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happygiraffe

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Blog Entries pubblicato da happygiraffe

  1. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    Robert Schumann
    Sonata per pianoforte No. 3 Op. 14 "Concerto senza orchestra" (Arr. V. Horowitz) 
    Faschingsschwank aus Wien, Op. 26 
    3 Fantasiestucke, Op. 111
    Gesänge der Frühe, op. 133
    Jean-Efflam Bavouzet, pianoforte.
    Chandos 2019
    ***
    Mi sono sorpreso nel vedere che il pianista francese Jean-Efflam Bavouzet ha dedicato il suo ultimo disco a Robert Schumann. Bavouzet si è reso celebre per le sue interpretazioni del repertorio francese: la sua integrale di Debussy è un riferimento assoluto, poi Ravel e Pierné. Ha completato in seguito dei cicli di registrazioni dedicati al repertorio pre-romantico, Haydn e Beethoven, e ha fatto qualche puntata nel repertorio novecentesco (Prokofiev, Bartok e Stravinsky), in ogni caso con interpretazioni sempre di grande rilievo. 
    Stupisce quindi vederlo tuffarsi nel repertorio romantico che più romantico non si può.
    Il programma è molto particolare e originale: si parte da due lavori del primo Schumann, la Sonata Op.14, chiamata "Concerto senza orchestra" e il Faschingsschwank aus Wien, Op. 26, e si prosegue con due opere più tardive, i 3 Fantasiestucke, Op. 111 per concludere con i Gesänge der Frühe, op. 133.
    La Sonata Op.14 era stata composta nel 1834 e contava di 5 movimenti. Fu l'editore a persuadere il compositore a eliminare due movimenti (due Scherzo) e a darle il nome di Concerto senza orchestra. Quasi 20 anni dopo nel 1853 Schumann rimise mano alla partitura e introdusse nuovamente uno dei due Scherzo. Fu solo dopo la morte del compositore che questa composizione fu eseguita per la prima volta in pubblico da Johannes Brahms, nel 1862.
    E' un lavoro molto ambizioso che rappresenta bene la lotta di Schumann nell'affrontare il modello beethoveniano e l'ideale della cosiddetta forma sonata.
    Bavouzet ci racconta di aver conosciuto questa sonata, ancora oggi poco eseguita, da una registrazione di Horowitz della fine degli anni '70. Ebbe poi la fortuna di eseguirla davanti allo stesso Horowitz nel 1985 e discutere con lui di alcune scelte di riprendere alcuni passaggi del primo movimento dalla prima versione del 1834. E' questa stessa versione che viene eseguita in questo disco, come omaggio al grande pianista russo.

    Naturalmente l'affinità con Horowitz finisce qui. Bavouzet non ha l'approccio istrionico e un po' folle di Horowitz, la sua è un'interpretazione decisamente più cartesiana, di una grande chiarezza  nel dipanare un linguaggio molto denso e nel rendere la struttura dell'opera. Grande precisione e un notevole senso ritmico, indispensabile in Schumann, ma anche poesia o forza quando occorrono.
    Segue il Faschingsschwank aus Wien che Bavouzet interpreta con uguale chiarezza, vivacità, energia e precisione. Qui non mancano i confronti, da Richter a Benedetti Michelangeli, da Perahia a Bunin, fino a Anderszewski in tempi più recenti. Qui se proprio dobbiamo muovere una critica al francese è quella di non osare un po' di più nel caratterizzare nei vari movimenti il mondo poetico di Schumann, fatto di slanci impetuosi e improvvise tenerezze.
    La seconda parte del programma vede due lavori dello Schumann più maturo.  Prima i tre Fantasiestücke Op 111 caratterizzati molto bene nell'altalena emotiva dei tre movimenti. Chiudono i Gesänge der Frühe ("Canti dell'alba") una delle ultime opere per pianoforte composte da Schumann prima del tentato suicidio nelle gelide acque del Reno e di essere internato in manicomio.  Si tratta di cinque brevi bravi, dal carattere intimo, a tratti solari, a tratti spettrali. Anche in questo caso è impeccabile l'interpretazione del francese, anche se tendo a preferire la lettura di Anderszewski (a mio avviso uno dei migliori interpreti di Schumann in circolazione) del 2010, molto più emozionante nel rendere il carattere visionario di questi pezzi.
    In conclusione, sicuramente un ottimo disco, che probabilmente vede il momento più alto nella terza sonata. Non che gli altri brani non siano all'altezza, anzi, e il pianista è abilissimo nel restituirci le particolarità del linguaggio pianistico di Schumann, ma la concorrenza è certamente molto forte. Bavouzet in ogni caso si conferma un bravissimo pianista, che vale sempre la pena ascoltare.
    Il libretto è ricco di informazioni sulle composizioni e include anche una nota molto interessante dello stesso Bavouzet.
    Molto buona la registrazione, con lo strumento, uno Yamaha CFX Concert Grand Piano, che appare ripreso a una certa distanza. Disponibile in 96/24.

  2. happygiraffe
    Pēteris Vasks: concerto per violino "Distant Light", "Summer Dances", Quartetto per pianoforte.
    Vadim Gluzman, violino, Orchestra sinfonica della radio finlandese, direttore Hannu Lintu.
    Nelle "Summer Dances":  Vadim Gluzman e Sandis Šteinbergs violini.
    Nel quartetto per pianoforte:  Vadim Gluzman,  Ilze Klava, Reinis Birznieks e Angela Yoffe.
    BIS 2020
    ***
    Onestamente non conoscevo affatto il compositore lituano Peteris Vasks e sono capitato per caso su questo disco, seguendo semplicemente il percorso del violinista israeliano Vadim Gluzman dopo la bella prova nel Trio di Tachikovsky.
    E onestamente sono rimasto molto sorpreso dalla bellezza, inattesa, del concerto per violino Tālā Gaisma ("Luce lontana"), piatto forte di questo disco.
    Vasks è un compositore lituano, nato nel 1946, che negli ultimi decenni ha avuto un discreto successo, inizialmente anche grazie all’attività del suo compatriota Gidon Kremer, che si è prodigato per diffonderne l’opera.

    Tornando al concerto per violino, si tratta di una composizione del 1997 di circa 33 minuti, in cui i 5 movimenti inframezzati dalle cadenze del solista si susseguono senza soluzione di continuità. Il linguaggio impiegato si basa fondamentalmente sull’armonia tradizionale, senza complicare troppo la vita dell’ascoltatore. Il tono è mesto e struggente, come fosse una lunga meditazione che apre le porte a numerose domande che però non trovano risposte. Gluzman, accompagnato con grande sensibilità dalla compagine dell’orchestra sinfonica della radio finlandese diretta da Hannu Lintu, è semplicemente perfetto nel restituirci le emozioni di queste pagine. E parlando di emozioni, era da tempo che non ne provavo di simili per una composizioni di musica contemporanea.

    Al concerto per violino segue una bella raccolta di brevi brani intitolata Vasaras dejas (“danze estive”) per due violini, di recentissima composizione (2017) .Sono poco più di 10 minuti di musica. Il tono è allegro e spensierato, estivo per l’appunto. Qui Gluzman è accompagnato dal bravo Sandis Šteinbergs, violinista lituano in passato leader della Kremerata Baltica.
    Chiude il disco il Quartetto per pianoforte del 2001. Si tratta di un lavoro piuttosto lungo (38 minuti in questa edizione), in sei movimenti. Qui Gluzman suona insieme a Ilze Klava, Reinis Birznieks e Angela Yoffe. Ho trovato questa composizione interessante, ma certamente meno coinvolgente delle prime due e soprattutto del concerto per violino.
    Il disco si conclude così dopo ben 84 minuti di musica. Vasks è stato una scoperta interessantissima, che mi ha spinto ad ascoltarne altri dischi sulla scia dell’entusiasmo. Difficilmente, però, si ritroverà altrove l’intensità di questa interpretazione del suo concerto per violino!
    Consigliato!
  3. happygiraffe

    Recensioni : Musica da Camera
    Leoš Janáček: quartetto per archi No. 1 "Kreutzer Sonata", quartetto per archi No. 2 "Intimate letters"
    György Ligeti: quartetto per archi No. 1 "Métamorphoses Nocturnes"
    Quartetto Belcea
    Alpha Classics 2019
    ***
    Per una volta anticipo le conclusioni e vi dico subito che questo è un gran bel disco, sia per il programma tutto novecentesco, che mette insieme i meravigliosi quartetti di Janáček e il primo quartetto di Ligeti, che naturalmente per come è suonato dal Belcea Quartet.
    Curiosa la parabola artistica di Leoš Janáček, compositore moravo nato nel 1854 e morto nel 1928. Considerato uno dei massimi compositori dei primi decenni del ‘900, specialmente nel repertorio operistico, scrisse la gran parte dei lavori per cui è ricordato oggi solo negli ultimi 10-15 anni della sua vita e raggiunse un certo successo solo in tarda età.
    Sarebbe curioso anche accostare il percorso del moravo Janáček a quello del suo coevo Gustav Mahler, nato solo a un paio di centinaia di chilometri di distanza: mentre il primo rinnovò il linguaggio tardo-romantico di Smetana e Dvorak tramite una concezione molto libera dell’armonia e con un interesse da un lato per le avanguardie europee e l’espressionismo e dall’altro per il folklore moravo, il secondo fu forse l’ultimo straordinario erede del sinfonismo tedesco e non riuscì mai a rompere con le convenzioni del linguaggio tonale. Ma questo va ben oltre la recensione di questo disco, per cui se ne parlerà un’altra volta.
    Curioso invece che il Belcea quartet abbia deciso di ritornare in studio per registrare i due quartetti di Janáček dopo il successo che aveva riscosso proprio con il loro disco del 2003, ma questi due quartetti di Janáček sono talmente belli, che ogni nuova registrazione è benvenuta!

    Il disco del 2003.
    Il primo quartetto del 1923 trae spunto dal famoso racconto di Tolstoj “La sonata a Kreutzer”, in cui il protagonista arriva a uccidere la moglie per il sospetto che questa l’abbia tradito con un violinista, che lui stesso aveva presentato alla consorte, violinista che si faceva accompagnare dalla donna nella celebre sonata di Beethoven. La musica di Janáček si rifà all’atmosfera drammatica del racconto, che viene descritta con uno stile originale, procedendo tramite la contrapposizione di blocchi tematici diversi, con frequenti e bruschi cambiamenti di tempo, di tonalità, di espressione. Un tema ricorrente in tutti i movimenti, una sorta di leitmotiv, crea l’effetto di coesione di quest’opera.
    Il secondo quartetto del 1928, intitolato “Lettere intime” nasce invece dalla passione che infiammò il sessantenne Janáček per la giovane Kamila Stõsslovà. Leoš scrisse a Kamila più di 600 lettere in un periodo di 10 anni, fino a quando la moglie Zdenka non scoprì questa corrispondenza e lo convinse a bruciare tutte le lettere. Janáček le bruciò, ma decise comunque di raggiungere la sua amata e di mettere in musica la sua corrispondenza amorosa e i sentimenti e le emozioni di questa storia d’amore. Janáček morì sei mesi dopo aver terminato di comporre questo quartetto, a 74 anni.

