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happygiraffe

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Blog Entries pubblicato da happygiraffe

  1. happygiraffe

    Recensioni : Pianoforte
    Ivan Moravec: Portrait.
    Supraphon, 2020.
    ***
    Supraphon rende omaggio allo straordinario pianista ceco Ivan Moravec (1930-2015) nel novantesimo anniversario della sua nascita. Lo fa nel migliore dei mondi, ovvero con un bel cofanetto di 11 cd e 1 DVD che raccolgono alcune delle sue migliori registrazioni, talune inedite, prendendole dal proprio catalogo, ma attingendo anche da materiale di altre etichette, come Vox, Nonesuch, e Connoisseur Society.
    Conosciuto più dagli intenditori che dal grande pubblico, Moravec fu un pianista incredibile, dotato di una tecnica del suono molto raffinata e di capacità interpretative che hanno dato il meglio nel repertorio di Chopin e Debussy.
    La raccolta si apre con tre concerti di Mozart (14, 23, 25), non quelli con Neville Marriner, ma quelli precedenti (1973-74) con la Czech Chamber Orchestra e la Czech Philarmonic Orchestra. 
    Seguono due dischi dedicati a Beethoven, con un paio di concerti e diverse sonate. Svetta un quarto concerto da antologia con l’orchestra del Musikverein diretta da Turnovsky. Bellissime l’Op.90 e Les Adieux, ma il livello è sempre molto alto.
    Si apre poi una sezione dedicata a Chopin: 3 dischi con le ballate, gli scherzi, i 24 preludi, la seconda sonata, la barcarole e un buon numero di mazurche. Moravec riesce a far cantare Chopin come pochi altri, con una sottilissima varietà di timbri e un uso del rubato tanto raffinati quanto assolutamente naturali all’orecchio di chi ascolta. Seppure Moravec pare che fosse un perfezionista maniacale nella messa a punto dello strumento, nell’ascolto non si percepisce nessuna volontà di controllo assoluta, come purtroppo spesso succede, ma si assiste semplicemente a un poeta del pianoforte, che fa uso della tastiera e della propria tecnica come di un mezzo per parlarci con la voce del compositore. In questo senso i Préludes sono emblematici e valgono da soli l’acquisto di questo cofanetto. 
    Dopo un paio di dischi dedicati a Schumann e Brahms (ahimè non tutti i brani sono disponibili nella versione online disponibile su Qobuz), si giunge a un paio di dischi dedicati a Debussy, Ravel e Franck. Viene dato molto spazio a Debussy (i due libri di Images, poi Estampes, Pour le Piano, Childern’s Corner e una selezioni di Preludi di entrambi i libri) e si capisce il perché: è una gioia da ascoltare! Moravec riesce a far parlare questa musica come pochi altri, una vera delizia. Anche il Prélude, Choral et Fugue di César Franck, pezzo stupendo, è da antologia.
    L’ultimo disco della raccolta è dedicato a musiche di Janacek, Martinu e Smetana, ma anche qui, probabilmente per un problema di accordi con gli editori, non tutto il materiale è disponibile nella versione online che ho ascoltato su Qobuz.
    Un DVD, che non ho visto, raccoglie un documentario su Moravec e ancora tanta musica (Beethoven, Prokofiev, Mozart e Ravel).
    Fa da complemento a questa bella raccolta un libretto esemplare, contenente tutte le informazioni sulle diverse registrazioni, un breve saggio dell’amico Murray Perahia e una lunga intervista a Moravec.
    Complimenti a Supraphon che ha realizzato questo “portrait” in modo davvero ineccepibile, un vero e proprio gesto d’amore che va oltre il semplice progetto editoriale e che ci fa trasparire l’ammirazione e il rispetto che ancora devono portare per questo pianista. 
    Chiaramente qui non c’è tutto il lascito discografico di Moravec: Supraphon ha lasciato fuori qualche pezzo forte come i Notturni di Chopin e gran parte del materiale che qui non è presente è stato pubblicato da etichette diverse. Speriamo in un futuro secondo volume, ma intanto ci godiamo questo con gratitudine!
  2. happygiraffe
    Stravinsky: Serenata in La.
