tratti aspro in modo estremamente nitido, dall'altro incredibilmente intensa e avvincente. Non è scontato rendere accessibile una materia sonora così complessa e densa, a tratti cerebrale, sicuramente lontana anni luce dai modelli romantici e preromantici, ma anche, mi viene da pensare, dai quartetti praticamente coevi di Prokofiev.
    Va notato che la qualità della registrazione è impeccabile e rende giustizia alla bravura dei Diotima. Il suono è straordinariamente presente, arioso e terso, permettendo di sentire con grande chiarezza tutti gli effetti tecnici impiegati dai quattro musicisti.

  12. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    Chopin, Sonate per pianoforte n.2 Op.35 e n.3 Op.58, Notturno Op.48 n.2, Barcarolle Op.60.
    Rafał Blechacz, pianoforte.
    DG 2023.
    ***
    Rafał Blechacz, ritorna all’amato Chopin con questo disco che contiene la seconda e la terza sonata.
    Da quando ha vinto nel 2005 il concorso Chopin, che ha lanciato la sua carriera e gli ha fatto ottenere un contratto con la prestigiosa etichetta DG, Blechacz sembra essersi mosso sempre con una certa cautela in un mondo musicale che fagocita i giovani talenti in una specie di tritacarne di dischi e concerti.
    Pochi dischi e di qualità, con Chopin a farla da padrone, ma con graditi fuori programma (Bach e Debussy).
    Questo ritorno a Chopin ci chiarisce, se ce ne fosse bisogno, il motivo del primo premio al concorso Chopin del 2005. Senza mezzi termini, Blechacz è probabilmente il migliore interprete del compositore polacco in circolazione!
    Interpretazioni energiche e vibranti, prive di sentimentalismi, con una straordinaria limpidezza del suono, ma soprattutto una grande fluidità nel dipanare il discorso musicale senza indugiare in manierismi, con un rubato molto naturale. Insuperabile e commovente nei movimenti lenti in pianissimo (il secondo tema della celeberrima marcia funebre della seconda sonata e il Largo della terza sonata). A fare da contorno alle sonate il Notturno op.48 n.2 e la Barcarolle.
    Sono pagine molto note del repertorio pianistico (al punto che personalmente mi erano venuto un po’ a noia) e sono numerosissime le incisioni di riferimento, ma è bello riascoltarle in questa lettura di Blechacz, in cui tutto scorre alla perfezione.
    Buona anche la qualità della registrazione, effettuata agli studi Teldex di Berlino.
    Un disco che non esito a raccomandare.
  13. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    "The Diabelli Project", musiche di Beethoven e molti altri.
    Rudolf Buchbinder, pianoforte.
    DG, 2020.
    ****
    Veterano del circuito pianistico internazionale, Rudolf Buchbinder è un grandissimo esperto del repertorio classico viennese e tedesco e specialmente della musica di Beethoven. Nel corso degli anni ha inciso varie integrali delle sonate, dei concerti e indiscutibilmente ha un rapporto molto stretto con le celebri variazioni Diabelli.
    Conoscete probabilmente la storia di queste variazioni. Anton Diabelli, compositore, pianista e soprattutto editore (fu il primo editore di Schubert), nel 1819 ebbe questa trovata, che oggi definiremmo di marketing, di chiedere a diversi compositori dell’epoca di scrivere una variazione su un suo breve valzer (assai mediocre, in verità). Risposero tantissimi musicisti, la maggior parte dei quali oggi completamente dimenticati, ma tra di essi troviamo anche nomi noti come Schubert, Moscheles, Hummel, Czerny e un giovanissimo Liszt. 
    Beethoven, inizialmente poco interessato alla proposta di Diabelli, cambiò ben presto idea e nell’arco di quattro anni compose un lavoro monumentale costituito da ben 33 variazioni sul tema originale di Diabelli. Fu una delle sue ultime composizioni per pianoforte e, insieme alle ultime 5 sonate, un vero e proprio lascito alle successive generazioni di pianisti e compositori. 
    Il buon Diabelli decise di pubblicare in due volumi tutti i contributi ricevuti: il primo con le variazioni di 50 diversi compositori (tra i quali anche l’Arciduca Rodolfo, compositore dilettante) e il secondo con il lavoro di Beethoven. Poteva ben dirsi soddisfatto il nostro editore austriaco!
    Ma torniamo al nostro disco, intitolato “The Diabelli Project”, il progetto Diabelli. 
    Buchbinder ritorna a incidere quest’opera monumentale dopo averla portata in concerto per diversi decenni, ma non si ferma qui. Il pianista austriaco fu anche il primo ad aver registrato tutto il primo libro di variazioni, quello ormai (giustamente) dimenticato contenente i lavori degli altri compositori. Per l’occasione ne riprende una manciata, otto per la precisione, che propone in chiusura di disco. Ma Buchbinder nel suo omaggio al progetto originario di Diabelli va oltre e prova a renderlo più attuale, chiedendo a 12 compositori contemporanei, di generazioni e provenienze diverse, di scrivere la loro variazione sul tema di Diabelli: Krzysztof Penderecki (*1933), Rodion Shchedrin (*1932), Brett Dean (*1961), Max Richter (*1966), Jörg Widmann (*1973),  Toshio Hosokawa (*1955), Lera Auerbach (*1973), Brad Lubman (*1962), Philippe Manoury (*1952), Johannes Maria Staud (*1974), Tan Dun (*1957), Christian Jost (*1963). In questo disco ne ripropone undici (manca la variazione di Penderecki, per ragioni che ignoro).
    Chiaramente l’ascolto si divide in tre parti. Nella prima il pianista austriaco esegue le famose variazioni Diabelli di Beethoven, rivelandoci tutta la sua arte e la sua consumata esperienza con queste pagine, con le quali ha ormai un rapporto di intima affinità. L’ho trovata un'ottima esecuzione che mi ha fatto conoscere un Buchbinder diverso da quello che ricordavo.
    Nelle variazioni moderne, che occupano la parte centrale del disco, si riconoscono stili diversi e modi diversi di affrontare questo “compito”. Alcune mi sono piaciute, altre meno, ma ho certamente apprezzato l’idea di attualizzare l’intuizione di Diabelli e di mischiare tradizione e innovazione.
    L’ultima parte del disco con una manciata di variazioni dei contemporanei di Beethoven, riporta i lavori di Johann Nepomuk Hummel, Frédéric Kalkbrenner, Conradin Kreutzer, Franz Liszt, che nel 1819 aveva 8 anni, Ignaz Moscheles, Franz Xaver Wolfgang Mozart, figlio del più famoso genitore, Franz Schubert e Carl Czerny. Sono probabilmente i compositori più significativi tra i cinquanta del primo volume di variazioni, detto questo, oggi queste pagine sono poco più di una curiosità.
    In conclusione, non posso che raccomandarvi questo disco, che rappresenta fin qui una delle proposte più interessanti e originali nel 250° anniversario della nascita di Beethoven!
  14. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    Alexander Melnikov: Four Pianos, Four Pieces.
    Franz Schubert, Fantasia in Do Maggiore D760 " Wanderer". Pianoforte Alois Graff, Vienna 1828-1835 circa. Fryderyc Chopin, 12 Etudes Op.10. Pianoforte Erard, Parigi 1837. Franz Liszt, Réminiscences de "Don Juan". Pianoforte Bösendorfer, Vienna 1875 circa. Igor Stravinsky, Tre movimenti da Petrushka. Pianoforte Steinway & Sons, Model D-274 Concert Grand. 2014. Harmonia Mundi 2018.
    ***
    In tutta onestà, quando ho letto di questo album in cui quattro diverse composizioni vengono suonate su altrettanti pianoforti, ho pensato all'ennesima trovata di marketing, pur conoscendo la serietà di Melnikov.
    E così, una volta comprato il disco in formato 96/24, mi sono messo all'ascolto, con quell'ombra di pregiudizio di chi guarda ancora con sospetto alle esecuzioni con strumenti d'epoca. 
    E invece...bum!...una rivelazione: Melnikov spazza via tutti i miei pregiudizi e il suo disco si rivela essere uno splendido omaggio al popolare strumento a tastiera.
    Ma partiamo dall'inizio.
    Lo sviluppo del pianoforte in senso moderno avviene in epoca romantica con il francese Sébastien Erard, innovatore della meccanica dello strumento con accorgimenti tecnici impiegati ancora oggi (ad esempio il cosiddetto "doppio scappamento"). Successivamente l'introduzione dei telai in metallo e di casse armoniche più ampie, intorno al 1840, e quindi la possibilità di aumentare la tensione delle corde e di conseguenza la potenza del suono, mantenendo più a lungo l'accordatura, ha portato il pianoforte a essere utilizzabile anche in sale da concerto più ampie.
    Ma il percorso dai primi pianoforti dei vari Erard, Pleyel, Graff agli attuali pianoforti da concerto fu piuttosto lungo e l'evoluzione della meccanica procedette parallelamente all'evoluzione del suono prodotto. Ascoltare l'Alois Graff del 1835 usato qui da Melnikov per la fantasia Wanderer di Schubert ci riporta in una dimensione timbrica molto, molto diversa da quella alla quale siamo abituati con i moderni strumenti.
    E' uno strumento particolare, con un'ottava in meno rispetto agli attuali pianoforti, con i martelletti rivestiti di pelle (quello moderni sono di feltro) e ben cinque pedali a disposizione del pianista per produrre diversi effetti, da quello per suonare a "una corda" a quello che il libretto chiama "drum/bells" (tamburo e campane!). E' un pianoforte che appartiene allo stesso Melnikov e si sente, perché la facilità con la quale tira fuori tutto il meglio da questo strumento così particolare deve avergli richiesto una lunga pratica. E ricordiamoci che qui Melnikov non sta suonando  una sonata di Mozart, ma la diabolica Fantasia Wanderer. Se la prima impressione è quella di un suono sferragliante, basta ascoltare l'inizio del secondo movimento per capire che nessun pianoforte moderno possa restituire l'atmosfera creata da questo Alois Graff.