    Janáček riprese in questo secondo quartetto alcuni elementi compositivi del primo, come le forti contrapposizioni ritrmiche e dinamici e il succedersi di episodi brevi e diversi, ma in un contesto più vario e comunicativo e decisamente meno drammatico.
    Nonostante il linguaggio originale e innovativo, sono entrambi lavori molto ascoltabili anche per chi frequenta poco la musica del ‘900 e che riescono a trasmettere grandi passioni e emozioni.
    Certamente il merito qui va allo straordinario quartetto Belcea, che affronta queste opere facendo rivivere tutte le emozioni che percorrevano l’anziano Janáček. Rispetto all’incisione del 2013 i tempi sono lievemente più lenti e l’impressione è che il Belcea controlli di più l’energia che scorre abbondante tra queste pagine, a vantaggio della trasparenza e dell’equilibrio tra le varie voci, senza perdere però in immediatezza e dinamismo. Gli ingegneri del suono di Alpha ci restituiscono un’immagine sonora del quartetto con i quattro strumenti molto vicini a noi e ben definiti nello spazio, cosa che va a vantaggio della chiarezza e della percezione dei dettagli. Il rovescio della medaglia è che si perde a mio avviso in coesione e naturalezza, che invece non mancavano nella registrazione del 2013.
    Ma il disco non finisce qui, perché l’ascolto prosegue con il primo quartetto del compositore ungherese György Ligeti (1923-2006), intitolato “Metamorfosi notturne”, che fu terminato nel 1954, due anni prima che il compositore lasciasse la patria per fuggire a Vienna, in seguito alla repressione sovietica della rivolta.

    Questo primo quartetto risente molto dell’influenza inevitabile di Béla Bartók ed è molto diversa dallo stile di Ligeti che conosciamo di più, che è quello degli anni ’60 e ’70. Non mancano però gli elementi di originalità. Definito da Ligeti come una “serie di variazioni senza un vero e proprio tema”, esplora in vario modo le possibilità degli strumenti, creando un universo sonoro che riesce a spiazzare continuamente l’ascoltatore, ma anche a rassicurarlo e a catturarlo, con un certo malizioso umorismo, nel suo percorso.
    Il Belcea dimostra una straordinaria affinità con questa musica, che richiede grandi capacità tecniche: l’esecuzione è assolutamente impeccabile e emozionante al tempo stesso. A mio avviso qui siamo ai livelli, se non meglio, del mio personale riferimento che è il quartetto Arditti.
    In conclusione, un gran bel disco di musica da camera del ‘900, ben pensato, ottimamente eseguito e assolutamente godibilissimo!  
  4. happygiraffe

    Recensioni : Musica da Camera
    Béla Bartók, integrale dei quartetti per archi.
    Quatuor Diotima
    naïve 2019
    ***
    La realizzazione dell'integrale dei sei quartetti del compositore ungherese Béla Bartók (1881-1945) è un'impresa artistica che merita sempre rispetto. In questo caso è il turno del quartetto Diotima, formazione francese molto nota soprattutto nell'interpretazione della musica moderna e contemporanea: il Diotima ha collaborato in passato con Boulez e con Lachenmann ed è dedicatario di diversi lavori per quartetto.
    Di certo non sono i primi a cimentarsi con i quartetti di Bartók. Mi vengono in mente diverse versioni di riferimento o importanti, come quelle del quartetto Vegh (1954 e 1972), del Julliard (1950 e 1963) e del Tokyio (1977), Emerson (1988), Takács (1998) e in tempi più recenti del Belcea (2008).
    Composti nell'arco di 30 anni, tra il 1909 e il 1939, questi quartetti sono testimoni dell'evoluzione dello stile compositivo di Bartók nel corso degli anni e sono indispensabili per comprendere a pieno la sua arte.
    Se il primo quartetto (1908-1909) si trova all'incrocio tra post-romanticismo tedesco e la scoperta di Debussy, il secondo (1916-1917) si avvicina all'espressionismo e evidenzia i prim risultati degli studi di Bartók sul canto popolare ungherese; Il terzo quartetto (1927) trae in qualche modo ispirazione dalla Suite Lirica di Alban Berg e rappresenta un passo avanti in termini compositivi, come delle tecniche e degli effetti impiegati: i cosiddetti col legno, sulla tastiera, glissando, pizzicato, martellato. Il quarto quartetto del 1928 spinge più avanti alcuni elementi già presenti nel precedente e trova una struttura particolare con cinque movimenti disposti in modo simmetrico e concentrico. Il quinto quartetto del 1934, che vede un riavvicinamento alla tonalità ed è strutturato ancora in forma concentrica, raggiunge vette di straordinaria perfezione artistica. L'ultimo quartetto del 1939, fu una delle ultime opere composte da Bartók prima di lasciare l'Europa per gli Stati Uniti e riflette il dramma personale del compositore, costretto a lasciare la sua terra in quegli anni bui. Anche qui la struttura è innovativa, con i quattro movimenti introdotti sempre da un Mesto.

    Inutile dire che il quartetto Diotima dimostra un magistrale dominio della partitura così ricca di difficoltà tecniche e interpretative. I quattro musicisti si dimostrano pienamente a proprio agio in questo percorso in cui si incrociano linguaggi, influenze e momenti storici diversissimi. Ho trovato la lettura del Diotima da un lato analitica e in grado di dipanare un linguaggio così denso e a tratti aspro in modo estremamente nitido, dall'altro incredibilmente intensa e avvincente. Non è scontato rendere accessibile una materia sonora così complessa e densa, a tratti cerebrale, sicuramente lontana anni luce dai modelli romantici e preromantici, ma anche, mi viene da pensare, dai quartetti praticamente coevi di Prokofiev.
    Va notato che la qualità della registrazione è impeccabile e rende giustizia alla bravura dei Diotima. Il suono è straordinariamente presente, arioso e terso, permettendo di sentire con grande chiarezza tutti gli effetti tecnici impiegati dai quattro musicisti.

  5. happygiraffe
    Tchaikovsky, Trio per pianoforte Op.50 TH 117
    Babajanian, Trio in fa diesisi minore
    Schnitke, Tango (Arr.Sudbin)
    Vadim Gluzman, violino; Johannes Moser, violoncello; Yevgeny Sudbin, pianoforte.
    BIS, 2020
    ***
    Ammettiamolo, Il Trio per pianoforte di Tchaikovsky, piatto forte di questo disco, è un’opera che speso risulta di difficile esecuzione, e spesso anche di difficile ascolto, per la sua lunghezza (48 minuti in questa edizione), per la sua particolare struttura bipartita, per il bilanciamento tra i tre strumenti e per il rischio di scivolare in una lettura eccessivamente enfatica e retorica.
    I tre interpreti di questo disco, gli ottimi Vadim Gluzman al violino, Johannes Moser al violoncello e Yevgeny Sudbin al pianoforte, riescono nel miracolo di restituirci tutta la poesia e lo slancio di questo Trio, convincendo nella maniera in cui riescono a tenere insieme i due movimenti, senza operare tagli (come fecero altri illustri predecessori) e raggiungendo un perfetto amalgama delle voci dei tre strumenti.
    Sudbin con il suo tocco leggero e articolato e una gamma timbrica incredibile, in cui si fondono alla perfezione lo Stradivari di Gluzman e il Guarnieri di Moser, riesce a dare coesione alla struttura così variegata, senza soffocare gli altri due strumenti con una partitura in effetti eccessivamente sbilanciata verso il pianoforte.
    Interessante e personale il secondo pezzo del disco, il Trio del compositore armeno Arno Babajanian del 1952. Ci sono echi di Shostakovich e Kachaturian, ma onestamente dopo il romanticismo di Tchaikovsky ho fatto fatica a passare a questa opera composta 70 anni dopo in un contesto molto diverso. Probabilmente altri accoppiamenti sarebbero stati migliori.
    Chiude il disco come una sorta di bis la trascrizione dello stesso Sudbin di un Tango di Schnitke composto nel 1974 per due violini, orchestra d’archi e clavicembalo.
    In sintesi un disco da avere per la magnifica interpretazione del Trio di Tchaikovsky, che nelle ultime settimane ho ascoltato e riascoltato innumerevoli volte.
    Ottimo il lavoro degli ingegneri del suono della BIS, che ci rendono un’immagine equilibrata e omogenea, con i tre strumenti sempre in rilievo.
  6. happygiraffe
    Mieczysław Weinberg (1919-1996): Tre pezzi per violino e pianoforte, Trio per pianoforte Op. 24, Sonata per violino e pianoforte n.5 Op.136bis.
    Gidon Kremer (violino), Yulianna Avdeeva (pianoforte), Giedre Dirvanauskaite (violoncello).
    DG 2019
    ***
    Il violinista lettone Gidon Kremer sembra ormai completamente ossessionato dal compositore polacco Mieczysław Weinberg, tanto da poter essere ormai a buon diritto considerato un vero e proprio paladino della sua opera. 
    Il disco di cui parliamo segue infatti questo del 2019:

    e questo, sempre del 2019 e osannato dalla critica:

    e poi questo del 2017:

    e prima ancora questo disco del 2014:

    Una vera e propria ossessione, dicevamo, per un compositore che morì nel 1996 e che solo da pochi anni è uscito dall'oblio. Weinberg ebbe davvero una vita molto travagliata: nato in Polonia nel 1919, per sfuggire dai nazisti scappò prima a Minsk, poi in Uzbekistan e infine si rifugiò a Mosca, grazie all'aiuto dell'amico Shostakovich. Ma i suoi guai non erano finiti: nel 1949 le sue opere finirono nella lista nere dell'URSS delle creazioni artistiche tacciate di "formalismo" e nel 1953 venne addirittura arrestato. Fu solo con la morte di Stalin e l'intercessione di Shostakovich che Weinberg venne finalmente riabilitato, rimanendo tuttavia per il resto della sua vita (morì nel 1996) ai margini della vita culturale sovietica e componendo principalmente per il cinema, il teatro e la televisione.
    Fu un compositore molto prolifico, autore di ben 22 sinfonie, 17 quartetti, sinfonie da camera, 6 sonate per pianoforte, 8 per violino e 6 per violoncello.
    In questi ultimi anni stiamo assistendo a una vera e propria riscoperta di un compositore davvero meritevole di maggiore attenzione. Pur con alti e bassi il suo reperorio contiene vere e proprie gemme, come il quintetto per pianoforte o il trio Op.24 (1945) contenuto in questo disco. Si sente l'influsso di Shostakovich, ma il linguaggio di Weinberg è personale e sa catturare l'ascoltatore con la sua potenza espressiva. Molto bella e intensa anche la sesta sonata per violino e pianoforte, composta quasi quattro decadi più tardi, nel 1982. Più giovanili e acerbi i Tre pezzi per violino e pianoforte, composti a 15 anni, e che si ispirano chiaramente a Szymanowski.
    Straordinari i tre interpreti, Yulianna Avdeeva al pianoforte, Giedré Dirvanauskaité al violoncello (già collaboratrice di Kremer nella Kremerata Baltica), guidate dal veterano Gidon Kremer.
    Straordinaria anche il lavoro svolto dagli ingegneri della Deutsche Grammophon, che sono riusciti a metterci davanti i tre strumenti con un realismo impressionante. Dinamica ampia, gamma timbrica raffinata, ottima immagine e amalgama tra gli strumenti.
    Un disco che raccomando caldamente e che ripaga ampiamente gli sforzi dei tre interpreti di portare la nostra attenzione su un compositore del '900 che avrebbe meritato maggiore fortuna.

    Gidon Kremer e Giedré Dirvanauskaité 

    Yulianna Avdeeva
  7. happygiraffe
    Beethoven, sonate per pianoforte Opp.109, 110 e 111.
    Steven Osborne, pianoforte.
    Hyperion, 2019.
    ***
    Steven Osborne ritorna alle ultime sonate di Beethoven, dopo il bel disco del 2016 in cui ci regalava una viscerale interpretazione dell’Hammerklavier. Qui troviamo le celeberrime ultime tre sonate (Opp.109, 110 e 111), cavallo di battaglia di tanti grandissimi pianisti.

