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Blog Entries pubblicato da happygiraffe

  1. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    Beethoven, le sonate per pianoforte.
    Igor Levit, pianoforte.
    Sony Classical 2013/2019
    ***
    Ormai è chiaro che Igor Levit è un pianista a cui piace darsi degli obiettivi ambiziosi: esordio impressionante con le ultime sonate di Beethoven, poi tutte le partite di Bach, poi un triplo album con Goldberg, Diabelli e le bizzarre variazioni di Rzewski, nel 2018 un personalissimo e densissimo concept album, Life. Ora arriva addirittura l’integrale delle 32 sonate di Beethoven! Incisa tra la fine del 2017 e i primi mesi del 2019, recupera le sonate 28-32 dal suo disco di esordio del 2013.
    Ma al di là della sua passione per le sfide, quello che impressiona sempre di Levit è la solidità delle sue scelte interpretative.  Questa integrale colpisce per la coerenza e per la linearità dello stile attraverso tutto il ciclo di sonate. Analizzando i tempi utilizzati (questione perennemente dibattuta), Levit segue chiaramente la tradizione di Schnabel, che privilegia tempi veloci e accentua i contrasti tra movimenti veloci e movimenti lenti. E’ un Beethoven vigoroso, energico e scattante. E’ una scelta netta, da tenere in considerazione sulla base delle proprie preferenze.
    C’è continuità anche nel modo in cui è stato “ripreso” il pianoforte dagli ingegneri del suono, nonostante le registrazioni si siano svolte in tre luoghi diversi in periodi diversi. Non è un pianoforte come solitamente siamo abituati ad ascoltare, con microfoni molto vicini e un suono pulito e analitico con separazione tra i vari registri e se vogliamo poco realistico, ma è un pianoforte come potremmo sentirlo in una sala da concerti, ampio, con i registri ben amalgamati tra loro, ma meno “radiografico”. E’ un fatto questo che condiziona di molto tutta l’esperienza di ascolto. Si può perdere qua e là qualche sfumatura o qualche dettaglio, ma probabilmente si guadagna in impatto emotivo. Personalmente ho sempre trovato che questo tipo di registrazioni mi facciano rivivere molto di più l’esperienza del concerto.

    Prime sonate (1795-1800)
    Già dalle prime sonate, spesso punto di debole di altre integrali, così rivolte alla tradizione classica di Haydn e Mozart, ma già cariche di idee nuove, si capisce che il Beethoven di Levit è già tutto proiettato verso il futuro. I tempi sono piuttosto rapidi, le dinamiche accese. Pur mantenendo uno sguardo riconoscente verso il passato, lo Sturm und Drang è già arrivato. Questo è messo sempre più in evidenza man mano che si passa dalle prime sonate Op.2 via via verso letture sempre più energiche delle 3 sonate Op.10, dell'Op 13 "Patetica", fino all'Op.22 che chiude il periodo delle prime sonate, ma che già precorre il gruppo delle sonate di mezzo.
    Sonate Centrali (1801-1814)
    Con il gruppo delle sonate cosiddette centrali si va nel cuore della produzione beethoveniana ed è qui che emergono le capacità introspettive di Levit, che riesce con facilità ad andare sotto la superficie a cogliere l'essenza di ogni sonata. E’ un Beethoven energico e grintoso che vola sui tasti, ma con profondi momenti di riflessione nei movimenti lenti.
    Sono tanti i momenti degni di nota: una “Marcia funebre” cupa e intensa, una “Pastorale” di rara sensibilità, una "Appassionata" da ricordare, assolutamente viscerale e spericolata; la "Waldstein" ha un avvio sprintosissimo e un finale pirotecnico. Se devo proprio trovare qualche punto negativo, sorprende qua e là (e anche nelle sonate del primo gruppo) una certa fretta nei movimenti finali e nelle battute conclusive, quasi che il pianista avesse fretta di chiudere lo strumento e andarsene.
    Ma se guardiamo a questo gruppo di sonate nel loro insieme, sono evidenti da un lato la sicurezza, davvero senza esitazioni, del pianista nelle proprie scelte interpretative, dall'altra anche la volontà di mettersi in gioco e di prendersi dei rischi, anche a scapito di quella perfezione tanto ricercata in studio di registrazione. In questo senso questa integrale, anche per come è stata registrata, riporta all'ascoltatore le emozioni che di solito si possono provare in un’esecuzione dal vivo. Pur essendo un musicista di grande personalità, non ho trovato in queste esecuzioni quel desiderio di stupire a tutti i costi che spesso caratterizza le interpretazioni di un repertorio così frequentato. C’è anzi un rispetto per la lettera, ma soprattutto per lo spirito di questa musica, che vorremmo vedere più spesso (Vedi ultimo disco di Pogorelich).
    Sebbene Levit non abbia adottato scelte eccessive o estreme (Pollini in alcune sonate è stato ben più radicale), certamente alcuni potranno desiderare un po' più di respiro o un approccio più misurato o più contemplativo. 
    Ultime sonate (1816-1822)
    Le ultime 5 sonate di questa integrale sono riprese dallo splendido disco di esordio del 2013. L'approccio si fa più riflessivo, specie nei movimenti lenti eseguiti con grandissima intensità (Op.101, Op.106) ad evidenziare il contrasto coni movimenti veloci eseguiti con il consueto vigore (si ascolti il primo movimento della "Hammerklavier", così febbrile e concitato).
    La capacità di rendere con lucidità l'architettura dell'opera nella sua interezza, dote davvero rara, qui è assoluta, così come l'abilità nell'accompagnare chi ascolta in un viaggio nella musica.
    Riascoltando oggi l'Op.111, a distanza di qualche anno dalla sua uscita e con l'ascolto freschissimo di questa integrale, mi rendo maggiormente conto di qualche passaggio leggermente troppo lento per i miei gusti, ma stiamo davvero parlando di dettagli. 

    Ormai non ci devono più stupire le capacità e la maturità interpretativa e intellettuale di questo pianista. Quest'ultima fatica di Levit ne è un'altra riprova.
    Pur non mancando le integrali di peso (da quelle storiche di Schnabel, Backhaus, Kempff, Gilels, purtroppo non completa, Arrau, poi quelle di Brendel, Pollini, Barenboim, Kovacevich, fino ai giorni d'oggi con quella di Biss, ormai quasi completata), questa nuova integrale, costruita con una visione sicura, lucida e coerente, è destinata a essere ricordata. 
    E ora che ha archiviato in una manciata di anni le 32 sonate e le variazioni Diabelli, forse Levit si dedicherà ai 5 concerti?

  2. happygiraffe

    Recensioni Cuffie
    Vorrei innanzitutto ringraziare Hifiman che ci ha fornito questi auricolari in cambio della nostra sincera opinione. La nostra analisi sarà quanto più possibile oggettiva e, anzi, comincio subito col dire che in redazione non siamo dei grandi fan degli auricolari, abituati come siamo ad ascoltare musica tramite cuffie tradizionali (quando non con diffusori), comodamente seduti in poltrona. Ho accettato però con entusiasmo l’idea di testare queste “cuffiette” prodotte da un’azienda molto nota in ambito hifi per le sue magnifiche cuffie magnetostatiche.
    E così veniamo a parlare di queste RE 600s V2, evoluzione delle RE 600 lanciate nel 2013 e appartenenti alla  famiglia “premium” del catalogo di Hifiman.

    Si tratta di auricolari con un driver da 8.5mm, un diaframma in Titanio e un magnete in neodimio, pensati per ascolti di qualità su dispositivi portatili.
    Si presentano in una confezione davvero molto, molto bella, che stupisce per la cura che Hifiman ha voluto dedicare a questo prodotto.

    Al suo interno troviamo un’ampia scorta di “tappini”: 3 paia a doppia flangia (small), 2 paia a doppia flangia (medium), 2 paia monoflangia (small), quattro paia in silicone (small e medium). Tra gli accessori anche cinque coppie di filtri extra, nel caso col tempo si presentasse la necessità di sostituirli.

    In più Hifiman fornisce una comoda e compatta custodia da viaggio circolare (contenente ancora altri ear-tips).

    Sono auricolari di taglia piuttosto ridotta e, una volta trovata la coppia di adattatori che meglio si adatta alle nostre orecchie, sono in grado di fornire un buon isolamento dai rumori esterni. L’ingombro limitato e la loro leggerezza li rendono piuttosto comodi da utilizzare. Il cavo, cambiato rispetto alla versione precedente, è di buona sezione e termina con un jack dritto da 3.5mm. Da notare che il cavo è fisso, cosa prevedibile viste le dimensioni dell’auricolare.
    Prova d’ascolto
    Ho dovuto sottoporre questi auricolari ad un lungo rodaggio di circa 100 ore prima che cominciassero a dare il meglio delle loro possibilità. Da nuovi facevo davvero fatica ad ascoltarli. Per questa prova li ho accoppiati al fidato lettore Fiio X5.