    Negli Etudes Op.10 Melnikov usa un Erard del 1837 con martelletti in feltro. Chopin prediligeva per i suoi concerti i Pleyel e gli Erard e sono proprio alcune innovazioni meccaniche di questi ultimi, come il "doppio scappamento", che favorisce il legato e la rapida ripetizione della stessa nota, così come "la sordina", che facilitano quello che la scuola francese chiama il "jeu perlé". 
    Anche il Boesendorfer, utilizzato qui nelle Rémoniscences de "Don Juan" di Franz Liszt, appartiene alla collezione personale di Melnikov. E' uno strumento viennese del 1875 con i martelletti in feltro rivestiti di pelle. A detta dello stesso Melnikov è un animale difficile da domare, con una meccanica primitiva rispetto agli Erard di quarant'anni prima, che rende particolarmente difficile il legato e le note ripetute, ma con un suono molto caratteristico e ricco. Melnikov lo suona ormai da vent'anni e lo ha già impiegato in tre incisioni dedicate a Brahms. Le Réminiscences sono un altro pezzo di bravura e qui l'accoppiata pianista-strumento, nonostante questo particolare brano non sia tra i miei prediletti, mi ha convinto ancor più che nelle due composizioni precedenti. 
    Questo Boesendorfer è già uno strumento più maturo rispetto ai due precedenti, così il salto allo Steinway, sebbene lontano anni luce, non è poi così fuori misura. 
    Lo Steinway Modello D è un bestione lungo 274 centimetri e pensato per le moderne sale da concerto:

    E' uno strumento da circa 100.000€, diffusissimo nelle sale da concerto di tutto il mondo, caratterizzato da una dinamica straordinaria e dal suono omogeneo e brillante.
    Qui Melnikov usa un bello Steinway nei difficilissimi tre movimenti da Petruschka di Stravinsky, composizione del 1921 ispirata al celebre balletto e pensata per Arthur Rubinstein. Anche qui, come nei pezzi precedenti, la tecnica pianistica e lo strumento sono solo dei mezzi attraverso i quali passa la ri-creazione del brano musicale.
    Mi rendo conto di aver parlato fin qui più che altro di pianoforti, com'è normale, ma vi assicuro che, in tutte le composizioni di questo disco, appena superati i primi momenti di ascolto in cui l'orecchio si adatta al suono dello strumento utilizzato, ci si abbandona con piacere al fascino dell'universo musicale e sonoro creato da Melnikov.