    Lo scozzese è un ottimo musicista, con alle spalle una solida e invidiabile discografia, ma in questo disco penso che raggiunga uno dei punti più alti della sua carriera.
    E’ sorprendente la sua capacità di ridare vita alla partitura. Lo fa con naturalezza, energia, freschezza, intensità, attenzione al dettaglio e visione d’insieme allo stesso tempo.
    Si potrebbero fare mille confronti con i grandi del passato, così come con le interpretazioni più recenti. Mi vengono in mente tra queste ultime quelle di Igor Levit, Jean-Efflam Bavouzet e Jonathan Bliss, non mancano certo le versioni di riferimento e tante registrazioni memorabili, ma questo disco ha davvero quel qualcosa di magico che caratterizza il raggiungimento di una maturità artistica e di uno stato di grazia, che per nostra fortuna è stato impresso su disco.
    Forse è l'Op.110 il momento più alto di questo disco, senza nulla togliere alla 109 e alla 111. Ogni sonata è in ogni caso perfettamente caratterizzata e distinta dalle altre. Sono letture che amano esaltare i contrasti tra i momenti di grande delicatezza e profondità e quelli invece più violenti e esplosivi, riuscendo comunque a mantenere l'equilibrio tra gli estremi.
    Gli ingegneri del suono di Hyperion rendono fortunatamente onore alle qualità del pianista e dello strumento.
    E' un disco che ho ascoltato e riascoltato più volte negli ultimi mesi e mi sono ormai convinto che Steven Osborne ci abbia offerto una registrazione straordinaria, probabilmente una delle sue più riuscite, che si va ad aggiungere alle migliori dell'imponente catalogo delle ultime sonate del genio di Bonn.
    Consigliatissimo.
     
  8. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    Franz Schubert:
    - 4 Impromptus, op. 90, D. 899 
    - Piano Sonata No. 19 in C minor, D. 958
    - 3 Klavierstucke, D. 946
    - Piano Sonata No. 20 in A major, D. 959
    ECM 2019
    ***
    Questo disco, da poco uscito per ECM, ma in realtà inciso nel 2016, segue quest'altro disco del 2015, in cui András Schiff riprendeva un repertorio che aveva già registrato nella prima metà degli anni '90 fa per Decca, utilizzando questa volta uno strumento d'epoca:

    Franz Schubert:
    - Sonata Op.78, D. 894 
    - Moments musicaux, Op.94, D. 780
    - 4 Impromptus, Op.142, D. 935
    - Sonata No.21, D. 960
    ECM 2015
    I due album si completano perfettamente, per repertorio e scelte interpretative: le ultime tre sonate per pianoforte e la D.894, i Moments musicaux, i due cicli degli improvvisi e i 3 pezzi D.946, tutti eseguiti al fortepiano.
    Interessante la storia dello strumento che sentiamo in questi dischi. Bisogna sapere che negli anni in cui visse Schubert, c'erano circa un centinaio di fabbricanti di fortepiano a Vienna. Questo strumento fu realizzato nel 1820 da Franz Brodmann, fratello del più noto Joseph, che un giorno dovette vendere la sua attività a un suo allievo, che di nome faceva Ignaz Bösendorfer! 
    Il fortepiano entrò in possesso della famiglia imperiale e ne seguì il destino fino all'esilio di Carlo I in Svizzera nel 1919. Fu restaurato nel 1965 e acquistato nel 2010 da Schiff, che lo ha lasciato in prestito presso la casa di Beethoven a Bonn.
    Nelle note di copertina del disco del 2015 era lo stesso Schiff che ci raccontava di quanto il suo approccio alla musica eseguita con strumenti d'epoca fosse cambiato nel corso del tempo a partire dai primi anni '80. Era agli inizi affascinato dagli aspetti legati alla filologia e dalla fedeltà al testo scritto, ma ostile ai dogmatismi dei puristi, anche perché spesso le incisioni di quei tempi erano di qualità discutibile per via sia degli strumenti impiegati che degli interpreti.
    La rivelazione per Schiff fu l'aver suonato il fortepiano di Mozart nella sua casa di Salisburgo: la definisce un'esperienza che gli ha cambiato la vita! 
    I pianoforti moderni da concerto sono infatti strumenti pensati per "proiettare" il suono in sale da concerto da migliaia di posti, con una dinamica e una brillantezza di suono impensabili all'epoca di Schubert. La musica di Schubert era suonata nei salotti borghesi, agli amici, in ambienti relativamente piccoli e così un fortepiano dell'epoca ha una gamma dinamica ridotta, diciamo dal pianissimo al forte. Per questo motivo le composizioni per pianoforte di Schubert, pensate per quegli strumenti, sono tanto difficili da rendere con gli strumenti moderni, che rischiano di soffocarne la dolcezza.
    Il Brodmann di Schiff, nelle sue mani, invece, si muove a meraviglia tra queste pagine, regalandoci una gamma di timbri, di effetti e di sfumature tra il ppp e il forte che hanno qualcosa di magico. E' uno strumento particolare con quattro pedali, cosa non inusuale a quei tempi, uno dei quali, detto "moderatore", che frappone un panno tra martelletti e corde (un po' come la sordina dei pianoforti verticali) e permette di ottenere un suono molto tenue e dolce. Ma ci sono altre cose che stupiscono, come la cantabilità della mano destra o come i diversi timbri dei tre registri (alti, medi e gravi hanno caratteri diversi) si fondano insieme. E attenzione, perché quando serve il Brodmann è capace di tirar fuori gli artigli anche nei passaggi più forti e energici.
    Il confronto con le interpretazioni degli anni '90 lasciano un po' interdetti: se quelle erano certamente molto belle, ma anche per certi versi anche un po' accademiche, qui invece quello che ci regala Schiff è un universo sonoro più vivo, palpitante e anche più vivace, pur nel consueto understatement del pianista ungherese.
    Non basta uno strumento d'epoca, per quanto magnifico come quello utilizzato qui, per far una bella interpretazione, occorre anche un pianista all'altezza e qui Schiff ci mette tanto del suo. Sicuramente è vero che conosce perfettamente il suo strumento e sa come domarlo e trarne il massimo, ma, al di là dell'aspetto tecnico, qui il pianista ci mette tantissima passione e la facilità con cui ci conduce tra le pieghe più intime dei pensieri del compositore è sicuramente il frutto di una lunga maturazione e di un profondo amore per queste pagine. 
    Schiff ci dice che non smetterà di suonare Schubert su strumenti moderni, cosa in fondo necessaria dovendo per mestiere suonare in grandi auditorium, ma la dolcezza del suono di un fortepiano viennese  sarà sempre ben presente nella sua mente, per provare a suggerire l'illusione dell'intimità anche in una  sala da concerto.
    Noi continueremo a seguire András Schiff nelle sue esplorazioni con strumenti nuovi e d'epoca, così come ci piace seguire un altro pianista con la stessa grande passione per pianoforti antichi e moderni, Alexander Melnikov, di cui abbiamo già parlato diverse volte su queste pagine.
    Per il momento vi invitiamo senza esitazione ad abbandonarvi al fascino di questo disco, senza lasciarvi intimorire dal suono particolare del fortepiano.
     
  9. happygiraffe
    Henri Dutilleux (1916-2013):
    - Sonate pour piano (1947–48)
    - 3 Préludes (1973-1988)
    - Mini prélude en éventail (1987)
    Pierre Boulez (1925-2016):
    - Notations (1945)
    - Une page d'éphéméride (2005)
    Olivier Messiaen (1908-1992): 
    - La Fauvette Passerinette (1953)
    - Prélude (1964)
    Alexander Soares, pianoforte.
    Rubicon 2019
    ***
    Che sorpresa questo disco di debutto del pianista inglese Alexander Soares! Anziché propinarci il solito repertorio da battaglia ottocentesco, Soares ha messo insieme un programma tutto novecentesco e tutto francese con lavori di Dutilleux, Boulez e Messiaen, tre autori molto distanti per quanto riguarda le scelte compositive, ma in qualche modo legati da un'origine, in senso ampio, comune.
    Il disco si apre con la straordinaria sonata per pianoforte di Dutilleux, probabilmente uno dei lavori più interessanti per pianoforte composti nel secondo dopoguerra (fu pubblicata nel 1948). Nonostante siano evidenti gli influssi di Debussy e Ravel, ma anche Bartòk e Prokofiev, questa sonata mantiene un linguaggio proprio e molto originale.
    Molto diverso da quello della sonata invece il linguaggio usato nei tre Préludes e nel Mini prélude en éventail, composti 3-4 decadi dopo, ma comunque molto interessanti.
    Si passa poi alle Notations di Pierre Boulez. Composte nel 1945, si tratta di 12 brevi brani di 12 battute su una serie di 12 note! Nonostante lo stile seriale e il compositore stesso possano mettere paura, si tratta di una composizione di grande fascino e probabilmente una delle più "ascoltabili" del compositore e direttore francese (i suoi fan mi perdoneranno!), diversamente dalla page d'éphémeride del 2005, che nel disco viene dopo le Notations, che mi lascia piuttosto freddo.
    Chiudono il disco la Fauvette Passerinette di Messiaen del 1953, opera riportata alla luce da Peter Hill nel 2012 (probabilmente pensata per il Catalogue d'oiseaux) e un breve Prélude del 1964.
    Alexander Soares dice di avere una grande affinità per questo tipo di repertorio, affinità che riesce a trasformare in un'interpretazione assolutamente convincente, resa con intensità, lucidità e coerenza.
    Guardando su internet ho trovato una video di qualche tempo fa in cui Soares promuoveva una raccolta fondi per permettergli di realizzare questo suo disco di debutto. Sono contento che i suoi sforzi abbiano avuto successo e che il disco abbia ricevuto un meritatissimo Editor's Choice della rivista Gramophone. Assolutamente meritato!
  10. happygiraffe
    Franz Liszt
    Années de Pèlerinage. Deuxième Année - Italie, S161/R10b
    Légende, S.175: No. 1, St François d'Assise (La prédication aux oiseaux)
    Francesco Piemontesi, pianoforte
    Orfeo 2019
    ***
    Esce per Orfeo anche il secondo volume delle Années de pèlerinage di Liszt, dopo il primo, pubblicato nel 2018.
    Composti durante un viaggio in Italia tra il 1838 e il 1839, questi sette brani traggono ispirazioni dalle arti figurative (come la tela di Raffaello "Lo sposalizio della Vergine" e la statua scolpita da Michelangelo per la tomba di Giuliano de' Medici), così come da opere letterarie (tre sonetti del Petrarca e la Divina Commedia di Dante). Rispetto al primo anno delle Années, l'elemento naturalistico qui è completamente scomparso. Il linguaggio musicale si fa più denso e articolato e richiede all'ascoltatore una maggiore partecipazione e predisposizione.
    Piemontesi dimostra anche in questa seconda raccolta un grande sintonia con queste pagine. Il pianista svizzero predilige sempre l'aspetto della narrazione, quieta e intimista, su quello virtuosistico, che pure è sempre presente in Liszt, ma che qui non è mai protagonista. Forse, se proprio vogliamo muovere un piccolo appunto, questo approccio interpretativo a volte può sembrare anche eccessivamente bilanciato e controllato, ma qui rientriamo nell'ambito delle preferenze personali. Quello che è certo è che Piemontesi rivela ancora una volta una maturità artistica e un dominio tecnico straordinari!
    Notevole anche la qualità della registrazione (che ho ascoltato in formato liquido 96/24), realizzata a Lugano nell'Auditorium Stelio Molo della RSI. Il pianoforte è reso in maniera assolutamente realistica in tutto lo spettro, con un'immagine ben centrata e coerente.
    A questo punto non ci resta che aspettare il terzo volume delle Années!
  11. happygiraffe
    Franz Schubert, sonate per pianoforte D.959, D.959, D.960.
    Francesco Piemontesi, pianoforte.
    PentaTone 2019
    ***
    In quest’ultimo anno non sono mancate le registrazioni interessanti dedicate alle ultime sonate di Schubert: dall’affascinante lettura di Schiff su fortepiano (qui), alla tormentata versione di Lonquich (qui accostato alla melliflua e meno convincente Buniatishvili), per finire con la prova iper-raffinata di Volodos (qui).
    Ora anche il talentuoso pianista ticinese Francesco Piemontesi si mette alla prova con la triade delle ultime sonate, dopo gli ultimi dischi dedicati ai primi due libri delle Années de Pèlerinage.
    Come abbiamo già avuto modo di scrivere riguardo al suo Liszt, Piemontesi è un pianista che sembra aver raggiunto in questi anni uno stato di grazia, sia dal punto di vista tecnico che interpretativo e questo Schubert ne è una conferma.
    Ritroviamo qui il Piemontesi grande narratore che avevamo conosciuto in Liszt: ci accompagna con estrema naturalezza nei solitari paesaggi musicali dell’ultimo Schubert, passando dalla quiete alla sommessa disperazione, dall’intima palpitazione dei passaggi più scherzosi allo sconforto più drammatico. Lo fa con grande finezza e eleganza, rendendosi completamente invisibile e totalmente al servizio della musica.
    E nonostante le “celestiali lunghezze” di Schubert possano spesso indurre torpore, non è fortunatamente il caso qui. Piemontesi riesce a rendere l’architettura dell’opera nella sua complessità e al tempo stesso la cura del dettaglio, con una capacità di controllo magistrale.
    Siamo ancora una volta di fronte a un disco importante di un artista solido e maturo, che entra di buon diritto tra i miei riferimenti degli ultimi anni.
    Notevole anche la qualità della registrazione (che ho ascoltato in formato liquido 96/24), realizzata nella bella acustica della Salle de musique a La  Chaux-de-Fonds in Svizzera. Il pianoforte è reso in maniera assolutamente realistica in tutto lo spettro, con timbri caldi e rotondi e un'immagine ben centrata e coerente.