    Prokofiev: Sarcasms, Op. 17.
    Prokofiev: Sonata No. 8, Op. 84.
    Prokofiev: Cenerentola - Tre pezzi per pianoforte, Op. 95, Gavotta.
    Stravinsky: L'Uccello di Fuoco (Trascrizione di Guido Agosti).
    Prokofiev: Concerto per pianoforte No. 2, Op. 16.
    Stravinsky: Tre movimenti da Petrouchka.
    Scriabin: Concerto per pianoforte Op. 20.
    Daniil Trifonov, pianoforte, Mariinsky (Kirov) Orchestra, Valéry Gergiev.
    DG 2020
    ***
    E’ curioso seguire le carriere parallele di quelli che probabilmente sono le due superstar maschili del pianismo odierno e che casualmente provengono dalla stessa città. Parlo di Igor Levit e Daniil Trifonov, entrambi nati a Nizhny Novgorod (Gorky) a pochi anni di distanza. In realtà, al di la della città natale in comune, le similitudini tra i due si fermano qui. Tanto Levit, che poi ha studiato in Germania, è ancorato al repertorio classico tedesco (Bach, Beethoven, Schumann, Brahms) con puntate nella musica moderna e contemporanea, quanto Trifonov predilige il repertorio pianistico più virtuosistico, da Chopin a Liszt, fino a Rachmaninov. Tanto Levit sembra seguire un approccio più intellettualistico (l’ultimo disco, Encounter, sembra portarci in un viaggio tanto introspettivo e riflessivo da risultare alla fine piuttosto difficile da digerire), quanto Trifonov in quest’ultimo disco sembra divertirsi con gli aspetti più scintillanti e esteriori del modernismo russo dei primi del ‘900.
    “The Silver Age”, così hanno voluto intitolare questo disco, ha un programma molto eterogeneo di musiche per piano solo e per piano e orchestra di Stravinsky, Prokofiev e Scriabin. 
    In realtà forse è proprio il programma il punto debole di questo disco: troppo vasto, poco coeso, con una scaletta poco intuitiva. E cosa c’entra poi il giovanile e chopiniano concerto di Scriabin? Come se si fosse voluto trovare qualcosa per riempire il secondo disco…
    Al di là di queste mie perplessità, ho trovato le interpretazioni di Trifonov in questo disco sempre di ottimo livello quando non straordinarie. A partire dalla Serenata in La di Stravinsky e dai Sarcasmes di Prokofiev, pezzi se vogliamo minori, ma comunque interessanti e piacevoli, resi con grande energia e brillantezza. 
    Segue la misteriosa e sempre difficile da interpretare sonata n.8 di Prokofiev, certamente la meno drammatica del trio delle sonate “di guerra”. I tempi sono misurati, non eccessivamente rapidi nel  primo movimento come spesso si sente da altri pianisti. Pur non mancando momenti di grande poesia, non ho trovato questa interpretazione migliore di altre recenti (Osborne, Melnikov), per non parlare della distanza che la separa dalla potenza evocativa del grande Gilels, ma quelli erano altri tempi e sensibilità diverse.
    Passiamo quindi a quelli che mi sono parsi i momenti migliori di questo doppio album, ovvero le trascrizioni dell’Uccello di Fuoco di Stravinsky di Guido Agosti e quella celebre di Petroucka dello stesso Stravinsky. E’ interessante confrontare entrambi i pezzi con le interpretazioni contenute nell’ultimo bellissimo disco di Beatrice Rana. Se Rana era straordinaria nel ricreare i colori e l’energia dell’orchestra,  Trifonov predilige una lettura di stampo puramente neoclassico: il suono è limpido e cristallino, non sembra di ascoltare alcune delle pagine più difficili del repertorio pianistico del ‘900 (Weissenberg confessava che la prima che ha guardato la partitura di Petrouchka aveva pensato che gli servisse una terza mano!) tanto tutto sembra uscire facilmente dalle mani prodigiose del russo. L’interpretazione di Petrouchka è meno istrionica rispetto ad alcune esibizioni dal vivo che si trovano in rete e anzi ricorda quella che doveva essere la grazia dei balletti russi dei primi del ‘900. 