    E' un pianista che seguo con molto interesse da qualche anno, sia come solista, sia insieme alla violinista Isabelle Faust. Sapevo della sua passione per gli strumenti del passato e infatti lo avevo già acoltato alle prese con pianoforti d'epoca, come nell'ultimo disco insieme alla Faust con musiche di Fauré e Chausson, dove suona un Erard.

    Questo disco va molto oltre e, come dicevo all'inizio, per me rappresenta uno splendido omaggio al pianoforte attraverso due secoli di storia.
    Può essere interessante sapere che Melnikov ha proposto un esperimento simile anche dal vivo, portando tre diversi strumenti in scena.
    Un ultima nota riguarda alla qualità della registrazione. Restituire le diverse sonorità e le diverse dinamiche di quattro strumenti così diversi tra loro deve aver rappresentato una bella sfida per gli ingegneri del suono. La sfida è nel complesso riuscita, il livello complessivo della registrazione è ottimo, con l'eccezione di Stravinsky, in cui, se da un lato vengono comunque preservati la dinamiche e i timbri meravigliosi di questo strumento, dall'altro un posizionamento dei microfoni troppo vicino alle corde produce un suono che fatico a riconoscere come naturale.
    In conclusione, se non l'aveste ancora capito, per me questo è un bellissimo disco, candidato a essere uno dei migliori del 2018. Lo è per l'idea che ne sta alla base, ma soprattutto per come è stata realizzata. Bravo Melnikov!
     
  15. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    Claude Debussy, Préludes II livre, La Mer (trascrizione a 4 mani)
    Alexander Melnikov, Olga Pashchenko
    Harmonia Mundi 2018
    ***
     
    Sono passati pochi mesi da un disco di Alexander Melnikov che ci era piaciuto particolarmente e che avevamo recensito su queste pagine ed ecco, a sorpresa, un’altra incisione del pianista russo.
    Esce nella serie che Harmonia Mundi sta pubblicando in occasione del centenario della morte del compositore francese.
    Bisogna dire che non sono mancati quest’anno i pianisti che hanno omaggiato Debussy sfruttando questa ricorrenza: dagli anziani Daniel Barenboim, Maurizio Pollini, Menahem Pressler al giovane Seong-Jin Cho (che avevamo segnalato qui), fino agli inglesi Steven Osborne e Stephen Hough, con risultati più o meno buoni.
    Melnikov come di consueto utilizza uno strumento d’epoca, in questo caso un magnifico Erard del 1885 restaurato di recente. E lo utilizza straordinariamente bene nel rendere tutta una serie di sfumature e timbri ai quali non siamo abituati con gli strumenti moderni.
    Il programma è dedicato al secondo libro dei Préludes e si chiude con la trascrizione per pianoforte a quattro mani dello stesso Debussy de La Mer, per la quale Melnikov è affiancato da Olga Pashchenko.
    E’ chiaro che sono i Préludes il piatto forte di questo disco. Melnikov ancora una volta dimostra una sorprendente capacità nello sfruttare tutte le sonorità messe a disposizione dello strumento a beneficio della composizione e delle sue scelte di interprete. La partitura viene rispettata con grande fedeltà e resa con sensibilità e maestria nei minimi dettagli. E poi c’è questo strumento incredibile, che ha carattere e permette soluzioni timbriche difficilmente ottenibili su uno strumento moderno.
    L’arrangiamento a quattro mani de La Mer è sicuramente un “riempitivo” interessante, poco eseguito e in questo caso ben eseguito. Durante l’ascolto ci si accorge di dettagli che nella partitura per orchestra si avvertono di meno. Rimane comunque una trascrizione per pianoforte di una lussureggiante partitura orchestrale, con tutti i limiti imposti dallo strumento.
    In conclusione, nell’anno del centenario della morte di Debussy questo è uno dei dischi che ho apprezzato di più e che mi sento di consigliare senza esitazione.
  16. happygiraffe
    Franz Schubert: sonata per pianoforte D. 959, minuetti D.334, D.335, D.600.
    Arcadi Volodos, pianoforte.
    Sony Classical 2019.
    ***
    Arcadi Volodos è uno dei migliori pianisti in circolazione per tecnica e sensibilità. Incide di rado, ma quando lo fa lascia il segno, come fu il caso nel 2017 con un disco straordinario dedicato a Brahms o nel 2013 con un album dedicato a Mompou, senza dimenticare lo splendido disco live a Vienna di qualche anno prima.

    n questo disco ci propone come piatto forte la sonata D. 959 di Schubert, accompagnata da tre minuetti (D.334, D.335, D.600).
    Volodos suona la 959 incredibilmente bene: ogni nota, ogni frase, ogni accento sono perfettamente resi e calibrati. Si sente che ci sono dietro anni di studio approfondito. L'Andantino del secondo movimento è qualcosa di commovente per la bellezza del timbro e la profondità dell'interpretazione. Tuttavia...sì, purtroppo c'è un tuttavia...tuttavia, dicevamo, è talmente bello assaporare voluttuosamente ogni nota, ogni impercettibile cambiamento di dinamica o di espressione, che forse si perde di vista il quadro d'insieme. La sensazione è quella di un lavoro iper-interpretato, per carità meravigliosamente bene, però a scapito di un po' di freschezza e spontaneità, che probailmente sarà più facile trovare nelle sue esecuzioni dal vivo.
    Siamo agli antipodi rispetto alla lettura aspra e spiazzante di Lonquich, ma anche da quella più lineare e diretta di Piemontesi, che ha dalla sua un gran senso dell'architettura del brano.
    Questa tendenza alla cura massima del dettaglio viene portata agli estremi nei tre graziosi minuetti che completano il disco. Gamma timbrica da capogiro, tempi un po' rilassati, stiamo assistendo ad un vero e proprio esercizio di stile, tanto da risultare quasi stucchevole una volta passata l'ammirazione per il gesto tecnico.