  12. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    Beethoven, sonate per pianoforte Op.54 e Op.78.
    Rachmaninov, sonata per pianoforte N.2 Op.36.
    Ivo Pogorelich, pianoforte.
    Sony Classical, 2019
    ***
     
    Un disco di Pogorelich dopo più di 20 dall’ultimo? Pubblicato da Sony Classical?? Caspita,  deve essere una roba seria, mi sono detto. Il ritorno in grande stile di Pogorelich, controverso pianista croato, molto famoso  tra gli anni ’80 e ’90, conosciuto per i suoi atteggiamenti anticonformisti e per le sue interpretazioni a cavallo tra il geniale, l’eccentrico e il provocatorio, poi progressivamente scomparso dalla scena discografica e dai circuiti concertistici più importanti.

    Ebbene cos’avrà di nuovo da dirci oggi Ivo Pogorelich, arrivato ai 60 anni?
    Il programma del disco è piuttosto inconsueto e accosta due deliziose sonate di Beethoven, Op.54 e Op.78, alla poderosa seconda sonata di Rachmaninov nella prima versione del 1913.
    L’ascolto, ahimè, è stato sconcertante, per non dire decisamente irritante. 
    Dinamica, tempi, ritmo, tutti strapazzati, dall'inizio alla fine, senza pietà. A volte si fa addirittura fatica a riconoscere la musica o a seguire la linea melodica. E attenzione che qui non stiamo disquisendo di dove sia il punto di equilibrio tra il rispetto della pagina scritta e la libertà dell’interprete, qui siamo ben oltre: qui siamo alla totale mancanza di rispetto per l’ascoltatore (per non parlare del compositore) da parte di un artista evidentemente sopraffatto da un ego ingombrante e non più affiancato dal genio di un tempo, quasi volesse dirci “eccomi sono ancora il grande Pogorelich, anticonformista per contratto, posso permettermi quello che voglio!”.
    Non è certo il croato l’unico artista per così dire eccentrico in circolazione. Prendiamo ad esempio la violinista Patricia Kopatchinskaja, conosciuta per le sue interpretazioni fuori dai canoni. Quando la ascoltiamo suonare, al di là della sua prorompente individualità, percepiamo passione, vitalità, un amore sconfinato per la musica che sta suonando, sentiamo che Patricia ci sta comunicando qualcosa. Tutte cose, invece, tristemente assenti da questo ultimo disco del pianista croato.
    Ma sono certo che come un tempo Pogorelich divideva i pareri di chi l’ascoltava, così anche oggi ci sarà chi griderà con entusiasmo al ritorno del genio croato.
    Per me invece è semplicemente un peccato vedere tanto talento gettato alle ortiche, ma me ne faccio una ragione, metto il disco da parte e guardo altrove. Per fortuna nella discografia non mancano interpretazioni straordinarie di queste composizioni e nel panorama pianistico attuale non mancano artisti seri, di grande talento e che abbiano qualcosa da dirci.
    Una nota sulla qualità dell’incisione, assolutamente lontana dagli standard molto elevati ai quali l’etichetta giapponese ci ha abituato.
    Insomma, un disco da dimenticare velocemente
  13. happygiraffe
    Franz Schubert: sonata per pianoforte D. 959, minuetti D.334, D.335, D.600.
    Arcadi Volodos, pianoforte.
    Sony Classical 2019.
    ***
    Arcadi Volodos è uno dei migliori pianisti in circolazione per tecnica e sensibilità. Incide di rado, ma quando lo fa lascia il segno, come fu il caso nel 2017 con un disco straordinario dedicato a Brahms o nel 2013 con un album dedicato a Mompou, senza dimenticare lo splendido disco live a Vienna di qualche anno prima.

    n questo disco ci propone come piatto forte la sonata D. 959 di Schubert, accompagnata da tre minuetti (D.334, D.335, D.600).
    Volodos suona la 959 incredibilmente bene: ogni nota, ogni frase, ogni accento sono perfettamente resi e calibrati. Si sente che ci sono dietro anni di studio approfondito. L'Andantino del secondo movimento è qualcosa di commovente per la bellezza del timbro e la profondità dell'interpretazione. Tuttavia...sì, purtroppo c'è un tuttavia...tuttavia, dicevamo, è talmente bello assaporare voluttuosamente ogni nota, ogni impercettibile cambiamento di dinamica o di espressione, che forse si perde di vista il quadro d'insieme. La sensazione è quella di un lavoro iper-interpretato, per carità meravigliosamente bene, però a scapito di un po' di freschezza e spontaneità, che probailmente sarà più facile trovare nelle sue esecuzioni dal vivo.
    Siamo agli antipodi rispetto alla lettura aspra e spiazzante di Lonquich, ma anche da quella più lineare e diretta di Piemontesi, che ha dalla sua un gran senso dell'architettura del brano.
    Questa tendenza alla cura massima del dettaglio viene portata agli estremi nei tre graziosi minuetti che completano il disco. Gamma timbrica da capogiro, tempi un po' rilassati, stiamo assistendo ad un vero e proprio esercizio di stile, tanto da risultare quasi stucchevole una volta passata l'ammirazione per il gesto tecnico.

    In conclusione, questo disco, per quanto bello, soprattutto nella prima parte, mi ha lasciato un po' l'amaro in bocca. Pur rimanendo immutata l'ammirazione per le capacità di Volodos, da un artista del suo calibro mi aspetto sempre qualcosa in più (Ma per lui l'asticella è davvero alta!). 

  14. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    "The Diabelli Project", musiche di Beethoven e molti altri.
    Rudolf Buchbinder, pianoforte.
    DG, 2020.
    ****
    Veterano del circuito pianistico internazionale, Rudolf Buchbinder è un grandissimo esperto del repertorio classico viennese e tedesco e specialmente della musica di Beethoven. Nel corso degli anni ha inciso varie integrali delle sonate, dei concerti e indiscutibilmente ha un rapporto molto stretto con le celebri variazioni Diabelli.
    Conoscete probabilmente la storia di queste variazioni. Anton Diabelli, compositore, pianista e soprattutto editore (fu il primo editore di Schubert), nel 1819 ebbe questa trovata, che oggi definiremmo di marketing, di chiedere a diversi compositori dell’epoca di scrivere una variazione su un suo breve valzer (assai mediocre, in verità). Risposero tantissimi musicisti, la maggior parte dei quali oggi completamente dimenticati, ma tra di essi troviamo anche nomi noti come Schubert, Moscheles, Hummel, Czerny e un giovanissimo Liszt. 
    Beethoven, inizialmente poco interessato alla proposta di Diabelli, cambiò ben presto idea e nell’arco di quattro anni compose un lavoro monumentale costituito da ben 33 variazioni sul tema originale di Diabelli. Fu una delle sue ultime composizioni per pianoforte e, insieme alle ultime 5 sonate, un vero e proprio lascito alle successive generazioni di pianisti e compositori. 
    Il buon Diabelli decise di pubblicare in due volumi tutti i contributi ricevuti: il primo con le variazioni di 50 diversi compositori (tra i quali anche l’Arciduca Rodolfo, compositore dilettante) e il secondo con il lavoro di Beethoven. Poteva ben dirsi soddisfatto il nostro editore austriaco!
    Ma torniamo al nostro disco, intitolato “The Diabelli Project”, il progetto Diabelli. 
    Buchbinder ritorna a incidere quest’opera monumentale dopo averla portata in concerto per diversi decenni, ma non si ferma qui. Il pianista austriaco fu anche il primo ad aver registrato tutto il primo libro di variazioni, quello ormai (giustamente) dimenticato contenente i lavori degli altri compositori. Per l’occasione ne riprende una manciata, otto per la precisione, che propone in chiusura di disco. Ma Buchbinder nel suo omaggio al progetto originario di Diabelli va oltre e prova a renderlo più attuale, chiedendo a 12 compositori contemporanei, di generazioni e provenienze diverse, di scrivere la loro variazione sul tema di Diabelli: Krzysztof Penderecki (*1933), Rodion Shchedrin (*1932), Brett Dean (*1961), Max Richter (*1966), Jörg Widmann (*1973),  Toshio Hosokawa (*1955), Lera Auerbach (*1973), Brad Lubman (*1962), Philippe Manoury (*1952), Johannes Maria Staud (*1974), Tan Dun (*1957), Christian Jost (*1963). In questo disco ne ripropone undici (manca la variazione di Penderecki, per ragioni che ignoro).
    Chiaramente l’ascolto si divide in tre parti. Nella prima il pianista austriaco esegue le famose variazioni Diabelli di Beethoven, rivelandoci tutta la sua arte e la sua consumata esperienza con queste pagine, con le quali ha ormai un rapporto di intima affinità. L’ho trovata un'ottima esecuzione che mi ha fatto conoscere un Buchbinder diverso da quello che ricordavo.
    Nelle variazioni moderne, che occupano la parte centrale del disco, si riconoscono stili diversi e modi diversi di affrontare questo “compito”. Alcune mi sono piaciute, altre meno, ma ho certamente apprezzato l’idea di attualizzare l’intuizione di Diabelli e di mischiare tradizione e innovazione.
    L’ultima parte del disco con una manciata di variazioni dei contemporanei di Beethoven, riporta i lavori di Johann Nepomuk Hummel, Frédéric Kalkbrenner, Conradin Kreutzer, Franz Liszt, che nel 1819 aveva 8 anni, Ignaz Moscheles, Franz Xaver Wolfgang Mozart, figlio del più famoso genitore, Franz Schubert e Carl Czerny. Sono probabilmente i compositori più significativi tra i cinquanta del primo volume di variazioni, detto questo, oggi queste pagine sono poco più di una curiosità.
    In conclusione, non posso che raccomandarvi questo disco, che rappresenta fin qui una delle proposte più interessanti e originali nel 250° anniversario della nascita di Beethoven!
  15. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    Le Six et Satie. Musiche di Auric, Durey, Honegger, Milhaud, Poulenc, Tailleferre e Satie.
    Pascal e Ami Rogé, pianoforte.
    Onyx Classics 2020.
    ***
    Nel tripudio discografico di celebrazioni del 250 anniversario di Beethoven, un po’ di musica francese giunge come una boccata di aria fresca. E quale musica più anti-germanica potrebbe esserci se non quella del cosiddetto Gruppo dei Sei, musica nata alla fine della grande guerra, sulla spinta dell’antagonismo bellico e di sentimenti nazionalistici, in antitesi alla pesantezza teutonica di Wagner.
    I compositori in questione sono Darius Milhaud, Arthur Honegger, Francis Poulenc, Germaine Tailleferre, Georges Auric e Louis Durey che, sotto l’influsso di Satie e Cocteau, ebbero un momento di coesione intorno al 1920, quando un critico musicale creò per loro la definizione di “Gruppo dei Sei”, sulla scia del russo “Gruppo dei Cinque”. In realtà questa vicinanza fu effimera e ognuno di loro seguì poi la propria strada, com’è normale.
    Se il rifiuto della tradizione tedesca è evidente, il tentativo di scrollarsi di dosso l’impressionismo di Debussy fu solo apparente: evidenti sono i numerosi riferimenti allo stile del grande compositore francese, pur sotto un abito ormai molto diverso.
    E’ musica per lo più disimpegnata, spesso scherzosa e brillante, divertente da ascoltare, nazionalista sì, ma al tempo stesso aperta a tutte le influenze musicali che attraversarono Parigi in quegli anni.
    Ascoltandola oggi stupisce per la sua modernità e viene quasi da dire che questa musica è invecchiata molto meglio di quella di tanti compositori venuti dopo.
    Pascal Rogé, qui accompagnato dalla moglie Ami, è un pianista straordinario, sicuramente uno dei migliori nel rendere al meglio il repertorio francese (ricordo una bellissima integrale di Poulenc e tanti altri bei dischi). Negli ultimi anni ha inciso spesso in coppia con la moglie con ottimi risultati.
    Un disco che mi ha regalato degli autentici momenti di buonumore (cosa rara di questi tempi) e che mi sento di consigliare anche a chi ha poca familiarità con questo repertorio.
  16. happygiraffe
    Mi è capitato di ascoltare negli stessi giorni due dischi dedicati a Schubert di due artisti molto diversi tra loro e così ho deciso di farli salire sul ring per una sfida all'ultima nota.
    Signore e signori, preparatevi a un incontro senza pari. Da un lato l'esuberante georgiana Khatia Buniatishvili, classe 1987, dall'altro lo schivo pianista tedesco Alexander Lonquich, classe 1960.
    Partiamo dalla veste grafica.
    Khatia si presenta come una novella Ophelia, vestita di bianco e semi-annegata in acque torbide:

    Se da un lato vien da pensare al celebre Lied "La morte e la fanciulla", visivamente questa immagine richiama la celebre Ophelia del pittore preraffaellita John Everett Millais:

    Passiamo alla copertina del disco di Lonquich, dove ci appare un primo piano del pianista con gli occhi chiusi, di tre quarti, in penombra, con uno sfondo nero:

    Per una strana associazione della mia mente stramba, a me questa immagine ha fatto venire in mente il Kurtz di Marlon Brando in Apocalypse Now di Coppola:

    Per fortuna, appena aperto il libretto Lonquich ci appare in un ritratto vagamente più rassicurante con gli occhi aperti:

    Dovendo scegliere tra le due, la mia preferenza va a Khatia, per aver avuto il coraggio di posare nell'acqua gelida pur di realizzare questa copertina 
    Copertina: Khatia Vs Alexander 1-0.
    Passiamo ora ai programmi dei due dischi:
    Khatia Buniatishvili esegue di Franz Schubert:
    - Sonata per pianoforte N.21 D.960
    - 4 Improvvisi Op.90, D.899
    - Ständchen, trascrizione di Franz Liszt S. 560/7 dal Lied D.957/4
    Alexander Lonquich invece esegue di Franz Schubert:
    - Sonata per pianoforte N.19 D.958
    - Sonata per pianoforte N.20 D.959
    - Sonata per pianoforte N.21 D.960
    - 3 Klavierstucke D.946
    Il disco si intitola 1828, anno in cui furono composte queste opere e anno in cui morì il giovane Franz.
    Decisamente più denso e impegnativo il programma presentato da Lonquich.
    Voto sul programma: Khatia Vs Alexander 0-1.
    Proseguiamo e andiamo a leggerci i libretti che accompagnano i due dischi.
    Cominciamo da quello della Buniatishvili.
    Al di là di altri due ritratti della giovane georgiana sempre immersa nelle stesse acque fredde e torbide della copertina, il libretto ci stupisce per un breve saggio della stessa pianista intitolato "Note di una femminista", dove ci parla del lato femminile, della vulnerabilità e della grande sensibilità di Schubert. Rimango un po' perplesso e rimango in ogni caso convinto che il femminismo sia una cosa ben diversa da quanto ci dice Khatia.
    Passo al libretto del disco di Lonquich, dove trovo un saggio anche in questo caso scritto dall'interprete stesso. Lonquich analizza le quattro opere in programma, fornendo spunti e rimandi molto interessanti. Davvero un'ottima lettura, che ci serve anche per capire le scelte interpretative.
    Anche per il libretto non c'è storia...
    Voto sul libretto: Khatia Vs Alexander 0-1.
    Passiamo ora alla parte più gustosa: il confronto tra le due interpretazioni.
    Le scelte dei due pianisti non potrebbero essere più diverse. In verità, ho trovato entrambi i dischi spiazzanti, ma per motivi opposti. 
    La lettura della Buniatishvili, che come sappiamo mira a esaltare l'aspetto femminile di Schubert, tende a restituirci un'atmosfera ovattata di calma assoluta, in cui ogni asperità appare smussata, ogni contrasto appiattito. Il rischio che corre è che le "celestiali lunghezze" di Schubert (come le aveva definite Schumann), diventino dei languidi momenti di torpore. La sonata D.960 scivola via con dolcezza, senza troppi sussulti, se non fosse per alcune repentine accelerazioni e decelerazioni, che spesso non sembrano giustificate. Anche i quattro improvvisi op.90 non lasciano il segno e confermano l'impressione di un'interpretazione che, nonostante le intenzioni, non vada mai in profondità.
    Ho trovato anche la lettura di Lonquich piuttosto spiazzante e ammetto di aver ascoltato il disco più volte prima di ritrovarmici. Il suo è uno Schubert molto diverso da quello al quale siamo abituati. Diciamo innanzitutto che Lonquich sembra non voler fare molto per compiacere l'ascoltatore: Il timbro è spesso spigoloso e duro, dimentichiamoci il suono morbido e raffinato di un Brendel o addirittura di Zimerman e lo Schubert intimo e consolatorio che ci ha tramandato la tradizione. Al contrario di Khatia, i contrasti vengono portati all'estremo e ogni piccola asperità della partitura viene enfatizzata, restituendoci uno Schubert tormentato, in cui la tensione drammatica viene amplificata nota per nota, creando un collegamento evidente con l'ultimo Beethoven. Si percepisce che quella di Lonquich è una visione maturata a lungo nel corso degli e che questa interpretazione è il frutto di un'analisi e di uno studio che hanno scavato a fondo la partitura. Il risultato può essere più o meno persuasivo (personalmente ho apprezzato di più la 958 e la 960 del resto del programma) e soprattutto può convincere o meno l'ascoltatore, abituato ad ascoltare uno Schubert generalmente molto diverso da questo, ma comunque penso che meriti un grande rispetto. 
    Dovendo scegliere tra le interpretazioni di Khatia e Alexander, anche qui non ho dubbi. La lettura di Lonquich, per quanto spiazzante e molto personale, lascia il segno e rimane impressa nella memoria. Quella di Khatia, non me ne voglia!, l'ho trovata acerba e superficiale.
    Voto sull'interpretazione: Khatia Vs Alexander 0-1.
    Un'ultima nota sulla qualità della registrazione dei due dischi. 
    Il pianoforte della Buniatishvili mostra un'enfasi eccessiva sul registro medio-basso, che appare gonfio  e riverberante, pur mantenendo una mano destra leggibile e chiara. Molto più omogeneo e limpido il suono del pianoforte di Lonquich, anche se un po' "asciutto", reso in ogni caso in maniera più realistica e convincente dagli ingegneri del suono dell'Alpha, che battono a sorpresa quelli di Sony.
    Voto sulla qualità della registrazione: Khatia Vs Alexander 0-1.
    Siamo arrivati alla fine della nostra sfida: Alexander Lonquich sconfigge senza troppa fatica Khatia Buniatishvili, con il punteggio finale di 4 a 1.

    Ci farebbe piacere vedere un pianista del calibro di Lonquich più presente sul mercato discografico e sicuramente ci fa piacere vedere che l'etichetta Alpha gli abbia permesso di realizzare questo disco.
     
    ***
     
    I due contendenti di questa sfida:
    Khatia Buniatishvili, Schubert.
    - Franz Schubert, Sonata per pianoforte N.21 D.960
    - Franz Schubert, 4 Improvvisi Op.90, D.899
    - Franz Schubert, Ständchen, trascrizione di Franz Liszt S. 560/7 dal Lied D.957/4
    Sony Classical, 2019.
    _____
    Alexander Lonquich, 1828.
    Franz Schubert:
    - Sonata per pianoforte N.19 D.958
    - Sonata per pianoforte N.20 D.959
    - Sonata per pianoforte N.21 D.960
    - 3 Klavierstucke D.946
    Alpha, 2018.
     