    Bassi
    I bassi sono ben presenti, ma mai esagerati, anzi molto equilibrati e di qualità, in linea con l’impostazione molto neutra di queste cuffie. A volte sentiremmo l’esigenza di un basso più pieno e presente, ma servirebbe un driver più ampio per ottenerlo. Come prevedibile si percepisce una certa attenuazione dai 100Hz in giù.
    Medi
    Le medie frequenze sono il vero grande punto di forza di questi auricolari: il suono è aperto e trasparente, le voci umane hanno corpo e presenza e sono riprodotte con grande naturalezza. I timbri degli strumenti sono assolutamente realistici e ben bilanciati.
    Alti
    Le  frequenze medio-alte presentano un buon grado di dettaglio, ma quando messe alla corda da alcuni strumenti (clavicembalo, ma anche pianoforte, chitarre elettriche) ho invece percepito una leggera asprezza che può rendere l’ascolto di alcuni brani un po’ faticoso a chi ha orecchie più sensibili a queste frequenze, come è il mio caso. Andando più su le cose migliorano, anche grazie ad un’evidente attenuazione della parte più alta dello spettro.
    Palcoscenico
    Il soundstage è a mio avviso il secondo punto di forza di queste cuffie: l’immagine riprodotta stupisce molto per ampiezza, profondità e capacità di separare e localizzare con precisione gli strumenti nello spazio e questo non è cosa da poco!
    Conclusioni
    Riassumendo, si tratta di un paio di ottimi auricolari che suonano in modo molto neutrale e ricco di dettaglio e che fanno della linearità nelle medie frequenze il loro punto di eccellenza, insieme a un palcoscenico virtuale davvero sorprendente.
    Nel trarre le conclusioni non si può fare a meno di considerare l’elemento economico. Questi sono auricolari che al momento del lancio venivano venduti a 400$ (negli USA), prezzo che trovo eccessivamente alto per quello che offrono. Oggi si possono trovare a 120€ nel più famoso negozio online del pianeta, mentre sullo store di Hifiman sono proposti in offerta addirittura a 64,99$, anziché a 200$.
    A questo prezzo diventano oggetti decisamente più interessanti e appetibili, con un rapporto qualità-prezzo molto favorevole, che mi rende molto più facile consigliarli a chi sia interessato a questo tipo di dispositivi. Siamo comunque, a mio avviso, ancora lontani da un’esperienza di tipo “audiophile”, come dicono nei paesi anglosassoni, per la quale bisognerà passare a modelli superiori per qualità e prezzo.
    Segnalo l’esistenza di un modello più economico, le RE400, che oggi si trovano intorno ai 60€, che mantengono la stessa impostazione molto neutrale delle RE600S e un’ottima gamma media, ma con prestazioni complessivamente inferiori, che potrebbe interessare chi ha un budget più ristretto.
     
    Pro
    Confezione molto bella, ideale per un regalo
    Leggerezza e comfort
    Dettaglio
    Palcoscenico ampio
    Suono bilanciato e neutrale
    Ampia disponibilità di eartips
     
    Contro
    Cavo fisso
    Basso un po’ esile
    Medio alti a tratti un po’ aspri
  3. happygiraffe
    Luigi Nono, Djamila Boupacha per soprano solo.
    Joseph Haydn, Sinfonia n.49 Hob.I:49.
    Géerard Grisey, Quattre chants pour franchir le seuil.
    Barbara Hannigan, soprano: Ludwig Orchestra.
    Alpha, 2020.
    ***
    La Passione è un disco in tre parti che ruota intorno al tema della morte, in varie forme e varie epoche. Ma passione è anche quel sentimento che Barbara Hannigan infonde in misure straordinaria in queste interpretazioni, nella doppia veste di cantante e direttrice d’orchestra.
    Il programma è sicuramente molto particolare e si apre con una composizione per soprano solo di Luigi Nono, Djamila Boupacha, dedicato alla giovane donna algerina che divenne un caso politico nel 1960, quando, dopo settimane di torture e violenze da parte dei soldati francesi, ebbe il coraggio di dire al giudice che la processava che la sua confessione era stata estorta sotto tortura e di chiedere l’indipendenza dell’Algeria. Il suo caso ispirò un quadro di Picasso, un libro di Simone de Beauvoir e una poesia di Jesus Lopez Pacheco, che fu musicata da Nono nel 1962.
    La voce duttile della Hannigan è assoluta protagonista di questo breve lavoro che dura appena cinque minuti, ma che ci commuove con il suo grido di dolore, ora intimo e sommesso, ora lacerato e urlato.
    Il contrasto con la composizione che segue, la sinfonia n.49 “La Passione” di Franz Joseph Haydn è solo apparente. Le note dolenti che aprono il primo movimento ben si sposano con lo sgomento nel quale ci aveva lasciato il lavoro di Luigi Nono. Ora Barbara Hannigan riposa la voce e impugna la bacchetta di direttrice per guidare la Ludwig Orchestra, compagine olandese con la quale collabora da diverso tempo, in una lettura intensa e ricca di pathos.
    Il piatto forte del disco ancora deve, ancora venire ed è rappresentato dai “Quattre chants pour franchir le seuil” (quattro canti per varcare la soglia), del compositore francese Gérard Grisey, per soprano e 15 strumenti. Sono delle meditazioni in musica sulla morte in quattro parti (la morte dell’angelo, la morte della civiltà, la morte della voce, la morte dell’umanità) cui segue una berceuse in conclusione. I testi dei vari movimenti provengono da epoche e civiltà diverse. Non è una composizione che portò bene al povero Grisey, che scomparve prematuramente poco tempo dopo averla terminata.  È un ‘opera che richiede enormi capacità tecniche ai suoi interpreti, le cui voci si intrecciano e sovrappongono continuamente e addirittura si disgregano letteralmente nel terzo movimento “la morte della voce”.  Ed è un’opera che richiede anche una discreta predisposizione da parte di chi ascolta a recepire questo linguaggio musicale e a lasciarsene coinvolgere.
    Ottimo il libretto che accompagna il disco, con un saggio della stessa Hannigan, tutti i testi delle opere di Nono e Grisey e tante belle foto (segnalo che la bella foto di copertina di Elmer de Haas ritrae la stessa Hannigan sott’acqua come una sirena!).
    Due parole sulla qualità della registrazione, davvero ottima in tutte e tre le parti che compongono questo disco: voce sola, orchestra classica e voce con ensemble. La stessa Hannigan in un’intervista ci spiega del rapporto di straordinaria fiducia che la lega all’ingegnere del suono, Guido Tichelman, che conosce da 25 anni e che, conoscendo ogni piega della sua voce, è in grado di consigliarla e di spingerla sempre al massimo:”è come se mi desse un paio di ali supplementari, proprio nel momento in cui ce n’è bisogno”.
    Un grande disco, non per tutti, ma comunque un grande disco!
  4. happygiraffe
    Chanson d’amour, melodie di Debussy, Ravel, Fauré, Poulenc per soprano e pianoforte.
    Sabina Devieilhe, soprano, Alexandre Tharaud, pianoforte.
    Erato 2020
    ***
    Avevamo lasciato Sabina Devieilhe alle prese con le cantate italiane di Handel in uno dei dischi più belli del 2018 e ora la ritroviamo in un bellissimo recital di melodie francesi di Debussy, Ravel. Fauré e Poulenc, accompagnata da un pianista d’eccezione, Alexandre Tharaud. 
    Intendiamoci, di dischi così (melodie francesi a cavallo tra ‘800 e ‘900, titolo e copertina ammiccanti) se ne vedono tanti e non c’è cantante francese che si rispetti che non ne abbia uno a catalogo (vedasi Natalie Dessay, Sandrine Piau, Véronique Gens, Patricia Petibon) ed è giusto che sia così perché il repertorio di quel periodo è talmente bello, ricco, vario che sarebbe un delitto non approfittarne.
    La Devieilhe ce ne aveva già dato un assaggio gustoso in Mirages del 2017.
    Qui Devieilhe e Tharaud costruiscono il loro recital intorno alle 5 Mélodies populaires grecques di Ravel e alle 6 Ariettes oubliées di Debussy, contornandole di tanti altri brani degli stessi Debussy e Ravel, così come di Fauré e Poulenc. 
    Sono arie spesso brevi, sintetiche, folgoranti, ricche di pathos come di umorismo, commoventi o divertenti, dove l’inventiva e la sensibilità dei due danno il meglio nel rendere la raffinatezza, la grazia e la varietà di emozioni di questa raccolta.
    Ma su tutto troneggia la voce incredibile di Sabine Devieilhe, ormai da tempo considerata l’erede della Dessay. Una voce limpida e pura, delicata come un flauto dolce, dove la leggerezza è compensata una freschezza e una naturalezza da togliere il fiato (a chi ascolta!). Devo ammettere che l’ascolterei volentieri anche se cantasse l’elenco del telefono!
    Tharaud è un accompagnatore attento e raffinato e l’affiatamento tra i due è evidente e non risale a questo disco.
    Se volete regalarvi un’ora di felicità, non posso che consigliarvelo.
     