    In conclusione, questo disco, per quanto bello, soprattutto nella prima parte, mi ha lasciato un po' l'amaro in bocca. Pur rimanendo immutata l'ammirazione per le capacità di Volodos, da un artista del suo calibro mi aspetto sempre qualcosa in più (Ma per lui l'asticella è davvero alta!). 

  17. happygiraffe
    Arnold Schoenberg, Concerto per violino e orchestra, Verlkaerte Nacht.
    Isabelle Faust, violino.
    Swedish Radio Symphony Orchestra, Daniel Harding.
    Verlkaerte Nacht: Isabelle Faust e Anne Katharina Schreiber, violini, Antoine Tamestit e Danusha Waskiewicz, viole, Christian Poltéra e Jean-Guihen Queyras, violoncelli.
    Harmonia Mundi, 2020.
    ***
    La violinista tedesca Isabelle Faust è solita spaziare con facilità in un repertorio molto ampio che va da Bach alla musica del ‘900. Non sorprende quindi vederla ritornare alla seconda scuola di Vienna, dopo la bella incisione del concerto di Berg con Abbado del 2012, questa volta con un disco interamente dedicato a Schoenberg, contenente il concerto per violino e orchestra e Verklärte Nacht.

    Composto tra il 1934 e il 1936, negli anni travagliati e bui che seguirono la partenza dalla Germania nazista e il suo trasferimento in America, il concerto per violino e orchestra Op.36 fu dedicato ad Anton Webern ed eseguito per la prima volta nel 1940 a Filadelfia sotto la direzione di Leopold Stokovski. Al violino c’era Louis Krasner, lo stesso che nel 1936 aveva eseguito per la prima volta a Barcellona il concerto per violino di Berg.
    E’ un lavoro particolare: da un lato il linguaggio dodecafonico e una scrittura straordinariamente impegnativa per il solista (lo stesso Schoenberg scherzando diceva che il violinista “dovrebbe possedere una mano sinistra con sei dita”), dall’altra una struttura classica molto tradizionale in tre movimenti e soprattutto un lirismo davvero intenso.

    La Faust è davvero bravissima nell’insufflare passione ed energia a queste pagine e a dominare le difficoltà della partitura con assoluta scioltezza, ottimamente accompagnata da un attento e sensibile Daniel Harding e dall’orchestra sinfonica della radio svedese. Faust e Harding riescono a trovare il sottile equilibrio tra innovazione e tradizione di questo concerto, ma soprattutto a convincere l’ascoltatore che non è necessario essere profondi conoscitori delle tecniche compositive dodecafoniche per cogliere la bellezza di queste pagine.
    Nella seconda parte del disco Isabelle Faust abbandona Daniel Harding e la compagine svedese per riunirsi con un gruppo di amici nell’interpretazione di quella che è una delle opere forse più note di Schoenberg, Verklärte Nacht, qui nella meno nota versione originale per sestetto d’archi del 1899. 
    Curiosamente Verklärte Nacht è un poema sinfonico composto per un complesso da camera, un sestetto d’archi appunto. Solo successivamente, nel 1917, fu arrangiato per orchestra d’archi.
    Verklärte Nacht fu la prima composizione strumentale di rilievo di Arnold Schoenberg. Lo stile compositivo guarda ancora al contesto tradizionale del sinfonismo tardo romantico tedesco, con abbondanza di materiali cromatici “tristaniani”.
    La musica segue con precisioni le varie fasi del testo poetico di Richard Dehmel, scrittore all’epoca molto in voga. Rispetto alla versione per orchestra d’archi, la versione per sestetto guadagna in essenzialità e trasparenza quello che perde in ricchezza sonora.
    Qui la Faust è accompagnata da un gruppo di straordinari artisti: Anne Katharina Schreiber, secondo violino, Antoine Tamestit e Danusha Waskiewicz, viole, Christian Poltéra e Jean-Guihen Queyras, violoncelli. Insieme ci accompagnano in questo percorso musicale e poetico, fino all’incredibile ultimo movimento che lascia l’ascoltatore letteralmente a bocca aperta.
    In conclusione è un disco che riconcilia, se ce ne fosse il bisogno, con un compositore considerato purtroppo ancora oggi “difficile”. Complimenti alla grandissima Isabelle Faust (e ad Harmonia Mundi) per il coraggio di pubblicare un disco di musica non certo popolare e complimenti a tutti gli artisti coinvolti per la passione e l’amore con i quali hanno ridato vita a queste pagine!