  17. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    Schubert, Fantasia “Wanderer” D 760 op. 15
    Berg, sonata per pianoforte op.1
    Liszt, sonata per pianoforte in Si minore S 178
    Seong-Jin Cho, pianoforte
    DG 2020
    ***
    Vincitore del Concorso Chopin nel 2015, il coreano Seong.Jin Cho è ormai un pianista affermato, con un contratto stabile con DG e ormai già qualche disco al suo attivo. Qui ci propone un programma tanto bello quanto impegnativo: la Fantasia Wanderer di Schubert, la sonata di Berg e quella di Liszt per concludere.
    Cho possiede una tecnica ineccepibile: un fraseggio elegante, una gamma timbrica sgargiante, un virtuosismo mai appariscente. 
    Il suo Schubert è di alto livello, tecnicamente immacolato, con un controllo e una resa dell’architettura del brano impeccabile. Tuttavia mi sento di dire che è convincente, ma non sconvolgente. Al giovane Cho manca ancora qualcosa. La sua Wanderer non ha l’impeto di un Richter, il furore di un Pollini, l’introspettiva complessità di un Brendel, la follia di un Sofronitsky. E’ come se ci fossero un controllo e una reticenza eccessivi, quando invece ci sarebbero voluti un po’ di rischio e di slancio in più.
    La bellissima sonata di Berg viene eseguita con una sensibilità straordinariamente acuta. È ben presente quel senso di inquietudine che in fondo la accomuna con le altre due opere di questo disco. Cho è in grado di rendere alla perfezione la filigrana dei vari piani sonori, le impennate e le decelerazioni della musica, con una palette timbrica di prim’ordine. Rispetto alla lettura di Pollini, che guarda avanti alla musica degli anni successivi, Cho ha un approccio più tradizionale.
    È la sonata di Liszt, che chiude il disco, il brano che mi ha convinto di più. Tutto il virtuosismo di Cho è al servizio della diabolica partitura del grande compositore ungherese e questa volta c’è anche quello slancio che finora ci era mancato. Certo è che non mancano le grandi interpretazioni di questa sonata ed è sempre difficile per un giovane pianista poter dire qualcosa di nuovo. Il risultato è comunque di tutto rispetto.
    Ripensando a questo disco nel suo complesso, mi sento assolutamente di consigliarlo. Mi rimane comunque l’impressione di trovarmi di fronte a un ottimo pianista dotato di grandissimi mezzi, ma che ancora deve trovare la sua strada dal punto di vista interpretativo, quella strada che gli permetterebbe di lasciare il segno. Se lo confrontiamo con i suoi quasi coetanei, non trovo né l’elettrizzante fantasia di Benjamin Grosvenor, né lo slancio e l’intellettualismo di Igor Levit o la felina naturalezza di Yuja Wang. Poco male, va bene anche così. Vorrò dire che il meglio deve ancora venire.
    Modificato 9 Maggio 2020 da Eusebius
  18. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    '900 Italia. Musiche per pianoforte di Busoni, Alaleona, Malipiero, Lupi, Savagnone, Berio, Cartiglioni, Mosso, Colla.
    Gialnuca Cascioli, pianoforte.
    DG 2019
    ***
    E' davvero interessante il progetto dedicato alla divulgazione del repertorio pianistico del '900 che il pianista e compositore italiano Gianluca Cascioli sta portando avanti da qualche anno.
    Il percorso che ci propone segue un ordine geografico: dopo un primo disco dedico ai paesi dell'Est, diciamo dell'ex Unione Sovietica (Russia, Ucraina, Estonia) e un secondo dedico all'area austro-tedesca, arriva ora questo terzo album dedicato all'Italia.


    Le copertine dei dischi precedenti.
     
    Sono nove i compositori rappresentati in questa antologia che comincia con Ferruccio Busoni (1866-1924) e termina con Alberto Colla, nato nel 1968, passando per una serie di compositori più o meno noti: Domenico Alaleona (1881-1928), Gian Francesco Malipiero (1882-1973), Roberto Lupi (1908-1971), Giuseppe Savagnone (1902-1984), Luciano Berio (1925-2003), Niccolò Castiglioni (1932-1996), Carlo Mosso (1931-1995).
    Ammetto senza vergogna che molti di questi nomi mi erano del tutto sconosciuti, ma non potrebbe essere diversamente, perché tolti Busoni, Malipiero, Berio e Castiglioni, i restanti sono decisamente poco rappresentati in discografia.
    L'ascolto è stato ad ogni modo piacevolmente interessante. Nel selezionare queste opere Cascioli sembra aver seguito il disegno preciso di conquistare l'ascoltatore con un repertorio che sia comprensibile e "ascoltabile" anche e soprattuto per i non specialisti, evitando le avanguardie più ostiche. E noi per questo lo ringraziamo! Apprezziamo molto di più un progetto come questo, che con intelligenza e entusiasmo prova a portare la musica del '900 a un pubblico più ampio, piuttosto che l'ennesima incisione dei 24 Preludi di Chopin.
    In sintesi, un disco sicuramente molto interessante che consiglio a chi abbia voglia di esplorare territori nuovi e autori poco conosciuti.
     
    Riporto per chi fosse interessato la tracklist:
    1 Busoni: 7 Elegien, BV 249 - 7. Berceuse
    2 Busoni: Sonatina No.4, BV 274 "in diem nativitatis Christi MCMXVII"
    3 Alaleona: La città fiorita, cinque "impronte" per pianoforte - 2. Crisantemo
    4 Malipiero: Risonanze - 1. Calmo
    5 Malipiero: Risonanze - 2. Fluido
    6 Malipiero: Risonanze - 3. Non troppo mosso
    7 Malipiero: Risonanze - 4. Agitato, non troppo
    8 Lupi: 6 Studi per pianoforte - 1. Vivo e fresco
    9 Lupi: 6 Studi per pianoforte - 2. Moderatamente mosso
    10 Lupi: 6 Studi per pianoforte - 3. Velocissimo
    11 Savagnone: Prisma armonico, Op. 22 - Preludio No. 1: Allegro
    12 Berio: 6 Encores - 3. Wasserklavier
    13 Castiglioni: Sonatina per pianoforte - 1. Andantino mosso assai dolcino
    14 Castiglioni: Sonatina per pianoforte - 2. Ländler. Allegro semplice
    15 Castiglioni: Sonatina per pianoforte - 3. Fughetta. Allegretto
    16 Mosso: Secondo quaderno per pianoforte
    17 Mosso: Pièce mécanique per pianoforte (in memoria di E.Satie)
    18 Mosso: 22 Preludi per pianoforte - No. 4 Canzone
    19 Mosso: 22 Preludi per pianoforte - No. 11 Allegretto vivo
    20 Mosso: 22 Preludi per pianoforte - No. 14 Allegro marziale
    21 Mosso: 22 Preludi per pianoforte - No. 18 Canzone di culla
    22 Mosso: 22 Preludi per pianoforte - No. 22 Molto allegro, volante
    23 Colla: Notturno IV "Moonbow"
    24 Colla: Notturno VII "Mosarc"
    25 Colla: Notturno IX "Rope bridge"
    26 Colla: Notturno X "Lunar Ephemeris"
  19. happygiraffe
    Arnold Schoenberg, Concerto per violino e orchestra, Verlkaerte Nacht.
    Isabelle Faust, violino.
    Swedish Radio Symphony Orchestra, Daniel Harding.
    Verlkaerte Nacht: Isabelle Faust e Anne Katharina Schreiber, violini, Antoine Tamestit e Danusha Waskiewicz, viole, Christian Poltéra e Jean-Guihen Queyras, violoncelli.
    Harmonia Mundi, 2020.
    ***
    La violinista tedesca Isabelle Faust è solita spaziare con facilità in un repertorio molto ampio che va da Bach alla musica del ‘900. Non sorprende quindi vederla ritornare alla seconda scuola di Vienna, dopo la bella incisione del concerto di Berg con Abbado del 2012, questa volta con un disco interamente dedicato a Schoenberg, contenente il concerto per violino e orchestra e Verklärte Nacht.

    Composto tra il 1934 e il 1936, negli anni travagliati e bui che seguirono la partenza dalla Germania nazista e il suo trasferimento in America, il concerto per violino e orchestra Op.36 fu dedicato ad Anton Webern ed eseguito per la prima volta nel 1940 a Filadelfia sotto la direzione di Leopold Stokovski. Al violino c’era Louis Krasner, lo stesso che nel 1936 aveva eseguito per la prima volta a Barcellona il concerto per violino di Berg.
    E’ un lavoro particolare: da un lato il linguaggio dodecafonico e una scrittura straordinariamente impegnativa per il solista (lo stesso Schoenberg scherzando diceva che il violinista “dovrebbe possedere una mano sinistra con sei dita”), dall’altra una struttura classica molto tradizionale in tre movimenti e soprattutto un lirismo davvero intenso.

    La Faust è davvero bravissima nell’insufflare passione ed energia a queste pagine e a dominare le difficoltà della partitura con assoluta scioltezza, ottimamente accompagnata da un attento e sensibile Daniel Harding e dall’orchestra sinfonica della radio svedese. Faust e Harding riescono a trovare il sottile equilibrio tra innovazione e tradizione di questo concerto, ma soprattutto a convincere l’ascoltatore che non è necessario essere profondi conoscitori delle tecniche compositive dodecafoniche per cogliere la bellezza di queste pagine.
    Nella seconda parte del disco Isabelle Faust abbandona Daniel Harding e la compagine svedese per riunirsi con un gruppo di amici nell’interpretazione di quella che è una delle opere forse più note di Schoenberg, Verklärte Nacht, qui nella meno nota versione originale per sestetto d’archi del 1899. 
    Curiosamente Verklärte Nacht è un poema sinfonico composto per un complesso da camera, un sestetto d’archi appunto. Solo successivamente, nel 1917, fu arrangiato per orchestra d’archi.
    Verklärte Nacht fu la prima composizione strumentale di rilievo di Arnold Schoenberg. Lo stile compositivo guarda ancora al contesto tradizionale del sinfonismo tardo romantico tedesco, con abbondanza di materiali cromatici “tristaniani”.
    La musica segue con precisioni le varie fasi del testo poetico di Richard Dehmel, scrittore all’epoca molto in voga. Rispetto alla versione per orchestra d’archi, la versione per sestetto guadagna in essenzialità e trasparenza quello che perde in ricchezza sonora.
    Qui la Faust è accompagnata da un gruppo di straordinari artisti: Anne Katharina Schreiber, secondo violino, Antoine Tamestit e Danusha Waskiewicz, viole, Christian Poltéra e Jean-Guihen Queyras, violoncelli. Insieme ci accompagnano in questo percorso musicale e poetico, fino all’incredibile ultimo movimento che lascia l’ascoltatore letteralmente a bocca aperta.
    In conclusione è un disco che riconcilia, se ce ne fosse il bisogno, con un compositore considerato purtroppo ancora oggi “difficile”. Complimenti alla grandissima Isabelle Faust (e ad Harmonia Mundi) per il coraggio di pubblicare un disco di musica non certo popolare e complimenti a tutti gli artisti coinvolti per la passione e l’amore con i quali hanno ridato vita a queste pagine!