  5. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    Ivan Moravec: Portrait.
    Supraphon, 2020.
    ***
    Supraphon rende omaggio allo straordinario pianista ceco Ivan Moravec (1930-2015) nel novantesimo anniversario della sua nascita. Lo fa nel migliore dei mondi, ovvero con un bel cofanetto di 11 cd e 1 DVD che raccolgono alcune delle sue migliori registrazioni, talune inedite, prendendole dal proprio catalogo, ma attingendo anche da materiale di altre etichette, come Vox, Nonesuch, e Connoisseur Society.
    Conosciuto più dagli intenditori che dal grande pubblico, Moravec fu un pianista incredibile, dotato di una tecnica del suono molto raffinata e di capacità interpretative che hanno dato il meglio nel repertorio di Chopin e Debussy.
    La raccolta si apre con tre concerti di Mozart (14, 23, 25), non quelli con Neville Marriner, ma quelli precedenti (1973-74) con la Czech Chamber Orchestra e la Czech Philarmonic Orchestra. 
    Seguono due dischi dedicati a Beethoven, con un paio di concerti e diverse sonate. Svetta un quarto concerto da antologia con l’orchestra del Musikverein diretta da Turnovsky. Bellissime l’Op.90 e Les Adieux, ma il livello è sempre molto alto.
    Si apre poi una sezione dedicata a Chopin: 3 dischi con le ballate, gli scherzi, i 24 preludi, la seconda sonata, la barcarole e un buon numero di mazurche. Moravec riesce a far cantare Chopin come pochi altri, con una sottilissima varietà di timbri e un uso del rubato tanto raffinati quanto assolutamente naturali all’orecchio di chi ascolta. Seppure Moravec pare che fosse un perfezionista maniacale nella messa a punto dello strumento, nell’ascolto non si percepisce nessuna volontà di controllo assoluta, come purtroppo spesso succede, ma si assiste semplicemente a un poeta del pianoforte, che fa uso della tastiera e della propria tecnica come di un mezzo per parlarci con la voce del compositore. In questo senso i Préludes sono emblematici e valgono da soli l’acquisto di questo cofanetto. 
    Dopo un paio di dischi dedicati a Schumann e Brahms (ahimè non tutti i brani sono disponibili nella versione online disponibile su Qobuz), si giunge a un paio di dischi dedicati a Debussy, Ravel e Franck. Viene dato molto spazio a Debussy (i due libri di Images, poi Estampes, Pour le Piano, Childern’s Corner e una selezioni di Preludi di entrambi i libri) e si capisce il perché: è una gioia da ascoltare! Moravec riesce a far parlare questa musica come pochi altri, una vera delizia. Anche il Prélude, Choral et Fugue di César Franck, pezzo stupendo, è da antologia.
    L’ultimo disco della raccolta è dedicato a musiche di Janacek, Martinu e Smetana, ma anche qui, probabilmente per un problema di accordi con gli editori, non tutto il materiale è disponibile nella versione online che ho ascoltato su Qobuz.
    Un DVD, che non ho visto, raccoglie un documentario su Moravec e ancora tanta musica (Beethoven, Prokofiev, Mozart e Ravel).
    Fa da complemento a questa bella raccolta un libretto esemplare, contenente tutte le informazioni sulle diverse registrazioni, un breve saggio dell’amico Murray Perahia e una lunga intervista a Moravec.
    Complimenti a Supraphon che ha realizzato questo “portrait” in modo davvero ineccepibile, un vero e proprio gesto d’amore che va oltre il semplice progetto editoriale e che ci fa trasparire l’ammirazione e il rispetto che ancora devono portare per questo pianista. 
    Chiaramente qui non c’è tutto il lascito discografico di Moravec: Supraphon ha lasciato fuori qualche pezzo forte come i Notturni di Chopin e gran parte del materiale che qui non è presente è stato pubblicato da etichette diverse. Speriamo in un futuro secondo volume, ma intanto ci godiamo questo con gratitudine!
  6. happygiraffe
    Stravinsky: Serenata in La.
    Prokofiev: Sarcasms, Op. 17.
    Prokofiev: Sonata No. 8, Op. 84.
    Prokofiev: Cenerentola - Tre pezzi per pianoforte, Op. 95, Gavotta.
    Stravinsky: L'Uccello di Fuoco (Trascrizione di Guido Agosti).
    Prokofiev: Concerto per pianoforte No. 2, Op. 16.
    Stravinsky: Tre movimenti da Petrouchka.
    Scriabin: Concerto per pianoforte Op. 20.
    Daniil Trifonov, pianoforte, Mariinsky (Kirov) Orchestra, Valéry Gergiev.
    DG 2020
    ***
    E’ curioso seguire le carriere parallele di quelli che probabilmente sono le due superstar maschili del pianismo odierno e che casualmente provengono dalla stessa città. Parlo di Igor Levit e Daniil Trifonov, entrambi nati a Nizhny Novgorod (Gorky) a pochi anni di distanza. In realtà, al di la della città natale in comune, le similitudini tra i due si fermano qui. Tanto Levit, che poi ha studiato in Germania, è ancorato al repertorio classico tedesco (Bach, Beethoven, Schumann, Brahms) con puntate nella musica moderna e contemporanea, quanto Trifonov predilige il repertorio pianistico più virtuosistico, da Chopin a Liszt, fino a Rachmaninov. Tanto Levit sembra seguire un approccio più intellettualistico (l’ultimo disco, Encounter, sembra portarci in un viaggio tanto introspettivo e riflessivo da risultare alla fine piuttosto difficile da digerire), quanto Trifonov in quest’ultimo disco sembra divertirsi con gli aspetti più scintillanti e esteriori del modernismo russo dei primi del ‘900.
    “The Silver Age”, così hanno voluto intitolare questo disco, ha un programma molto eterogeneo di musiche per piano solo e per piano e orchestra di Stravinsky, Prokofiev e Scriabin. 
    In realtà forse è proprio il programma il punto debole di questo disco: troppo vasto, poco coeso, con una scaletta poco intuitiva. E cosa c’entra poi il giovanile e chopiniano concerto di Scriabin? Come se si fosse voluto trovare qualcosa per riempire il secondo disco…
    Al di là di queste mie perplessità, ho trovato le interpretazioni di Trifonov in questo disco sempre di ottimo livello quando non straordinarie. A partire dalla Serenata in La di Stravinsky e dai Sarcasmes di Prokofiev, pezzi se vogliamo minori, ma comunque interessanti e piacevoli, resi con grande energia e brillantezza. 
    Segue la misteriosa e sempre difficile da interpretare sonata n.8 di Prokofiev, certamente la meno drammatica del trio delle sonate “di guerra”. I tempi sono misurati, non eccessivamente rapidi nel  primo movimento come spesso si sente da altri pianisti. Pur non mancando momenti di grande poesia, non ho trovato questa interpretazione migliore di altre recenti (Osborne, Melnikov), per non parlare della distanza che la separa dalla potenza evocativa del grande Gilels, ma quelli erano altri tempi e sensibilità diverse.
    Passiamo quindi a quelli che mi sono parsi i momenti migliori di questo doppio album, ovvero le trascrizioni dell’Uccello di Fuoco di Stravinsky di Guido Agosti e quella celebre di Petroucka dello stesso Stravinsky. E’ interessante confrontare entrambi i pezzi con le interpretazioni contenute nell’ultimo bellissimo disco di Beatrice Rana. Se Rana era straordinaria nel ricreare i colori e l’energia dell’orchestra,  Trifonov predilige una lettura di stampo puramente neoclassico: il suono è limpido e cristallino, non sembra di ascoltare alcune delle pagine più difficili del repertorio pianistico del ‘900 (Weissenberg confessava che la prima che ha guardato la partitura di Petrouchka aveva pensato che gli servisse una terza mano!) tanto tutto sembra uscire facilmente dalle mani prodigiose del russo. L’interpretazione di Petrouchka è meno istrionica rispetto ad alcune esibizioni dal vivo che si trovano in rete e anzi ricorda quella che doveva essere la grazia dei balletti russi dei primi del ‘900. 
    Nella seconda parte di questo doppio album, Trifonov è accompagnato dall’orchestra Mariinsky diretta da Gergiev nel secondo concerto di Prokofiev e in quello di Scriabin. 
    Il concerto di Prokofiev suona energico e scintillante, con l’orchestra che ben supporta il suono preciso e ricco di sfumature del suo solista. L’interpretazione è nel complesso di ottimo livello, anche se rispetto ad altre può apparire meno coinvolgente.