  18. happygiraffe

    Recensioni : orchestrale
    Thomas Adès, concerto per pianoforte e orchestra, Totentanz.
    Kirill Gerstein, pianoforte, Mark Stone, baritono, Christianne Stotij, mezzo-soprano.
    Boston Symphony Orchestra, direttore Thomas Adès.
    DG 2020
    ***
    Thomas Adès è un artista poliedrico che ama esibirsi sia in veste di pianista, che di direttore d’orchestra, che di compositore.
    Lo avevamo ascoltato  tempo fafa accompagnare al piano Ian Bostridge in un’intensa lettura del Winterreise di Schubert, mentre più di recente lo avevamo ritrovato come direttore delle sinfonie sinfonie di Beethoven. In questo disco dell’etichetta DG compare invece nella duplice veste di compositore e direttore d’orchestra. Si tratta di registrazioni dal vivo che risalgono al 2019, il concerto per pianoforte con Kirill Gerstein, e al 2016, la Totentanz con Christianne Stotijn e Mark Stone.
    Adès è con ogni probabilità uno dei compositori contemporanei più eseguiti e più acclamati, certamente nei paesi anglosassoni, ma non solo.
    Il disco si apre con il concerto per pianoforte del 2018. Sin dalle prime battute appare chiaro che lo sguardo di Adès è rivolto ai modelli del passato: si possono sentire echi di Rachmaninov o di Tchaikovsky, di Bartòk nel secondo movimento, senza dimenticare lo swing frizzante di Gershwin. La scrittura è raffinata, ben assecondata da un Gerstein in forma smagliante, ed il risultato è assolutamente effervescente e spettacolare: possiamo immaginare l’entusiasmo del pubblico che ha assistito a questa esibizione. Se devo però dirvela tutta, al di là del piacere effimero dell’ascolto mi è rimasto poco: il continuo pastiche musicale, per quanto ottimamente organizzato, alla fine sa di maniera e ci dice poco di nuovo. Fosse stato scritto ottanta anni fa, il discorso sarebbe stato probabilmente diverso.
    Più interessante e più personale la seconda parte del programma con la Totentanz del 2013. Si tratta di una composizione per baritono, mezzo-soprano e orchestra. I testi sono tratti da un affresco del XV secolo ritrovato in una chiesa di Lubecca, poi distrutta durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale, che rappresentava diverse categorie sociali in ordine gerarchico discendente, cominciando dal Papa e terminando con un neonato. Tra un personaggio e l’altro c’era una rappresentazione della Morte danzante. Nell’opera di Adès la Morte è rappresentata dal baritono, mentre le figure umane dal mezzo-soprano.
    La partitura è densa e questa volta viene da fare un paragone con i lead orchestrali di Mahler. Ma sono pagine intense e emozionanti e non c’è nulla di manieristico a disturbarci. Christianne Stotijn riesce a caratterizzare i sedici personaggi umani con grande varietà e espressività, Mark Stone è perfetto nel suo ruolo lugubre e diabolico. Accompagnati da una Boston Symphony Orchestra assolutamente concentrata, ci guidano fino ad un finale che toglie il fiato.
    Arrivato alla soglia dei 50 anni Adès è nel pieno della sua maturità creativa e interpretativa. Ultimamente ce lo ha dimostrato in diverse registrazioni. Come compositore in diverse occasioni non ha catturato il mio gusto, ma questa Totentanz, in questa esecuzione, merita un ascolto attento.

    Thomas Adès, alla guida della Boston Symphony Orchestra con Christianne Stotijn e Mark Stone.
  19. happygiraffe
    Mi è capitato di ascoltare negli stessi giorni due dischi dedicati a Schubert di due artisti molto diversi tra loro e così ho deciso di farli salire sul ring per una sfida all'ultima nota.
    Signore e signori, preparatevi a un incontro senza pari. Da un lato l'esuberante georgiana Khatia Buniatishvili, classe 1987, dall'altro lo schivo pianista tedesco Alexander Lonquich, classe 1960.
    Partiamo dalla veste grafica.
    Khatia si presenta come una novella Ophelia, vestita di bianco e semi-annegata in acque torbide:

    Se da un lato vien da pensare al celebre Lied "La morte e la fanciulla", visivamente questa immagine richiama la celebre Ophelia del pittore preraffaellita John Everett Millais:

    Passiamo alla copertina del disco di Lonquich, dove ci appare un primo piano del pianista con gli occhi chiusi, di tre quarti, in penombra, con uno sfondo nero:

    Per una strana associazione della mia mente stramba, a me questa immagine ha fatto venire in mente il Kurtz di Marlon Brando in Apocalypse Now di Coppola:

    Per fortuna, appena aperto il libretto Lonquich ci appare in un ritratto vagamente più rassicurante con gli occhi aperti:

    Dovendo scegliere tra le due, la mia preferenza va a Khatia, per aver avuto il coraggio di posare nell'acqua gelida pur di realizzare questa copertina 
    Copertina: Khatia Vs Alexander 1-0.
    Passiamo ora ai programmi dei due dischi:
    Khatia Buniatishvili esegue di Franz Schubert:
    - Sonata per pianoforte N.21 D.960
    - 4 Improvvisi Op.90, D.899
    - Ständchen, trascrizione di Franz Liszt S. 560/7 dal Lied D.957/4
    Alexander Lonquich invece esegue di Franz Schubert:
    - Sonata per pianoforte N.19 D.958
    - Sonata per pianoforte N.20 D.959
    - Sonata per pianoforte N.21 D.960
    - 3 Klavierstucke D.946
    Il disco si intitola 1828, anno in cui furono composte queste opere e anno in cui morì il giovane Franz.
    Decisamente più denso e impegnativo il programma presentato da Lonquich.
    Voto sul programma: Khatia Vs Alexander 0-1.
    Proseguiamo e andiamo a leggerci i libretti che accompagnano i due dischi.
    Cominciamo da quello della Buniatishvili.
    Al di là di altri due ritratti della giovane georgiana sempre immersa nelle stesse acque fredde e torbide della copertina, il libretto ci stupisce per un breve saggio della stessa pianista intitolato "Note di una femminista", dove ci parla del lato femminile, della vulnerabilità e della grande sensibilità di Schubert. Rimango un po' perplesso e rimango in ogni caso convinto che il femminismo sia una cosa ben diversa da quanto ci dice Khatia.
    Passo al libretto del disco di Lonquich, dove trovo un saggio anche in questo caso scritto dall'interprete stesso. Lonquich analizza le quattro opere in programma, fornendo spunti e rimandi molto interessanti. Davvero un'ottima lettura, che ci serve anche per capire le scelte interpretative.
    Anche per il libretto non c'è storia...
    Voto sul libretto: Khatia Vs Alexander 0-1.
    Passiamo ora alla parte più gustosa: il confronto tra le due interpretazioni.
    Le scelte dei due pianisti non potrebbero essere più diverse. In verità, ho trovato entrambi i dischi spiazzanti, ma per motivi opposti. 
    La lettura della Buniatishvili, che come sappiamo mira a esaltare l'aspetto femminile di Schubert, tende a restituirci un'atmosfera ovattata di calma assoluta, in cui ogni asperità appare smussata, ogni contrasto appiattito. Il rischio che corre è che le "celestiali lunghezze" di Schubert (come le aveva definite Schumann), diventino dei languidi momenti di torpore. La sonata D.960 scivola via con dolcezza, senza troppi sussulti, se non fosse per alcune repentine accelerazioni e decelerazioni, che spesso non sembrano giustificate. Anche i quattro improvvisi op.90 non lasciano il segno e confermano l'impressione di un'interpretazione che, nonostante le intenzioni, non vada mai in profondità.
    Ho trovato anche la lettura di Lonquich piuttosto spiazzante e ammetto di aver ascoltato il disco più volte prima di ritrovarmici. Il suo è uno Schubert molto diverso da quello al quale siamo abituati. Diciamo innanzitutto che Lonquich sembra non voler fare molto per compiacere l'ascoltatore: Il timbro è spesso spigoloso e duro, dimentichiamoci il suono morbido e raffinato di un Brendel o addirittura di Zimerman e lo Schubert intimo e consolatorio che ci ha tramandato la tradizione. Al contrario di Khatia, i contrasti vengono portati all'estremo e ogni piccola asperità della partitura viene enfatizzata, restituendoci uno Schubert tormentato, in cui la tensione drammatica viene amplificata nota per nota, creando un collegamento evidente con l'ultimo Beethoven. Si percepisce che quella di Lonquich è una visione maturata a lungo nel corso degli e che questa interpretazione è il frutto di un'analisi e di uno studio che hanno scavato a fondo la partitura. Il risultato può essere più o meno persuasivo (personalmente ho apprezzato di più la 958 e la 960 del resto del programma) e soprattutto può convincere o meno l'ascoltatore, abituato ad ascoltare uno Schubert generalmente molto diverso da questo, ma comunque penso che meriti un grande rispetto. 
    Dovendo scegliere tra le interpretazioni di Khatia e Alexander, anche qui non ho dubbi. La lettura di Lonquich, per quanto spiazzante e molto personale, lascia il segno e rimane impressa nella memoria. Quella di Khatia, non me ne voglia!, l'ho trovata acerba e superficiale.
    Voto sull'interpretazione: Khatia Vs Alexander 0-1.
    Un'ultima nota sulla qualità della registrazione dei due dischi. 
    Il pianoforte della Buniatishvili mostra un'enfasi eccessiva sul registro medio-basso, che appare gonfio  e riverberante, pur mantenendo una mano destra leggibile e chiara. Molto più omogeneo e limpido il suono del pianoforte di Lonquich, anche se un po' "asciutto", reso in ogni caso in maniera più realistica e convincente dagli ingegneri del suono dell'Alpha, che battono a sorpresa quelli di Sony.
    Voto sulla qualità della registrazione: Khatia Vs Alexander 0-1.
    Siamo arrivati alla fine della nostra sfida: Alexander Lonquich sconfigge senza troppa fatica Khatia Buniatishvili, con il punteggio finale di 4 a 1.

    Ci farebbe piacere vedere un pianista del calibro di Lonquich più presente sul mercato discografico e sicuramente ci fa piacere vedere che l'etichetta Alpha gli abbia permesso di realizzare questo disco.
     
    ***
     
    I due contendenti di questa sfida:
    Khatia Buniatishvili, Schubert.
    - Franz Schubert, Sonata per pianoforte N.21 D.960
    - Franz Schubert, 4 Improvvisi Op.90, D.899
    - Franz Schubert, Ständchen, trascrizione di Franz Liszt S. 560/7 dal Lied D.957/4
    Sony Classical, 2019.
    _____
    Alexander Lonquich, 1828.
    Franz Schubert:
    - Sonata per pianoforte N.19 D.958
    - Sonata per pianoforte N.20 D.959
    - Sonata per pianoforte N.21 D.960
    - 3 Klavierstucke D.946
    Alpha, 2018.
     
  20. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    Chopin, Ballate e Notturni Op.15 N.1, Op.48 N.1, Op.62 N.1
    Leif Ove Andsnes, pianoforte.
    Sony Classical 2018
    ***
    A 48 anni il pianista norvegese Leif Ove Andsnes è all'apice di un percorso musicale costruito con serietà e senza il divismo di tanti suoi colleghi più giovani.

    Ritorna a Chopin dopo più di 25 anni dall'ultimo disco dedicato al compositore polacco con un programma dedicato alle magnifiche Ballades.
    Ho molto apprezzato la scelta di inframezzare le Ballate con tre Notturni: la Ballate infatti furono composte nell'arco di diversi anni e comunque non per essere suonate come un ciclo completo. I tre Notturni spezzano un'intensità emotiva che in un ascolto continuo potrebbe essere eccessiva.
    Andsnes affronta le Ballate con decisione ed è in grado di rendere l'architettura dei brani con straordinaria chiarezza. Il confronto con la recente incisione delle Ballate dell'ultimo vincitore del concorso Chopin Seong-Jin Cho mette bene in risalto quest'ultimo aspetto.
    Il suono che produce Andsnes è meravigliosamente terso e cristallino, passando dalle più delicate sfumature ai fortissimo pieni e corposi.
    Ma se vogliamo trovare un difetto al pianismo per molti versi magistrale del norvegese è quello di essere eccessivamente controllato: da questa musica e da un interprete di questo calibro mi aspetto un ardore e un trasporto che sappiano contagiare chi ascolta. Qui spesso i finali delle Ballate, dove Chopin porta il discorso musicale a un climax irresistibile per poi concludere con delle code assolutamente fiammeggianti, li ho trovati un po' sgonfi.
    E' possibile, anzi è probabile, che Andsnes dal vivo sappia regalare emozioni che finora in alcuni suoi dischi non ho trovato, ma purtroppo non ho mai avuto modo di ascoltarlo in concerto.

    Rimane comunque un disco di assoluto rilievo, meravigliosamente registrato, ma a mio avviso un pelo sotto altre incisioni come, solo per fare un paio di esempi, quelle di Perahia o di Pollini.
     