  20. happygiraffe

    Recensioni : orchestrale
    Thomas Adès, concerto per pianoforte e orchestra, Totentanz.
    Kirill Gerstein, pianoforte, Mark Stone, baritono, Christianne Stotij, mezzo-soprano.
    Boston Symphony Orchestra, direttore Thomas Adès.
    DG 2020
    ***
    Thomas Adès è un artista poliedrico che ama esibirsi sia in veste di pianista, che di direttore d’orchestra, che di compositore.
    Lo avevamo ascoltato  tempo fafa accompagnare al piano Ian Bostridge in un’intensa lettura del Winterreise di Schubert, mentre più di recente lo avevamo ritrovato come direttore delle sinfonie sinfonie di Beethoven. In questo disco dell’etichetta DG compare invece nella duplice veste di compositore e direttore d’orchestra. Si tratta di registrazioni dal vivo che risalgono al 2019, il concerto per pianoforte con Kirill Gerstein, e al 2016, la Totentanz con Christianne Stotijn e Mark Stone.
    Adès è con ogni probabilità uno dei compositori contemporanei più eseguiti e più acclamati, certamente nei paesi anglosassoni, ma non solo.
    Il disco si apre con il concerto per pianoforte del 2018. Sin dalle prime battute appare chiaro che lo sguardo di Adès è rivolto ai modelli del passato: si possono sentire echi di Rachmaninov o di Tchaikovsky, di Bartòk nel secondo movimento, senza dimenticare lo swing frizzante di Gershwin. La scrittura è raffinata, ben assecondata da un Gerstein in forma smagliante, ed il risultato è assolutamente effervescente e spettacolare: possiamo immaginare l’entusiasmo del pubblico che ha assistito a questa esibizione. Se devo però dirvela tutta, al di là del piacere effimero dell’ascolto mi è rimasto poco: il continuo pastiche musicale, per quanto ottimamente organizzato, alla fine sa di maniera e ci dice poco di nuovo. Fosse stato scritto ottanta anni fa, il discorso sarebbe stato probabilmente diverso.
    Più interessante e più personale la seconda parte del programma con la Totentanz del 2013. Si tratta di una composizione per baritono, mezzo-soprano e orchestra. I testi sono tratti da un affresco del XV secolo ritrovato in una chiesa di Lubecca, poi distrutta durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale, che rappresentava diverse categorie sociali in ordine gerarchico discendente, cominciando dal Papa e terminando con un neonato. Tra un personaggio e l’altro c’era una rappresentazione della Morte danzante. Nell’opera di Adès la Morte è rappresentata dal baritono, mentre le figure umane dal mezzo-soprano.
    La partitura è densa e questa volta viene da fare un paragone con i lead orchestrali di Mahler. Ma sono pagine intense e emozionanti e non c’è nulla di manieristico a disturbarci. Christianne Stotijn riesce a caratterizzare i sedici personaggi umani con grande varietà e espressività, Mark Stone è perfetto nel suo ruolo lugubre e diabolico. Accompagnati da una Boston Symphony Orchestra assolutamente concentrata, ci guidano fino ad un finale che toglie il fiato.
    Arrivato alla soglia dei 50 anni Adès è nel pieno della sua maturità creativa e interpretativa. Ultimamente ce lo ha dimostrato in diverse registrazioni. Come compositore in diverse occasioni non ha catturato il mio gusto, ma questa Totentanz, in questa esecuzione, merita un ascolto attento.

    Thomas Adès, alla guida della Boston Symphony Orchestra con Christianne Stotijn e Mark Stone.
  21. happygiraffe
    Beethoven, Trio per pianoforte Op.1 n.3 e Op.70 n.2
    Trio Sitkovetsky
    BIS, 2020.
    ***
    Comincia nel migliore dei modi il primo volume di questa nuova integrale  dei trii beethoveniani ad opera del giovane ensemble guidato dal violinista Alexander Sitkovetsky.
    Il numero d’opera non deve trarre in inganno: l’op.1 n.3 fu all’epoca una composizione molto innovativa nel portare questo genere dal repertorio salottiero di intrattenimento ad una dimensione più moderna. Talmente innovativa che l'insegnante del giovane Beethoven, Haydn, pur ammirandone le qualità, ne sconsigliò la pubblicazione, temendo che il pubblico non potesse capirlo. Si tratta in ogni caso del primissimo Beethoven, ancora lontano dall’eroico ardore del periodo centrale o dalle sperimentali astrazioni degli ultimi anni.
    Il Sitkovetsky ci stupisce subito per il suoi timbri pieni ed eleganti e lo slancio naturale e gioioso del fraseggio. I movimenti si susseguono con grande armonia e equilibrio, in un clima luminoso e gaio.
    Segue, a guisa di intermezzo, il graziosissimo Allegretto WoO 39, ultimo pezzo composto da Beethoven per trio, scritto per la giovane Maximiliane Brentano, “per incoraggiarla a suonare il pianoforte”.
    Non potrebbe essere più diversa l’atmosfera del ben più tormentato Trio Op.70 n.2.
    Privo di un movimento lento, questo trio si apre con un’introduzione sommessa in cui gli strumenti a canone introducono il primo tema, cui segue uno sviluppo decisamente più ombroso e passionale. Se l’Allegretto successivo sotto forma di variazioni, ha un carattere più ossessivo, L’Allegretto ma non troppo prende corpo da una splendida melodia nel più pure stile beethoveniano. Il Finale è un misto di esuberanza e virtuosismo, che ci porta a briglie sciolte verso la conclusione.
    Davvero irreprensibili i tre musicisti del Trio Sitkovetsky, sia nel equilibrio tra gli strumenti, con il pianoforte di Wu Qian che non domina mai e il violoncello di Isang Enders sempre perfettamente leggibile, sia nella giudiziosa scelta dei tempi. E’ nel complesso un interpretazione molto naturale e “classica”, ma per niente accademica e priva di qualsiasi affettazione. Aspettiamo il seguito!
    Ottimo anche la qualità della registrazione, che rende bene il suono caldo dell’ensemble con tutte le sue sfumature timbriche e ci restituisce un’immagine omogenea e realistica.
  22. happygiraffe

    Recensioni : orchestrale
    Bottesini: Gran Duo concertante
    Piazzolla: Le Grand Tango
    Rota: Divertimento concertante Ödön Rácz, contrabbasso.
    Noah Bendix-Balgley, violino.
    Franz Liszt Chamber Orchestra
    Speranza Scapucci, direttore.   Deutsche Grammophon, 2019   *** Ammetiamolo, tra gli strumenti ad arco il contrabbasso è sicuramente quello più trascurato dai compositori, pur rivestendo un ruolo fondamentale all'interno dell'orchestra.  Stupisce quindi vedere che DG pubblichi un disco interamente dedicato a musiche per contrabbasso.
    Qui è il virtuoso ungherese Ödön Rácz che si cimenta con alcune delle pagine più note (agli esperti!) composte per questo strumento: il Gran Duo Concertante di Bottesini e il il Divertimento Concertante di Nino Rota.
    Giovanni Bottesini (1821-1889) fu un celebre contrabbassista, compositore e direttore d'orchestra ottocentesco, noto come il "Paganini del contrabbasso". Fu autore di diverse composizioni per questo strumento, tra cui questo Gran Duo concertante, qui nella trascrizione per contrabbasso e violino dall'originale (meno nota) per due contrabbassi. 
    Si tratta di un bel pezzo di bravura, assolutamente godibile. Ho trovato tuttavia più interessante la seconda parte del programma, con il Divertimento Concertante per contrabbasso e orchestra di Nino Rota (1911-1979). Notissimo e prolifico compositore di musica per film (realizzò 157 colonne sonore!), Rota ebbe anche una consistente produzione di musica classica tradizionale di stampo neoclassico.
    Questo Divertimento Concertante ha una storia particolare. Bisogna sapere che Rota insegnò a lungo al Conservatorio di Bari e ne fu direttore dal 1950 fino al 1977. Nella stanza sopra il suo ufficio dal 1967 si tenevano i corsi di contrabbasso tenuti dal grandissimo virtuoso Franco Petracchi, che gli commissionò un'opera per il suo strumento. Il Divertimento fu composto tra il 1967 e il 1969. Se il secondo movimento, " Marcia", riprende scherzosamente alcuni degli esercizi che Petracchi faceva fare ai suoi allievi e che il povero Rota era costretto a sentire tutti i giorni dal piano di sotto, il terzo movimento "Aria", fu in origine composto per la colonna sonora del film "Dottor Zivago", progetto che poi per varie ragioni fallì e fu affidato a Maurice Jarre, che ci vinse l'Oscar.
    Il Divertimento Concertante è un lavoro brillante, pieno di humour e di momenti vivaci, così come di momenti più riflessivi e malinconici, come nel terzo movimento. Ricorda spesso il Prokofiev più sereno e scherzoso.
    Ödön Rácz è un grande: suona il suo contrabbasso con una sensibilità difficilmente immaginabile e riesce a farlo cantare con la grazia e la dolcezza dei suoi fratelli più piccoli.
    In sintesi, un disco molto piacevole, che raccomando volentieri!
  23. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    Beethoven, le sonate per pianoforte.
    Igor Levit, pianoforte.
    Sony Classical 2013/2019
    ***
    Ormai è chiaro che Igor Levit è un pianista a cui piace darsi degli obiettivi ambiziosi: esordio impressionante con le ultime sonate di Beethoven, poi tutte le partite di Bach, poi un triplo album con Goldberg, Diabelli e le bizzarre variazioni di Rzewski, nel 2018 un personalissimo e densissimo concept album, Life. Ora arriva addirittura l’integrale delle 32 sonate di Beethoven! Incisa tra la fine del 2017 e i primi mesi del 2019, recupera le sonate 28-32 dal suo disco di esordio del 2013.
    Ma al di là della sua passione per le sfide, quello che impressiona sempre di Levit è la solidità delle sue scelte interpretative.  Questa integrale colpisce per la coerenza e per la linearità dello stile attraverso tutto il ciclo di sonate. Analizzando i tempi utilizzati (questione perennemente dibattuta), Levit segue chiaramente la tradizione di Schnabel, che privilegia tempi veloci e accentua i contrasti tra movimenti veloci e movimenti lenti. E’ un Beethoven vigoroso, energico e scattante. E’ una scelta netta, da tenere in considerazione sulla base delle proprie preferenze.
    C’è continuità anche nel modo in cui è stato “ripreso” il pianoforte dagli ingegneri del suono, nonostante le registrazioni si siano svolte in tre luoghi diversi in periodi diversi. Non è un pianoforte come solitamente siamo abituati ad ascoltare, con microfoni molto vicini e un suono pulito e analitico con separazione tra i vari registri e se vogliamo poco realistico, ma è un pianoforte come potremmo sentirlo in una sala da concerti, ampio, con i registri ben amalgamati tra loro, ma meno “radiografico”. E’ un fatto questo che condiziona di molto tutta l’esperienza di ascolto. Si può perdere qua e là qualche sfumatura o qualche dettaglio, ma probabilmente si guadagna in impatto emotivo. Personalmente ho sempre trovato che questo tipo di registrazioni mi facciano rivivere molto di più l’esperienza del concerto.

    Prime sonate (1795-1800)
    Già dalle prime sonate, spesso punto di debole di altre integrali, così rivolte alla tradizione classica di Haydn e Mozart, ma già cariche di idee nuove, si capisce che il Beethoven di Levit è già tutto proiettato verso il futuro. I tempi sono piuttosto rapidi, le dinamiche accese. Pur mantenendo uno sguardo riconoscente verso il passato, lo Sturm und Drang è già arrivato. Questo è messo sempre più in evidenza man mano che si passa dalle prime sonate Op.2 via via verso letture sempre più energiche delle 3 sonate Op.10, dell'Op 13 "Patetica", fino all'Op.22 che chiude il periodo delle prime sonate, ma che già precorre il gruppo delle sonate di mezzo.
    Sonate Centrali (1801-1814)
    Con il gruppo delle sonate cosiddette centrali si va nel cuore della produzione beethoveniana ed è qui che emergono le capacità introspettive di Levit, che riesce con facilità ad andare sotto la superficie a cogliere l'essenza di ogni sonata. E’ un Beethoven energico e grintoso che vola sui tasti, ma con profondi momenti di riflessione nei movimenti lenti.
    Sono tanti i momenti degni di nota: una “Marcia funebre” cupa e intensa, una “Pastorale” di rara sensibilità, una "Appassionata" da ricordare, assolutamente viscerale e spericolata; la "Waldstein" ha un avvio sprintosissimo e un finale pirotecnico. Se devo proprio trovare qualche punto negativo, sorprende qua e là (e anche nelle sonate del primo gruppo) una certa fretta nei movimenti finali e nelle battute conclusive, quasi che il pianista avesse fretta di chiudere lo strumento e andarsene.
    Ma se guardiamo a questo gruppo di sonate nel loro insieme, sono evidenti da un lato la sicurezza, davvero senza esitazioni, del pianista nelle proprie scelte interpretative, dall'altra anche la volontà di mettersi in gioco e di prendersi dei rischi, anche a scapito di quella perfezione tanto ricercata in studio di registrazione. In questo senso questa integrale, anche per come è stata registrata, riporta all'ascoltatore le emozioni che di solito si possono provare in un’esecuzione dal vivo. Pur essendo un musicista di grande personalità, non ho trovato in queste esecuzioni quel desiderio di stupire a tutti i costi che spesso caratterizza le interpretazioni di un repertorio così frequentato. C’è anzi un rispetto per la lettera, ma soprattutto per lo spirito di questa musica, che vorremmo vedere più spesso (Vedi ultimo disco di Pogorelich).
    Sebbene Levit non abbia adottato scelte eccessive o estreme (Pollini in alcune sonate è stato ben più radicale), certamente alcuni potranno desiderare un po' più di respiro o un approccio più misurato o più contemplativo. 
    Ultime sonate (1816-1822)
    Le ultime 5 sonate di questa integrale sono riprese dallo splendido disco di esordio del 2013. L'approccio si fa più riflessivo, specie nei movimenti lenti eseguiti con grandissima intensità (Op.101, Op.106) ad evidenziare il contrasto coni movimenti veloci eseguiti con il consueto vigore (si ascolti il primo movimento della "Hammerklavier", così febbrile e concitato).
    La capacità di rendere con lucidità l'architettura dell'opera nella sua interezza, dote davvero rara, qui è assoluta, così come l'abilità nell'accompagnare chi ascolta in un viaggio nella musica.
    Riascoltando oggi l'Op.111, a distanza di qualche anno dalla sua uscita e con l'ascolto freschissimo di questa integrale, mi rendo maggiormente conto di qualche passaggio leggermente troppo lento per i miei gusti, ma stiamo davvero parlando di dettagli. 