    Il concerto di Scriabin, eseguito davvero di rado, è quello che è: un lavoro giovanile, se pur molto brillante, e poco rappresentativo del genio del compositore che ancora doveva rivelarsi. 
    In conclusione, un album che contiene momenti di grande bellezza (la Serenata, i Sarcasmes, l’Uccello di fuco e Petrouchka), ma che soffre di un programma davvero ipertrofico e non sempre allo stesso livello. Trifonov ha comunque due mani straordinarie, per cui, al di là delle nostre preferenze, ne raccomando in ogni caso l’ascolto.
  7. happygiraffe
    Variations on folk songs, musiche di Beethoven, Kuhlau, Doppler, Walckiers.
    Anna Besson, flauto; Olga Pashchenko, pianoforte.
    Alpha, 2020.
    ***
    Lo sapevate che le due opere che precedono e seguono nel catalogo beethoveniano la monumentale e metafisica sonata per pianoforte op.106 sono due ben più leggere raccolte di arie e variazioni su temi popolari per flauto e pianoforte?
    La flautista Anna Besson, accompagnata al pianoforte da Olga Pashchenko, ci accompagna in un giro per l’Europa della prima metà dell’ottocento, con un programma di musiche che prendono origine da canti popolari.
    Si comincia con la bellissima Fantasia pastorale ungherese di Franz Doppler, virtuoso del flauto oltre che compositore, per poi proseguire con una selezione delle due raccolte di “temi variati per flauto e pianoforte” Op 105 e op.107 di Beethoven, opere facili e orecchiabili, ma non prive di fascino. Tra le due raccolte ascoltiamo il movimento lento della Grande Sonata Op.83 n.1 di Frederich Kuhlau, “Variazioni su un’aria antica svedese”. Il programma si conclude con il rondò “auvergnat” di Eugène Walckiers e le splendide Arie Valacche Op.10 ancora di Doppler.
    Le due artiste suonano su magnifici strumenti d’epoca dai quali sfoderano una gamma di timbri di grande fascino, riuscendo a restituire splendidamente il carattere di ogni brano. 
    Con questo disco Anna Besson e Olga Pashenko ci fanno conoscere un repertorio poco conosciuto e se vogliamo leggero, ma non per questo poco godibile.
    Un piccolo gioiello!
  8. happygiraffe
    The Beethoven connection, Vol.1
    Jean-Efflam Bavouzet, pianoforte.
    Joseph Wölfl (1773-1812), sonata Op.33 N.3 (1805).
    Muzio Clementi (1752-1832), sonata Op.50 n.1 (1804-21).
    Johann Nepomuk Hummel (1778-1837), sonata n.3, Op.20 (1807).
    Jan Ladislav Dussek (1760-1812), sonata Op.61, C 211 (1806-1807)
    Chandos, 2020.
    ***
    Si sa che il 2020 è stato un anno di celebrazioni beethoveniane e sono fioccate nuove incisioni delle pagine più o meno celebri del genio di Bonn. Pur avendo già registrato pochi anni fa una bella integrale delle sonate, non si è lasciato trovare impreparato o a corto di idee il bravo pianista francese Jean-Efflam Bavouzet.
    È così che, anziché proporci musiche di Beethoven, ha scelto di offrirci pagine di musicisti contemporanei a Beethoven all’epoca piuttosto noti, ma che oggi sono conosciuti per lo più dagli addetti ai lavori.
    A quei tempi Beethoven non era certo l’unico compositore a scrivere musica per pianoforte (o fortepiano) e se i suoi illustri predecessori (Mozart e Haydn) sono celebri, sappiamo probabilmente meno di che tipo di musica scrivevano i suoi contemporanei. L’intento del disco, ben spiegato nelle ottime note di copertina, è proprio quello di farci capire “il linguaggio comune dell’epoca” e mostrare che i capolavori di Beethoven non originano dal nulla, ma da un contesto musicale florido con cui tanto aveva in comune.
    Bavouzet ci invita quindi a cogliere le influenze di Beethoven sui contemporanei così come le quelle di questi ultimi su Beethoven stesso.
    Sono tutti lavori composti tra il 1804 e il 1809, periodo in cui Beethoven sfornava capolavori come la Waldstein (1803), l’Appassionata (1805) e Les adieux (1810) e, sebbene sia evidente che le sonate di questo disco non vi si avvicinino neanche lontanamente, possiamo cogliere molte affinità, soprattutto con le precedenti sonate beethoveniane.
    La sonata in Mi maggiore di Joseph Wölfl ci stupisce per grazia e fantasia. La sonata Op.50 n.1 di Muzio Clementi è forse la meno interessante del disco, ma è noto quanto il compositore romano contribuì all’evoluzione della tecnica e del linguaggio pianistico di quell’epoca e quanto fosse tenuto in considerazione dallo stesso Beethoven.
    Brillante, virtuosa e audace la terza sonata di Johann Nepomuk Hummel, che all'epoca venica considerato l’erede di Mozart e che fu il successore di Haydn come direttore d’orchestra presso il principe Esterházy.
    Molto bella la sonata in due movimenti Op.61 “elegia armonica” di Jan Ladislav Dussek, quella che più di tutte riesce a guardare avanti nel tempo e che possiamo tranquillamente definire pre-romantica. Con il suo carattere più simile ad una fantasia e suoi ritmi concitati e sincopati del secondo movimento fanno quasi pensare a un Robert Schumann, che all’epoca non era ancora nato!
    Esemplare le interpretazioni di Bavouzet, che riesce a imprimere a ogni sonata il giusto carattere, suonando con la consueta finezza ed eleganza. Come "bonus track" il pianista francese ci propone cinque esempi di affinità tra frammenti di sonate di Beethoven, Clementi Hummel e Dussek.
    Molto buona anche la qualità della registrazioni, che rende giustizia al suono nitido e preciso di Bavouzet e ci presenta un pianoforte piuttosto vicino e con una buona dinamica.
    Onestamente, confesso che quando ho visto che era uscito questo disco, sulle prime ho pensato che fosse di una noia mortale. Sono contento di essere stato smentito e di aver conosciuto compositori e opere di cui ignoravo l’esistenza. A questo punto non mi resta che aspettare le prossime due uscite (si tratta di un progetto suddiviso in 3 dischi), augurandomi che siano altrettanto belli.
  9. happygiraffe
    È un universo piuttosto animato e affollato quello che Robert Schumann ricreava con le sue composizioni per pianoforte! Personalità complessa e profondamente intrisa di cultura letteraria, Schumann amava affidare le varie sfaccettature del suo io a diversi personaggi che popolano i suoi lavori: a cominciare dal focoso e battagliero Florestano e il suo opposto, il sensibile e malinconico Eusebio, i due protagonisti della “lega dei compagni di Davide” che si battono contro il conservatorismo dei cosiddetti filistei; ma poi abbiamo anche i compositori suoi contemporanei Paganini e Chopin, le amiche Chiarina ed Estrella, le maschere della commedia dell’arte (tutti questi in Carnaval), un bambino e un poeta (in Kinderszenen), un cacciatore e addirittura un uccello profeta (in Waldszenen).
    Ma anche quando non compaiono esplicitamente nei titoli, sono i suoi due alter ego Florestano e Eusebio, con i quali Schumann firmava anche i suoi articoli sulla Neue Zeitschrift für Musik, la rivista musicale che aveva fondato insieme al suo insegnante e futuro suocero, che ricorrono più spesso in tutta la sua musica.
    Compositore e pianista al tempo stesso, almeno fino a quando non si infortunò gravemente alla mano e dovette cessare l'attività di concertista, Schumann compose moltissimo per il suo strumento. Ad eccezione delle tre sonate e della Fantasia, le opere pianistiche di Schumann sono prevalentemente raccolte di pezzi brevi, a volte brevissimi, incisivi, debordanti di folgoranti idee musicali, con uno stile compositivo immediatamente riconoscibile. 
    Qui di seguito abbiamo un elenco di ottimi dischi dedicati alla musica per pianoforte di Schumann. Nella selezione abbiamo spaziato nell'arco di diversi decenni, senza però andare fino alle incisioni storiche eccessivamente datate.
    Cominciamo dai russi e dal sommo Richter, che ci ha regalato incisioni meravigliose dedicate a Schumann.
    Qui le sue strepitose Waldszenen:

    La Fantasia:

    Memorabile anche questo disco della Regis (ma che ricompare periodicamente sotto altre etichette) con gli Etudes Symphoniques e i Bunte Blaetter:

    Un altro grandissimo interprete schumaniano è stato il mitico Horowitz, con un approccio totalmente agli antipodi da quello di Richter.
    Qui nelle Kinderszenen e nella Kreisleriana:

    Qui invece alle prese con Humoreske e terza sonata:

    Ci piace segnalare tra i russi anche il bravissimo Youri Egorov, purtroppo scomparso giovanissimo:

    Lasciando i pianisti russi, ma rimanendo ad Est, arriviamo a Geza Anda, purtroppo ultimamente un po' trascurato dalle etichette discografiche. Ricordo un doppio album della DG dedicato interamente a Schumann, ma ormai fuori catalogo da un pezzo. Vi propongo questo disco della Testament:

    Tra i tedeschi come non citare il grandisimo Wilhelm Kempff. Un economico cofanetto contenente cinque dischi incisi tra la fine degli anni '60 e gli inizi degli anni '70:

    C'è poi la generazione fortunata di Argerich, Pollini, Perahia, Ashkenazy e Lupu, ormai tutti oltre i 70 anni. Ecco alcuni dei loro migliori dischi dedicati a Schumann.
    Le Davidsbuendlertaenze di un giovane Perahia che rivelano la sua straordinaria affinità per il compositore tedesco:

    al quale fa idealmente seguito questo disco in cui un Perahia più maturo affronta la Kreisleriana e la prima sonata:
     
    E poi l'incantevole Schumann di Radu Lupu:

    agli antipodi dall'energico Pollini, sia in versione giovanile:

    che più matura:


    Non dimentichiamo l'integrale realizzata da Ashkenazy, già nell'era digitale, ora disponibile a un ottimo prezzo:

    Anche con Schumann la zampata felina di Martha Argerich ha lasciato il segno:

    In questi ultimi anni, invece, il polacco Piotr Anderszerwski si rivelato per uno dei migliori interpreti di Schumann. Bellissimo questo disco:

    Chiudiamo questa carrellata con le memorabili Waldszenen di Arcadi Volodos in questo bellissimo disco dal vivo:

    Chiudiamo qui la nostra personalissima selezione dedicata a chi voglia lanciarsi nel mondo di Schumann. Ovviamente se volete segnalarci altre incisioni, potete farlo qui di seguito!
  10. happygiraffe

    Beginners Guide
    Con ogni probabilità il compositore di musica per pianoforte più popolare e più eseguito, Chopin fu come un breve e luminoso lampo nel panorama musicale romantico. Il suo linguaggio musicale così originale sembra provenire dal nulla, così lontano dagli archetipi classici di Haydn e Beethoven, per poi svanire nel nulla, pur lasciando un impronta netta su molti compositori venuti dopo di lui.
    Nato in Polonia nel 1810, si trasferì nel 1830 a Parigi dopo la repressione russa della rivolta di novembre. Lì visse fino al 1849, anno della sua morte prematura, campando di lezioni di pianoforte e della vendita delle sue composizioni, tra continui problemi di salute e economici. Non fu il tipico pianista virtuoso dell’era romantica: in tutta la sua vita eseguì solo una trentina di concerti, preferendo esibirsi nei salotti della buona società parigina.
    A differenza di tanti altri compositori dello stesso periodo, Chopin fu totalmente incurante del modello classico e beethoveniano in particolare. Il suo stile sembra invece pescare nel repertorio della musica popolare da salotto, riadattandola a un linguaggio assolutamente originale e personale, in grado di restituire con straordinaria immediatezza e precisione i moti del suo animo, dalla malinconia allo slancio nazionalista, dalla passione più ardente ai fantasmi più cupi e febbrili.  
    Si dedicò quasi esclusivamente alla musica per pianoforte (con poche eccezioni, come i due concerti per pianoforte e la sonata per violoncello e pianoforte) e predilesse le forme brevi. Il suo catalogo si può riassumere piuttosto velocemente: da un lato musiche per così dire da salotto, Valzer, Polacche e Mazurche, ispirate alla danza, Preludi e Notturni, altre composizioni pensate per l’insegnamento, i suoi straordinari Etudes, altre ancora di stampo puramente virtuosistico, come i concerti. Ci sono poi altre pagine assolutamente uniche, innovative e originali, come le Ballate, gli Scherzi, la Berceuse e la Barcarolle. Ci sono infine le sonate per pianoforte.

    La partitura autografa della Polacca Op.53.
     
    Di dischi straordinari dedicati a Chopin ce ne sono molti. Quella che segue non ha la pretesa di essere la discografia definitiva, quanto piuttosto una serie di suggerimenti per chi si vuole avvicinare a questo compositore. Nella scelta abbiamo considerato alcune interpretazioni classiche  e giustamente note, così come alcune molto più recenti, lasciando da parte le incisioni storiche.
    Sonate
    Delle tre sonate per pianoforte, si ricordano solo la seconda, quella della famosissima "marcia funebre", e la terza, mentre la prima, scritta a 18 anni quando era ancora studente, non viene quasi mai eseguita.Tra le tantissime interpretazioni, segnaliamo quella dell'argentina Martha Argherich, vincitrice del Concorso Chopin nel 1965. Ardore, passione, tocco felino, tecnica straordinaria.


    Notturni
    I 21 Notturni sono il trionfo della melodia. Il polacco Arthur Rubinstein, che di Chopin fu un grande interprete, incise nel 1967 questa edizione che è passata alla storia. Lirismo e grande naturalezza senza scadere mai nel sentimentalismo.

    Per chi preferisse un'edizione più recente, segnalo questa del 2010 del brasiliano Nelson Freire:

    Mazurche
    Chopin scrisse ben 59 Mazurche nel corso della sua vita. Sono pagine brevi che traggono spunto dalla danza tradizionale polacca, ma che poi si sviluppano in modo assolutamente originale e molto vario. Questa è una selezione, suonata con grande immaginazione e straordinaria ricerca timbrica dal russo Pavel Kolesnikov (2016):

    Studi
    Nelle due raccolte di Studi, l'aspetto didattico e di esercizio su specifici problemi di tecnica diventa lo spunto per queste pagine di grande poesia. Maurizio Pollini, vincitore del Concorso Chopin nel 1960, nel 1972 ci regala un'interpretazione degli Etudes Op.10 e Op.25 caratterizzata da un grande vigore e da una dominio tecnico assoluto.

    Ballate
    Le Ballate sono una forma musicale nuova, inventata da Chopin che prese in prestito il loro nome dalla letteratura. Tecnicamente molto impegnative, sono tra le composizioni più felici e straordinarie del compositore polacco.
    Per le Ballades raccomandiamo questo disco del 1994 dell'americano Murray Perahia, per tecnica, inventiva e calore dell'interpretazione:

    Polacche
    Anche le Polacche prendono spunto dalla danza per esprimere i più incandescenti sentimenti nazionalistici dell'esule Chopin.
    Ancora Pollini in questa storica interpretazione del 1976. Uno Chopin epico, virile e appassionato:

    Preludi Op.28
    24 brevi e folgoranti composizioni scritte a Palma di Maiorca tra il 1835 e il 1839. Il polacco Rafal Blechacz, vincitore del Concorso Chopin nel 2005, incide per DG i Préludes Op.28 nel 2007. Una lettura di grande sensibilità e poesia.

    Scherzi
    Chopin compose quattro Scherzi tra iI 1831 e il 1842. Sono composizioni in cui prevale l'elemento rapsodico, accompagnato da drammatici contrasti.
    In questo straordinario disco del 2012 dell'inglese Benjamin Grosvenor, ne ascoltiamo una lettura vivace e elettrizzante.

    Concerti
    Sono pezzi di bravura di stampo chiaramente virtuosistico. L'accompagnamento orchestrale è poca roba, tutto ruota intorno al pianoforte (e come potrebbe essere diversamente?).
    Qui un'interpretazione classica, quella del 1999 di Martha Argerich e Charles Dutoit.

    E una recentissima edizione del 2019 in cui i concerti vengono eseguiti nella loro versione da camera per pianoforte (un bellissimo Erard del 1836) e quintetto d'archi:

    Recital
    Infine qualche recital che ha fatto storia.
    Un disco del 1972 interamente dedicato a Chopin da Arturo Benedetti Michelangeli. L'interpretazione delle 10 Mazurche è leggendaria. Quello che fa qui Benedetti Michelangeli con il suo pianoforte è realmente magico:

    Un altro disco storico, quello di Martha Argerich del 1965, freschissima vincitrice del concorso Chopin. Un uragano di energia e di passione: 

    Infine, le 4 Ballate con la Fantasia e la Barcarolle, nell'impeccabile lettura di Krystian Zimerman, vincitore del Concorso Chopin nel 1975. Su Zimerman i pareri si dividono, ma qui, al di là della consueta cura maniacale di ogni dettaglio, pare veramente ispirato.

     
    Buoni ascolti chopiniani!
  11. happygiraffe
    Oggi per lavoro mi è capitato di essere a Genova non molto lontano dal ponte Morandi. Già dall'autostrada la visione del cavalcavia spaccato a metà mi aveva riempito il cuore di angoscia e di rabbia. Poi casualmente ho intravisto questi bambini che giocavano a pallone con lo sfondo del ponte spezzato e mi sono fermato per fare uno scatto. 