  21. happygiraffe
    Mozart, sonate per pianoforte K.280, K.281, K.310, K.333.
    Lars Vogt, pianoforte.
    Ondine, 2019.
    ***
    Le sonate per pianoforte di Mozart non sono probabilmente quanto di meglio il genio di Salisburgo abbia composto, ciò nonostante alcune di esse sono dei veri e propri gioielli e, nella loro apparente semplicità, rappresentano comunque una sfida per chi li esegue, che si trova costretto a scegliere delle linee interpretative ben precise.
    C’è chi le suona mettendo in evidenza l’aspetto rococò, elegante e lezioso, chi invece accosta all'equilibrio neoclassico delle raffinatezze timbriche che forse sarebbero più appropriate per Debussy.
    Il pianista Tedesco Lars Vogt, che qui esegue le sonate K.280, K.281, K.310 e K.333, segue un approccio più diretto e vivo, grazie anche a qualche libertà espressiva, e riesce a caratterizzare molto bene il diverso carattere di ognuna di queste sonate.
    Nella K.280, che risente ancora dell’influenza di Haydn nei movimenti veloci, ci stupisce il lungo Adagio per l’intensità emotiva e il senso di profonda tristezza che Vogt riesce a imprimere al brano.
    Se la K.281 scorre più spensierata, è la K.310 il cardine del disco. Vogt ne fa emergere con grande immediatezza l’elemento tragico, come poche altre volte ho sentito, pur mantenendo quell'equilibrio delle emozioni così tipico della musica di Mozart. Questa è la prima tra le sonate di Mozart in tonalità minore e deve il suo carattere così insolitamente concitato sia alle difficoltà del suo soggiorno parigino nel 1778, segnato anche dalla morte della madre, sia anche al desiderio di adattarsi, alla sua maniera, a uno stile musicale più drammatico in voga in quegli anni a Parigi.
    La K.333 è gioiello di grazia, eleganza e fantasia, con l’allegretto finale che prende a modello lo stile del concerto per pianoforte e orchestra.
    E' un disco che ho trovato molto convincente, con Vogt bravissimo nel far parlare in maniera diversa ciascuna della quattro sonate, ma sempre in modo vario e molto naturale, senza mai essere eccessivamente cerebrale o sofisticato. Difficilmente ascolto più di due sonate di Mozart di fila senza avvertire un po’ di noia, ma qui le cose sono andate molto diversamente e arrivato alla fine del disco l’ho riascoltato dall'inizio con molto piacere!
    Buona la qualità dell’incisione, disponibile anche in formato liquido a 48/24, e interessante anche il libretto, che contiene un’intervista a Lars Vogt su queste quattro sonate.
     
  22. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    Chopin: 2 Notturni Op.55, 3 Mazurche Op.56, Berceuse Op.57, terza Sonata per pianoforte Op.58
    Maurizio Pollini, pianoforte.
    Deutsche Grammophon 2019
    ***
    Con una straordinaria carriera pianistica alle spalle, migliaia di concerti e decine di dischi che hanno fatto storia, mi sono chiesto che cosa abbia spinto Pollini, alla veneranda età di 77 anni, a ritornare in studio per registrare ancora una volta Chopin. Molti dei pezzi, poi, come la terza sonata o la Berceuse, li aveva incisi quando era all'apice del suo percorso artistico. E poi l'ultimo suo disco dedicato a Chopin del 2017 mi aveva lasciato l'impressione di un artista ormai alla fine (per poi in parte ricredermi lo scorso anno con la sua lucida e moderna lettura del secondo libro dei Préludes di Debussy). Così, con la consapevolezza di chi sta andando incontro a una delusione, mi sono avviato ad ascoltare questo disco, con ben poche aspettative.
    Invece, è stata una sorpresa trovare un Pollini diverso dal solito. Decisamente più lirico e espressivo, con un'inconsueta flessibilità ritmica, è un Pollini che ha perso un certo suo tratto di nervoso e aggressivo, che emerge a tratti in alcuni dischi e dal vivo, per trovare una nobile serenità. Un artista finalmente in pace con se stesso.
    D'altra parte Pollini è un consumato interprete di Chopin, basti sentire l'eleganza belcantistica con cui conduce la melodia del Notturno Op.55 n.1 o della Berceuse. E anche se nei passaggi più impegnativi non troviamo più la tecnica infallibile di un tempo, le mani filano ugualmente veloci e senza troppe preoccupazioni. 
    In conclusione un buon disco, che probabilmente non aggiunge molto al glorioso lascito discografico di Pollini, ma che ci mostra un'artista che, arrivato in tarda età, ha ancora il coraggio, la voglia e la passione per sperimentare percorsi diversi.
     