    Ormai non ci devono più stupire le capacità e la maturità interpretativa e intellettuale di questo pianista. Quest'ultima fatica di Levit ne è un'altra riprova.
    Pur non mancando le integrali di peso (da quelle storiche di Schnabel, Backhaus, Kempff, Gilels, purtroppo non completa, Arrau, poi quelle di Brendel, Pollini, Barenboim, Kovacevich, fino ai giorni d'oggi con quella di Biss, ormai quasi completata), questa nuova integrale, costruita con una visione sicura, lucida e coerente, è destinata a essere ricordata. 
    E ora che ha archiviato in una manciata di anni le 32 sonate e le variazioni Diabelli, forse Levit si dedicherà ai 5 concerti?

  24. happygiraffe

    Recensioni Cuffie
    Vorrei innanzitutto ringraziare Hifiman che ci ha fornito questi auricolari in cambio della nostra sincera opinione. La nostra analisi sarà quanto più possibile oggettiva e, anzi, comincio subito col dire che in redazione non siamo dei grandi fan degli auricolari, abituati come siamo ad ascoltare musica tramite cuffie tradizionali (quando non con diffusori), comodamente seduti in poltrona. Ho accettato però con entusiasmo l’idea di testare queste “cuffiette” prodotte da un’azienda molto nota in ambito hifi per le sue magnifiche cuffie magnetostatiche.
    E così veniamo a parlare di queste RE 600s V2, evoluzione delle RE 600 lanciate nel 2013 e appartenenti alla  famiglia “premium” del catalogo di Hifiman.

    Si tratta di auricolari con un driver da 8.5mm, un diaframma in Titanio e un magnete in neodimio, pensati per ascolti di qualità su dispositivi portatili.
    Si presentano in una confezione davvero molto, molto bella, che stupisce per la cura che Hifiman ha voluto dedicare a questo prodotto.

    Al suo interno troviamo un’ampia scorta di “tappini”: 3 paia a doppia flangia (small), 2 paia a doppia flangia (medium), 2 paia monoflangia (small), quattro paia in silicone (small e medium). Tra gli accessori anche cinque coppie di filtri extra, nel caso col tempo si presentasse la necessità di sostituirli.

    In più Hifiman fornisce una comoda e compatta custodia da viaggio circolare (contenente ancora altri ear-tips).

    Sono auricolari di taglia piuttosto ridotta e, una volta trovata la coppia di adattatori che meglio si adatta alle nostre orecchie, sono in grado di fornire un buon isolamento dai rumori esterni. L’ingombro limitato e la loro leggerezza li rendono piuttosto comodi da utilizzare. Il cavo, cambiato rispetto alla versione precedente, è di buona sezione e termina con un jack dritto da 3.5mm. Da notare che il cavo è fisso, cosa prevedibile viste le dimensioni dell’auricolare.
    Prova d’ascolto
    Ho dovuto sottoporre questi auricolari ad un lungo rodaggio di circa 100 ore prima che cominciassero a dare il meglio delle loro possibilità. Da nuovi facevo davvero fatica ad ascoltarli. Per questa prova li ho accoppiati al fidato lettore Fiio X5.

    Bassi
    I bassi sono ben presenti, ma mai esagerati, anzi molto equilibrati e di qualità, in linea con l’impostazione molto neutra di queste cuffie. A volte sentiremmo l’esigenza di un basso più pieno e presente, ma servirebbe un driver più ampio per ottenerlo. Come prevedibile si percepisce una certa attenuazione dai 100Hz in giù.
    Medi
    Le medie frequenze sono il vero grande punto di forza di questi auricolari: il suono è aperto e trasparente, le voci umane hanno corpo e presenza e sono riprodotte con grande naturalezza. I timbri degli strumenti sono assolutamente realistici e ben bilanciati.
    Alti
    Le  frequenze medio-alte presentano un buon grado di dettaglio, ma quando messe alla corda da alcuni strumenti (clavicembalo, ma anche pianoforte, chitarre elettriche) ho invece percepito una leggera asprezza che può rendere l’ascolto di alcuni brani un po’ faticoso a chi ha orecchie più sensibili a queste frequenze, come è il mio caso. Andando più su le cose migliorano, anche grazie ad un’evidente attenuazione della parte più alta dello spettro.
    Palcoscenico
    Il soundstage è a mio avviso il secondo punto di forza di queste cuffie: l’immagine riprodotta stupisce molto per ampiezza, profondità e capacità di separare e localizzare con precisione gli strumenti nello spazio e questo non è cosa da poco!
    Conclusioni
    Riassumendo, si tratta di un paio di ottimi auricolari che suonano in modo molto neutrale e ricco di dettaglio e che fanno della linearità nelle medie frequenze il loro punto di eccellenza, insieme a un palcoscenico virtuale davvero sorprendente.
    Nel trarre le conclusioni non si può fare a meno di considerare l’elemento economico. Questi sono auricolari che al momento del lancio venivano venduti a 400$ (negli USA), prezzo che trovo eccessivamente alto per quello che offrono. Oggi si possono trovare a 120€ nel più famoso negozio online del pianeta, mentre sullo store di Hifiman sono proposti in offerta addirittura a 64,99$, anziché a 200$.
    A questo prezzo diventano oggetti decisamente più interessanti e appetibili, con un rapporto qualità-prezzo molto favorevole, che mi rende molto più facile consigliarli a chi sia interessato a questo tipo di dispositivi. Siamo comunque, a mio avviso, ancora lontani da un’esperienza di tipo “audiophile”, come dicono nei paesi anglosassoni, per la quale bisognerà passare a modelli superiori per qualità e prezzo.
    Segnalo l’esistenza di un modello più economico, le RE400, che oggi si trovano intorno ai 60€, che mantengono la stessa impostazione molto neutrale delle RE600S e un’ottima gamma media, ma con prestazioni complessivamente inferiori, che potrebbe interessare chi ha un budget più ristretto.
     
    Pro
    Confezione molto bella, ideale per un regalo
    Leggerezza e comfort
    Dettaglio
    Palcoscenico ampio
    Suono bilanciato e neutrale
    Ampia disponibilità di eartips
     
    Contro
    Cavo fisso
    Basso un po’ esile
    Medio alti a tratti un po’ aspri
  25. happygiraffe
    Luigi Nono, Djamila Boupacha per soprano solo.
    Joseph Haydn, Sinfonia n.49 Hob.I:49.
    Géerard Grisey, Quattre chants pour franchir le seuil.
    Barbara Hannigan, soprano: Ludwig Orchestra.
    Alpha, 2020.
    ***
    La Passione è un disco in tre parti che ruota intorno al tema della morte, in varie forme e varie epoche. Ma passione è anche quel sentimento che Barbara Hannigan infonde in misure straordinaria in queste interpretazioni, nella doppia veste di cantante e direttrice d’orchestra.
    Il programma è sicuramente molto particolare e si apre con una composizione per soprano solo di Luigi Nono, Djamila Boupacha, dedicato alla giovane donna algerina che divenne un caso politico nel 1960, quando, dopo settimane di torture e violenze da parte dei soldati francesi, ebbe il coraggio di dire al giudice che la processava che la sua confessione era stata estorta sotto tortura e di chiedere l’indipendenza dell’Algeria. Il suo caso ispirò un quadro di Picasso, un libro di Simone de Beauvoir e una poesia di Jesus Lopez Pacheco, che fu musicata da Nono nel 1962.
    La voce duttile della Hannigan è assoluta protagonista di questo breve lavoro che dura appena cinque minuti, ma che ci commuove con il suo grido di dolore, ora intimo e sommesso, ora lacerato e urlato.
    Il contrasto con la composizione che segue, la sinfonia n.49 “La Passione” di Franz Joseph Haydn è solo apparente. Le note dolenti che aprono il primo movimento ben si sposano con lo sgomento nel quale ci aveva lasciato il lavoro di Luigi Nono. Ora Barbara Hannigan riposa la voce e impugna la bacchetta di direttrice per guidare la Ludwig Orchestra, compagine olandese con la quale collabora da diverso tempo, in una lettura intensa e ricca di pathos.
    Il piatto forte del disco ancora deve, ancora venire ed è rappresentato dai “Quattre chants pour franchir le seuil” (quattro canti per varcare la soglia), del compositore francese Gérard Grisey, per soprano e 15 strumenti. Sono delle meditazioni in musica sulla morte in quattro parti (la morte dell’angelo, la morte della civiltà, la morte della voce, la morte dell’umanità) cui segue una berceuse in conclusione. I testi dei vari movimenti provengono da epoche e civiltà diverse. Non è una composizione che portò bene al povero Grisey, che scomparve prematuramente poco tempo dopo averla terminata.  È un ‘opera che richiede enormi capacità tecniche ai suoi interpreti, le cui voci si intrecciano e sovrappongono continuamente e addirittura si disgregano letteralmente nel terzo movimento “la morte della voce”.  Ed è un’opera che richiede anche una discreta predisposizione da parte di chi ascolta a recepire questo linguaggio musicale e a lasciarsene coinvolgere.
    Ottimo il libretto che accompagna il disco, con un saggio della stessa Hannigan, tutti i testi delle opere di Nono e Grisey e tante belle foto (segnalo che la bella foto di copertina di Elmer de Haas ritrae la stessa Hannigan sott’acqua come una sirena!).
    Due parole sulla qualità della registrazione, davvero ottima in tutte e tre le parti che compongono questo disco: voce sola, orchestra classica e voce con ensemble. La stessa Hannigan in un’intervista ci spiega del rapporto di straordinaria fiducia che la lega all’ingegnere del suono, Guido Tichelman, che conosce da 25 anni e che, conoscendo ogni piega della sua voce, è in grado di consigliarla e di spingerla sempre al massimo:”è come se mi desse un paio di ali supplementari, proprio nel momento in cui ce n’è bisogno”.
    Un grande disco, non per tutti, ma comunque un grande disco!
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