    "La vita continua?" mi ha chiesto Mauro. Sì, la vita continua come sempre, ma la rabbia e l'angoscia rimangono, così come il senso di precarietà.
    Il contrasto in questa immagine è molto forte, spero di non urtare la sensibilità di nessuno. In caso contrario non avrò problemi a rimuoverla.
  12. happygiraffe
    Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Silvio Renesto il 15 agosto 2016 su nikonland.eu.
     
    La fotografia di Nick Brandt è unica, fortemente coinvolgente ed ha un solo scopo:  celebrare, non documentare, la bellezza, di più, la  grandezza della natura africana minacciata di distruzione. Nick Brandt fotografa per  consegnare questa natura  alla memoria, prima che scompaia, ma  lo fa nella speranza che qualcuno si muova in tempo per preservare quel che ne rimane.
    Nick Brandt nasce nel 1964 in Inghilterra, studia pittura e cinematografia alla Saint Martin's School of Art. All'inizio degli anni 90 si trasferisce negli USA dove dirige alcuni video musicali di successo tra cui uno con Michael Jackson.
     
     
     
    Nel 1995, durante le riprese di uno di questi video (Earth Song) ambientato in Tanzania, si innamora della natura e degli animali d'Africa. Per alcuni anni cerca di trasmettere senza successo le sue sensazioni nei confronti di questa terra.
    Poi ha un'intuizione, esprimerà questo sentimento tramite la fotografia, ma una fotografia diversa.
     
    Brandt infatti sceglie di fotografare in un modo completamente diverso da quasi tutti gli altri fotografi naturalisti. Le sue immagini sono molto lontane dalla vivacità di colori e dal dinamismo che si incontra nella quasi totalità della fotografia naturalistica di oggi. 
     

     
    Nick Brandt fotografa in bianco e  nero su pellicola medio formato e non usa teleobiettivi potenti perchè, secondo lui, sono di ostacolo nel catturare l'essenza degli animali, secondo Brandt, con gli animali è come con le persone, non puoi rivelarne la personalità con un ritratto  ripreso da lontano a loro insaputa.
    Devi essere vicino, presente (viene da chiedersi cosa faccia o cosa abbia per non venire mangiato dai leoni o calpestato da un elefante, come è successo ad altro fotografo famoso, Peter Beard, che se l'è cavata per un soffio).
    Afferma di amare le "sorprese" e le "imperfezioni"  della pellicola, come la luce interagisce in modo inaspettato con il negativo.
    Secondo lui le foto troppo perfette tecnicamente non necessariamente sono migliori o più interessanti.
     

     
     
    Dal 2000 inizia il suo progetto fotografico: non documentare, ma celebrare, la bellezza, direi la grandezza, della natura africana minacciata di distruzione, per consegnarla alla memoria, prima che scompaia, nella speranza che qualcuno si muova per preservare almeno quel che ne rimane.
     
    Il suo lavoro si concretizza in una trilogia di libri i cui titoli formano in sequenza un'unica frase: "On This Earth", "A Shadow Falls", "Across The Ravaged Land" (ossia "Su questa Terra" "Si proietta un'Ombra", "Su di una terra devastata"), oltre a numerosissime mostre.
     
     

     
     

     
     

     
     
     
    Nel 2010 esasperato dal contrabbando di avorio, causa della strage degli elefanti, diviene co-fondatore della Fondazione Big Life, per la conservazione della fauna (e della natura) dell'Africa Orientale, a questo proposito scrive:"There’s little use being angry and passive. Much better to be angry and active." Ossia "serve a poco essere arrabbiati e passivi,. Molto meglio essere arrabbiati e fare qualcosa".
    Come non essere d'accordo.
     
     

     
    La "cosa"  bianca è un cranio di elefante.
     
     

     
     

     
    Nel 2016 pubblica una mostra/installazione ed un  libro intitolati "Inherit the dust" (eredita la polvere) nella quale tramite una serie di imponenti foto panoramiche documenta l'impatto umano nell'Africa Orientale luoghi dove un tempo gli animali vagavano liberi, ora non più. In ogni location, pannelli a  grandezza naturale degli animali sono sovrapposti ad un ambiente di affollamento urbanistico, fabbriche, discariche e cave. 
     
     
     

     

    Non entro nel merito dell'aspetto conservazionistico, perchè lo ritengo un argomento lungo e complesso. Mi limito alla fotografia. 
    E' mia opinione che le sue foto siano il contrario (o comunque molto differenti come approccio) di quello che normalmente si intende come fotografia naturalistica, dove l'animale in genere viene rappresentato in modo da minimizzare o se possibile annullare (o almeno si finge di annullare) la presenza del fotografo.
    Inoltre le sue foto, a mio parere, hanno un certo/elevato grado di elaborazione, non so se digitale o "tradizionale", visto che parte da una pellicola.
     

     
     

     
    Ma questo non è  un giudizio negativo, al contrario.
    Le fotografie di Brandt non vogliono essere neutre oppure accattivanti rappresentazioni della vita animale, vogliono invece essere personali, appassionate testimonianze di un patrimonio di bellezza senza eguali, che  è già in gran parte perduto e presto scomparirà se nessuno farà nulla (come ahimé ritengo probabile). Le foto di Nick Brandt non sono descrizioni, sono... grida. 
     

     
     
    I suoi animali sono fieri, maestosi  o teneri, spesso tragici in un senso shakesperiano, una grandezza sconfitta dalla avidità e dalla meschinità (o forse dalla cinica, puramente darwiniana competizione di una specie molto, molto più aggressiva di quanto farebbero pensare i sui denti poco aguzzi).
     
     
     
     

     
     
     
     

     
     
    Le foto sono per me bellissime  e se non sono "spontanee" nel senso del purismo naturalistico poco importa. Toccano il cuore (a chi ne ha uno). E questo è quel che conta.
    Sono immagini forti, mi ricordano un po' alcune della "Genesi" di Salgado però, pur condividendo a volte  la possanza, quelle di Brandt sono intrise, di tristezza. Avete mai visto l'espressione di un gorilla allo zoo? Fiera e triste, così.
     
    Silvio Renesto per Nikonland
     
     
     
     
     
     
    PS, Tutte le foto sono prese da Internet e © Nick Brandt
     
    PPS Non guardate negli occhi uno scimpanzè invece, avendo il 96% del nostro DNA, un po' della "cattiveria" umana traspare...
     
  13. happygiraffe
    Riporto qui questo articolo scritto e pubblicato da Silvio Renesto sul suo blog su Nikonland.
    Da oltre  cinquant'anni Clyde Butcher ha creato emozionanti immagini in bianco e nero dei paesaggi naturali del Nord America. Le sue fotografie trasportano chi guarda nella bellezza primordiale dei vasti orizzonti, dei panorami infiniti e nello splendore,raramente visibile, della wilderness. Le sue immagini sono coinvolgenti e ci rammentano il legame che abbiamo con il mondo della natura.

    Clyde Butcher nacque in Kansas nel 1942. Da bambino disegnava navi o ne costruiva dei modelli con scarti di ferro nell'officina di suo padre lattoniere. Prese una Laurea in Architettura alla California Polytechnic State University. Fu allora che scoprì di non essere bravo a  disegnare e così decise di imparare da solo a fotografare per poter riprodurre i progetti di architettura senza disegnarli. Non avendo i soldi per acquistare una fotocamenra se ne costruì una a foro stenopeico. 
    Negli anni sessanta vide una mostra fotografica di Ansel Adams allo Yosemite National Park, ne rimase così impressionato che cominciò a fotografare in bianco e nero. Nel 1970 lasciò l'architettura e si iniziò a far vedere le sue fotografie in mostre locali. Nel 1971 iniziò una nuova attività "Eye encounter Inc." che consisteva nello stampare e vendere le sue fotografie di panorami selvaggi degli Sati Uniticome decorazioni murali per grandi magazzini. Per aumentare le vendite iniziò ad usare pellicole a colori e fotocamere a formato 13x18cm . Il giro d' affari crebbe vertiginosamente e Eye Encounter divenne una ditta con moltissimi dipendenti. Clyde vendette l'attività nel 1977 a causa dello stress eccessivo e si mise a girare la Florida in barca a vela. Si stabilì con la famiglia a Ft. Myers nel 1980, iniziando a  vendere i suoi paesaggi western a colori e fotografie di  temi diversi.
    Nel 1984 fu portato a visitare una palude di cipressi dentro al Big Cypress National Preserve. Questo, disse, gli rivelò un nuovo mondo. L'immersione nella bellezza della palude lo convinse a ritornare al bianco e nero. 