  23. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    Schubert, Fantasia “Wanderer” D 760 op. 15
    Berg, sonata per pianoforte op.1
    Liszt, sonata per pianoforte in Si minore S 178
    Seong-Jin Cho, pianoforte
    DG 2020
    ***
    Vincitore del Concorso Chopin nel 2015, il coreano Seong.Jin Cho è ormai un pianista affermato, con un contratto stabile con DG e ormai già qualche disco al suo attivo. Qui ci propone un programma tanto bello quanto impegnativo: la Fantasia Wanderer di Schubert, la sonata di Berg e quella di Liszt per concludere.
    Cho possiede una tecnica ineccepibile: un fraseggio elegante, una gamma timbrica sgargiante, un virtuosismo mai appariscente. 
    Il suo Schubert è di alto livello, tecnicamente immacolato, con un controllo e una resa dell’architettura del brano impeccabile. Tuttavia mi sento di dire che è convincente, ma non sconvolgente. Al giovane Cho manca ancora qualcosa. La sua Wanderer non ha l’impeto di un Richter, il furore di un Pollini, l’introspettiva complessità di un Brendel, la follia di un Sofronitsky. E’ come se ci fossero un controllo e una reticenza eccessivi, quando invece ci sarebbero voluti un po’ di rischio e di slancio in più.
    La bellissima sonata di Berg viene eseguita con una sensibilità straordinariamente acuta. È ben presente quel senso di inquietudine che in fondo la accomuna con le altre due opere di questo disco. Cho è in grado di rendere alla perfezione la filigrana dei vari piani sonori, le impennate e le decelerazioni della musica, con una palette timbrica di prim’ordine. Rispetto alla lettura di Pollini, che guarda avanti alla musica degli anni successivi, Cho ha un approccio più tradizionale.
    È la sonata di Liszt, che chiude il disco, il brano che mi ha convinto di più. Tutto il virtuosismo di Cho è al servizio della diabolica partitura del grande compositore ungherese e questa volta c’è anche quello slancio che finora ci era mancato. Certo è che non mancano le grandi interpretazioni di questa sonata ed è sempre difficile per un giovane pianista poter dire qualcosa di nuovo. Il risultato è comunque di tutto rispetto.
    Ripensando a questo disco nel suo complesso, mi sento assolutamente di consigliarlo. Mi rimane comunque l’impressione di trovarmi di fronte a un ottimo pianista dotato di grandissimi mezzi, ma che ancora deve trovare la sua strada dal punto di vista interpretativo, quella strada che gli permetterebbe di lasciare il segno. Se lo confrontiamo con i suoi quasi coetanei, non trovo né l’elettrizzante fantasia di Benjamin Grosvenor, né lo slancio e l’intellettualismo di Igor Levit o la felina naturalezza di Yuja Wang. Poco male, va bene anche così. Vorrò dire che il meglio deve ancora venire.
    Modificato 9 Maggio 2020 da Eusebius
  24. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    Le Six et Satie. Musiche di Auric, Durey, Honegger, Milhaud, Poulenc, Tailleferre e Satie.
    Pascal e Ami Rogé, pianoforte.
    Onyx Classics 2020.
    ***
    Nel tripudio discografico di celebrazioni del 250 anniversario di Beethoven, un po’ di musica francese giunge come una boccata di aria fresca. E quale musica più anti-germanica potrebbe esserci se non quella del cosiddetto Gruppo dei Sei, musica nata alla fine della grande guerra, sulla spinta dell’antagonismo bellico e di sentimenti nazionalistici, in antitesi alla pesantezza teutonica di Wagner.
    I compositori in questione sono Darius Milhaud, Arthur Honegger, Francis Poulenc, Germaine Tailleferre, Georges Auric e Louis Durey che, sotto l’influsso di Satie e Cocteau, ebbero un momento di coesione intorno al 1920, quando un critico musicale creò per loro la definizione di “Gruppo dei Sei”, sulla scia del russo “Gruppo dei Cinque”. In realtà questa vicinanza fu effimera e ognuno di loro seguì poi la propria strada, com’è normale.
    Se il rifiuto della tradizione tedesca è evidente, il tentativo di scrollarsi di dosso l’impressionismo di Debussy fu solo apparente: evidenti sono i numerosi riferimenti allo stile del grande compositore francese, pur sotto un abito ormai molto diverso.
    E’ musica per lo più disimpegnata, spesso scherzosa e brillante, divertente da ascoltare, nazionalista sì, ma al tempo stesso aperta a tutte le influenze musicali che attraversarono Parigi in quegli anni.
    Ascoltandola oggi stupisce per la sua modernità e viene quasi da dire che questa musica è invecchiata molto meglio di quella di tanti compositori venuti dopo.
    Pascal Rogé, qui accompagnato dalla moglie Ami, è un pianista straordinario, sicuramente uno dei migliori nel rendere al meglio il repertorio francese (ricordo una bellissima integrale di Poulenc e tanti altri bei dischi). Negli ultimi anni ha inciso spesso in coppia con la moglie con ottimi risultati.
    Un disco che mi ha regalato degli autentici momenti di buonumore (cosa rara di questi tempi) e che mi sento di consigliare anche a chi ha poca familiarità con questo repertorio.
  25. happygiraffe
    Franz Schubert, sonate per pianoforte D.959, D.959, D.960.
    Francesco Piemontesi, pianoforte.
    PentaTone 2019
    ***
    In quest’ultimo anno non sono mancate le registrazioni interessanti dedicate alle ultime sonate di Schubert: dall’affascinante lettura di Schiff su fortepiano (qui), alla tormentata versione di Lonquich (qui accostato alla melliflua e meno convincente Buniatishvili), per finire con la prova iper-raffinata di Volodos (qui).
    Ora anche il talentuoso pianista ticinese Francesco Piemontesi si mette alla prova con la triade delle ultime sonate, dopo gli ultimi dischi dedicati ai primi due libri delle Années de Pèlerinage.
    Come abbiamo già avuto modo di scrivere riguardo al suo Liszt, Piemontesi è un pianista che sembra aver raggiunto in questi anni uno stato di grazia, sia dal punto di vista tecnico che interpretativo e questo Schubert ne è una conferma.
    Ritroviamo qui il Piemontesi grande narratore che avevamo conosciuto in Liszt: ci accompagna con estrema naturalezza nei solitari paesaggi musicali dell’ultimo Schubert, passando dalla quiete alla sommessa disperazione, dall’intima palpitazione dei passaggi più scherzosi allo sconforto più drammatico. Lo fa con grande finezza e eleganza, rendendosi completamente invisibile e totalmente al servizio della musica.
    E nonostante le “celestiali lunghezze” di Schubert possano spesso indurre torpore, non è fortunatamente il caso qui. Piemontesi riesce a rendere l’architettura dell’opera nella sua complessità e al tempo stesso la cura del dettaglio, con una capacità di controllo magistrale.
    Siamo ancora una volta di fronte a un disco importante di un artista solido e maturo, che entra di buon diritto tra i miei riferimenti degli ultimi anni.
    Notevole anche la qualità della registrazione (che ho ascoltato in formato liquido 96/24), realizzata nella bella acustica della Salle de musique a La  Chaux-de-Fonds in Svizzera. Il pianoforte è reso in maniera assolutamente realistica in tutto lo spettro, con timbri caldi e rotondi e un'immagine ben centrata e coerente.

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