     


    Dopo la tragica morte del figlio diciassettenne nel  1986, Clyde trovò conforto solo nella vicinanza della natura selvaggia. Decise di tagliare ogni legame con la fotografia a colori e dedicarsi unicamente al bianco e nero. Acquistò una fotocamera formato 20x25 ed un ingranditore ed ebbe inizio la sua nuova vita di fotografo.

    Oltre alle Everglades per le quali è maggirmente famoso, Butcher si è impegnato a immortalare paesaggi naturali di tutto il  mondo. 
    La qualità ed importanza del suo lavoro gli hanno guadagnato ammirazione internazionale.  Butcher ha inoltre realizzato documentari sull'ambiente della Florida e ha pubblicato numerosi libri. 


    Al di là della bellezza intrinseca delle sue immagini, ciò che distingue le opere di Clyde Butcher sono le dimensioni gigantesche delle sue stampe, unite ad una nitidezza che ha dell'incredibile. Scegliendo accuratamente il formato del negativo a seconda dellel dimensionid el soggetto, Butcher riesce a produrre stampe nitidissime di dimensioni oltre i 160x300 cm,  che permettono all'osservatore di immergersi nei suoi panorami .

     

     

     

     

     
    “Cerco di usare la pellicola più grande possibile epr il soggetto che voglio fotografare. Se ho un ampio panorama uso un formato 30x65 (circa). se devo fotografare cose come l'Orchidea Fantasma lavoro con una 20x25" racconta Butcher.

    “Voglio che la gente guardi i miei lavori da vicino” dice Butcher a proposito del suo stampare in grandi dimensioni. “Molti non conoscono quello come si vede:si vede chiaramente solo una piccola parte del tutto e in natura l'occhio scorre continuamente da un particolare all'altro e questo ci da' la percezione dell'insieme. La chiave per riprodurre questa sensazione è la nitidezza. Una stampa  di tre metri e mezzo da un negativo 35mm sembrerà nitida se si rimane a distanza 10 metri, ma se ci si avvicina ad un metro sembrerà molto scarsa. Quindi per calarsi in  un' immagine grande e vederla bene occorre che abbia un dettaglio molto elevato.
    Stampa con una Epson Stylus 4800 or una stampante 11880 con inchiostri  Ultra-chrome K3  e carta Harman Hahnemuhle.
     
     
    Nota:  Qualche mese fa  Clyde Butcher è stato colpito da ictus che gli ha paralizzato il lato destro del corpo, ma ha già ripreso a muoversi con deambulatore ed è confidente che tornerà a fotografare  quanto prima. Glielo auguro di cuore
    Tutto questo e molto altro nel sito di Clyde Butcher
    https://clydebutcher.com
    Le foto sono (C) di Clyde Butcher mostrate qui al solo scopo di  illustrare la sua opera. Photos are (C) by Clyde Butcher shown here only to illustrate his art.
  14. happygiraffe
    Articolo scritto e pubblicato da Silvio Renesto nel suo blog.
     
    Ho scoperto Beth Moon per caso, le sue foto mi hanno subito  affascinato. Una visione intensa della natura, a volte drammatica, a volte cupa o sognante, mai leziosa o banale. Ne ho scritto già su Nikonland, ma ne scrivo qui in modo un po' più esteso e aggiungendo delle  foto.
    Forse le sue immagini più famose sono  i  ritratti ad alberi giganteschi o secolari. 
    Un patrimonio di meravigliosa antica bellezza, spesso  minacciato, che Beth Moon ci fa conoscere attraverso la sua   sensibilità, creando immagini di forte impatto emotivo.
     

     

     

     
     
    Lei stessa nel suo sito http://www.bethmoon....ouchWood00.html scrive:
     
    "Molti degli alberi che ho fotografato sono sopravvissuti perchè fuori dal raggio della civiltà...certi esistono solo in angoli remoti del mondo...
    i criteri che uso per sceglier eun particolare albero sono principalmente tre : l'età, le dimensioni immense o la storia importante... essendo i più grandi e più vecchi monumenti viventi della Terra, credo che questi alberi simbolici  abbiano un significato più vasto in un tempo in cui la nostra attenzione è concentrata nel trovare un modo migliore di convivere con l'ambiente".

    Majesty back. Le grandi querce.
    Sempre nel suo sito Beth Moon riporta quanto sul suo lavoro scrisse Jane Goodall :
     
    "Queste anziane sentinelle delle  foreste sono tra i più antichi esseri viventi del pianeta ed è disperatamente importante fare tutto quello che è in nostro potere per farle sopravvivere...voglio che i mie nipoti ... conoscano la meraviglia di questi alberi vivi e non solo tramite fotografia... I ritratti di Beth sicuramente ispireranno molti ... ad aiutare chi lavora per salvare questi magnifici alberi".



     
    Ma Beth Moon non si limita agli alberi.  

    Odin's Cove  (la Baia di Odino) è un portfolio fortemente gotico/romantico ispirato ai corvi di Odino. 

     
    Nella mitologia norrena, Huginn e Muninn sono due corvi che volano per il mondo cercando informazioni e  portando notizie al loro padrone, il dio nordico Odino.  Escono all'alba  e ritornano la sera, si posano sulle spalle del dio e gli sussurrano le notizie nelle orecchie. I loro nomi hanno un significato: nella lingua norrena  Huginn vuol dire pensiero e Muninn memoria.
     


    I Corvi Imperiali sono grandi e stupendi uccelli;  nelle immagini di Beth Moon sono al tempo stesso malinconici e potenti, sembrano davvero  venire  dalle brume di un altro mondo. 

     
     
    Beth Moon per la stampa utilizza anche quello che lei, citando John Stevenson, chiama "Nobile processo nell'era digitale": ossia una stampa al platino, che dice di essere nota per la luminosità e ampia scala tonale, in cui l'assenza di uno strato legante (binder layer)  permette ai cristalli di platino di venire incorporati nella carta dando una tridimensionalità unica.
    Oltre non mi addentro... perchè non so di cosa sto parlando     se Michele, bontà sua, vorrà spiegarci meglio di cosa si tratta gliene sarò grato. 

     Insomma,  non perdetevi il sito di Beth Moon e godetevi le sue immagini. 
     
    http://www.bethmoon.com
     
     
    DISCLAIMER: Va da sè che tutte le foto di questo reportage sono opera e proprietà esclusiva di Beth Moon,  qui riportate solo a scopo di illustrare la sua arte.
    All the photos here shown are  by Beth Moon and she has the exclusive copyright, and are  published here only to spread knowledge about her great art.
     
  15. happygiraffe
    Fotografo controverso, osannato da alcuni, disprezzato da altri, Martin Parr ha certamente lasciato il segno nel linguaggio fotografico degli ultimi 30 anni.
    Parr è noto per aver documentato la società inglese nei suoi aspetti più bizzarri e apparentemente banali, così come alcuni aspetti della società contemporanea come consumismo, turismo e cibo, con un'umorismo e uno stile facilmente riconoscibili.
    La prima raccolta di immagini a colori fu esposta a Londra nel 1986 con il titolo di "The Last Resort". Era stata realizzata a New Brighton e scatenò interminabili dibattiti e polemiche.

     

     

     

     

     

    Le immagini di Parr hanno il potere di far sorridere, ma anche di infastidire, di far riflettere e di far riflettere su noi stessi e sui nostri comportamenti.
    La prima volta che vidi questo foto rimasi molto turbato.
    Successivamente Parr si è occupato del turismo di massa e dei suoi riti tribali e nel 1995 pubblica Small World.

     

     

     

     

     

     

     

    Dice Parr della sua fotografia:"La cosa fondamentale che esploro costantemente è la differenza tra la mitologia di un posta e la sua realtà. ...Ricorda che io faccio fotografie serie mascherate da divertimento. Fa parte del mio mantra. Rendo le immagini accettabili in modo da trovare un pubblico, ma in profondità succedono molte cose che non sono immediatamente visibili in superficie. Se vuoi vederle allora puoi vederle".
    Parr fotografa a distanza ravvicinata, usa colori molto saturi e impiega spesso un flash ad anello.
    Fotografo bulimico, le sue immagini sono innumerevoli, ma sempre intorno ad alcuni temi per lui fondamentali.

     



     

     

     

     

     
    Le sue immagini sono inconfondibili: il suo spiccato sense of humour, a volte diventa sarcasmo e ad alcuni può apparire perfino snob, ma Parr ne ha per tutti a prescindere dagli strati sociali di appartenenza.
     

     

     

     

     

     
    L'inclusione come membro permanente della prestigiosa agenzia fotografica Magnum Photos nel 1994 avvenne a seguito di un accesso dibattito tra gli altri membri. 
    Parr dichiarò che "i fotografi Magnum si sentono come in dovere di partire per una crociata...in posti con carestia o guerre...mentre io esco e giro l'angolo dove c'è il supermercato, perché questa per me è la prima linea".
    Sorprendentemente nel 2014 fu eletto presidente di Magnum Photos.
     
    In un recente lavoro del 2016 documenta una zona dl West Yorkshire conosciuta come il triangolo del rabarbaro:



     
    Per chi fosse interessato ad approfondire:
    Martin Parr - Sito Web
    Martin Parr - Blog
     
    Nota: tutte le foto qui mostrate sono opera di Martin Parr e hanno l'unico scopo di illustrare la sua opera.
     

     
     
     

     
  16. happygiraffe
    Piotr Naskrecki è una figura particolare nel mondo della macrofotografia: scienziato e fotografo allo stesso tempo.  Usa la fotocamera per documentare le sue ricerche, ma anche per trasmettere al mondo la bellezza delle piccole creature che ci circondano, troppo spesso sconosciute o trascurate.
    Ebbi modo di intervistarlo "telematicamente" qualche tempo fa e questo mio contributo è in parte basato sul nostro scambio di email.
    Naskrecki ha lavorato al Museum of Comparative Zoology (Museo di Zoologia Comparata) all’Università di Harvard, a Cambridge, Massachussets (USA) e all'Università del Connecticut. La sua ricerca è incentrata soprattutto sull’evoluzione degli insetti ma  è anche coinvolto in numerosi progetti scientifici e di divulgazione correlati con la conservazione delle foreste pluviali tropicali.
    Il suo interesse per la macrofotografia è iniziato una ventina d'anni fa quando la moglie gli ha regalato per Natale una Nikon N 6006 (F601).  Dall'uso della fotocamera come mezzo per illustrare gli organismi su cui lavorava al fare della fotografia  una passione il passo è stato breve. Non è interessato fotografare uccelli o mammiferi, perché trova che il piccolo mondo che ci circonda sia molto più affascinante. Attualmente usa soprattutto  fotocamere ed obiettivi Canon.
     
    Come fotografo cerca sempre di portare alla luce la bellezza di quei soggetti che  sfugge ai nostri occhi per via delle dimensioni del mondo in cui noi siamo abituati a vivere. Rendendo i soggetti più grandi del reale, Naskrecki ci porta alla loro scala, permettendoci di vedere strutture, simmetrie e forme normalmente nascoste.

    Una splendida Mantide tropicale

    Nemia,  un Neurottero tropicale

    Typophyllum un ortottero mimetico
    Nello stesso tempo cerca di ricreare la prospettiva e la tridimensionalità di questo microscopico mondo. Per questo usa spesso i grandangoli (15-35mm) con un tubo di prolunga corto, in modo da focheggiare molto vicino pur mantenendo una prospettiva ampia e notevole profondità di campo in modo da cogliere l’ambiente in cui vive il soggetto.
     

    Un ortottero del Mozambico, ambientato.
     
     
     

    Un altro ortottero tropicale
    In altri contesti usa obiettivi macro e, per soggetti molto piccoli, come le formiche lavora a rapporti di riproduzione molto elevati sfruttando il Canon MPE 65mm, che arriva a 5:1.

     
    Se vuole includere qualcosa di più del solo soggetto centrale, usa grandangoli tradizionali
    Le sue gallerie sono diverse (ma ugualmente spettacolari), rivelando posture insolite, oppure interazioni fra (minuscoli) organismi, che per  venire ripresi, richiedono abilità ed esperienza. Per ottenere questi risulta occorre una grande conoscenza del soggetto. Ogni volta che inizia un nuovo progetto fotografico, comincia documentandosi approfonditamente in quanto una buona preparazione fondamentale se si è interessati al comportamento animale. Si può persino arrivare ad osservare e documentare comportamenti che nessun altro ha mai visto prima.
    Naskrecki rimane comunque  prima uno scienziato e poi un fotografo. Usa la fotografia principalmente per documentare il suo  lavoro e come strumento educativo alla comprensione del comportamento animale e alla
    conservazione della natura.

    Raganella tropicale, Papua Nuova Guinea

    Pronto al duello... Granchio del Costarica
     
    Ma a parte la documentazione scientifica,  quando fotografa,  il  messaggio principale che Naskrecki cerca di trasmettere con le sue foto è che esiste un mondo bellissimo e complesso costituito da organismi di cui  pochissima gente sa qualcosa. Si tratta invece di membri affascinanti, coloratissimi e di fondamentale importanza per la sopravvivenza delle comunità biologiche. Spesso sono minacciati quanto  i panda e le tigri, ma ricevono poca attenzione dal pubblico e dai conservazionisti, solo perché in pochi sanno della loro esistenza. Mostrarli da vicino è il primo passo per apprezzarli e proteggerli.

    Piotr Naskrecki, (dal sito Uconn Today)
    Non perdetevi il suo interessantissimo sito:
    http://www.insectphotography.com/
    E il suo fantastico Blog:
    https://thesmallermajority.com/
     
    NOTA: Tutte le foto sono (c) di Piotr Naskrecki, qui mostrate solo allo scopo di illustrare la sua opera ad esclusione del suo ritratto, preso dal sito Uconn Today.
    DISCLAIMER: All the photos shown here are (c) by Piotr Naskrecki, published here only to illustrate his  work, apart for his portrait, taken from the site Uconn Today.
     
  17. happygiraffe

     
     
    Pur essendo una figura centrale nella storia della fotografia e specialmente nella fotografia di strada, è ancora poco conosciuto dal grande pubblico.
    Garry Winogrand rifiutava la definizione di fotografo di strada, preferiva definirsi uno studioso dell’America. E infatti si ispirò alla fotografia sociale di Walker Evans e Robert Frank, con uno sguardo però più vitale e gioioso.
    Nel corso della sua vita realizzò una cronaca quotidiana della vita metropolitana americana, specialmente a New York, città in cui è nato e vissuto a lungo (nacque nel Bronx), ma anche sulla West Coast.
     
     
    Richard Nixon Campaign Rally. New York, 1960.
     
     
    New York, 1962.
     
    Garry Winogrand fotografava “per vedere a cosa somigliavano le cose una volta fotografate”.
     
    Non fotografa a progetto, rifiutava l’intellettualizzazione del proprio lavoro. Fotografa la vita davanti a se con il suo stile unico, di cui bisogna prendere tutto: l’eleganza, la vitalità, l’assenza di volgarità, l’umorismo, così come le inquadrature sbilenche, parti di immagini sovraesposte o messe a fuoco imprecise.
     
     
    Park Avenue. New york, 1959.
     
     
    Los Angeles, 1980-1983.
     
     
    Houston, 1964.
     
     
    New York, 1962.
     
    “Quando fotografo vedo la vita. E’ questo quello con cui ho a che fare”. Il suo sguardo curioso sul mondo che lo circonda è sempre molto democratico, ironico a volte, ma mai cinico.
     
     
    New York, 1968.
     
     
    El Morocco. New York, 1955.
     
     
     
     
    Usava una Leica M3-M4, focali corte, tipicamente 28 e 35mm. Questo significa che si avvicinava molto ai suoi soggetti. Dei filmati lo ritraggono mentre passeggia frenetico per la strada, si ferma, si gira, si guarda intorno inquieto con una mimica buffissima, poi scatta a dei passanti a pochi cm da loro, sfoderando il suo disarmante sorriso.
     
    Non faceva proprio niente per nascondersi, anzi, senza che le persone fotografate si risentissero o protestassero.
     
     

     

     
     
    Qui una sua celebre foto:
     
     Central Park Zoo. New York, 1967.
     
    E il "backstage":
     
    «A volte mi sembra che il mondo intero sia un teatro per cui ho comprato il biglietto. Un grande spettacolo a me destinato»:
     
     
    New York's World Fair, 1964.
     
    E la sensazione nella foto qui sopra è che si godesse proprio lo spettacolo! Un'immagine così apparentemente banale e intrigante al tempo stesso.
    Per non parlare di questa, assolutamente cinematografica:
     
     
    Los Angeles, 1964.
     
    Stroncato nel 1984 di un tumore fulminante, lascia un archivio sterminato che continuerà a sfornare capolavori inediti ancora per molti anni.
     
     
    Democratic National Convention. Los Angeles, 1960.
     
    Winogrand scrisse a margine del suo libro del 1960 "Women are beautiful"  :
    "Io non so se tutte le donne in queste fotografie sono belle, ma so che tutte le donne sono belle in fotografia"
     
     
     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     
     
    “I think that those kind of distinctions and lists of titles like “street photographer” are so stupid.”
     
     

     

     

     

     
     
    animali e umani senza distinzione, pari dignità
     
     

     

     

     

     
     
     
    sostanzialmente ingiusto classificarlo dentro la gabbia del "fotografo di street", una definizione che va decisamente stretta ad un curioso che voleva  vedere a cosa somigliavano le cose una volta fotografate  rifiutando progetti, concettualizzazioni e intellettualità.
     

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