    Nella seconda parte di questo doppio album, Trifonov è accompagnato dall’orchestra Mariinsky diretta da Gergiev nel secondo concerto di Prokofiev e in quello di Scriabin. 
    Il concerto di Prokofiev suona energico e scintillante, con l’orchestra che ben supporta il suono preciso e ricco di sfumature del suo solista. L’interpretazione è nel complesso di ottimo livello, anche se rispetto ad altre può apparire meno coinvolgente.
    Il concerto di Scriabin, eseguito davvero di rado, è quello che è: un lavoro giovanile, se pur molto brillante, e poco rappresentativo del genio del compositore che ancora doveva rivelarsi. 
    In conclusione, un album che contiene momenti di grande bellezza (la Serenata, i Sarcasmes, l’Uccello di fuco e Petrouchka), ma che soffre di un programma davvero ipertrofico e non sempre allo stesso livello. Trifonov ha comunque due mani straordinarie, per cui, al di là delle nostre preferenze, ne raccomando in ogni caso l’ascolto.
  3. happygiraffe
    Variations on folk songs, musiche di Beethoven, Kuhlau, Doppler, Walckiers.
    Anna Besson, flauto; Olga Pashchenko, pianoforte.
    Alpha, 2020.
    ***
    Lo sapevate che le due opere che precedono e seguono nel catalogo beethoveniano la monumentale e metafisica sonata per pianoforte op.106 sono due ben più leggere raccolte di arie e variazioni su temi popolari per flauto e pianoforte?
    La flautista Anna Besson, accompagnata al pianoforte da Olga Pashchenko, ci accompagna in un giro per l’Europa della prima metà dell’ottocento, con un programma di musiche che prendono origine da canti popolari.
    Si comincia con la bellissima Fantasia pastorale ungherese di Franz Doppler, virtuoso del flauto oltre che compositore, per poi proseguire con una selezione delle due raccolte di “temi variati per flauto e pianoforte” Op 105 e op.107 di Beethoven, opere facili e orecchiabili, ma non prive di fascino. Tra le due raccolte ascoltiamo il movimento lento della Grande Sonata Op.83 n.1 di Frederich Kuhlau, “Variazioni su un’aria antica svedese”. Il programma si conclude con il rondò “auvergnat” di Eugène Walckiers e le splendide Arie Valacche Op.10 ancora di Doppler.
    Le due artiste suonano su magnifici strumenti d’epoca dai quali sfoderano una gamma di timbri di grande fascino, riuscendo a restituire splendidamente il carattere di ogni brano. 
    Con questo disco Anna Besson e Olga Pashenko ci fanno conoscere un repertorio poco conosciuto e se vogliamo leggero, ma non per questo poco godibile.
    Un piccolo gioiello!
  4. happygiraffe
    The Beethoven connection, Vol.1
    Jean-Efflam Bavouzet, pianoforte.
    Joseph Wölfl (1773-1812), sonata Op.33 N.3 (1805).
    Muzio Clementi (1752-1832), sonata Op.50 n.1 (1804-21).
    Johann Nepomuk Hummel (1778-1837), sonata n.3, Op.20 (1807).
    Jan Ladislav Dussek (1760-1812), sonata Op.61, C 211 (1806-1807)
    Chandos, 2020.
    ***
    Si sa che il 2020 è stato un anno di celebrazioni beethoveniane e sono fioccate nuove incisioni delle pagine più o meno celebri del genio di Bonn. Pur avendo già registrato pochi anni fa una bella integrale delle sonate, non si è lasciato trovare impreparato o a corto di idee il bravo pianista francese Jean-Efflam Bavouzet.
    È così che, anziché proporci musiche di Beethoven, ha scelto di offrirci pagine di musicisti contemporanei a Beethoven all’epoca piuttosto noti, ma che oggi sono conosciuti per lo più dagli addetti ai lavori.
    A quei tempi Beethoven non era certo l’unico compositore a scrivere musica per pianoforte (o fortepiano) e se i suoi illustri predecessori (Mozart e Haydn) sono celebri, sappiamo probabilmente meno di che tipo di musica scrivevano i suoi contemporanei. L’intento del disco, ben spiegato nelle ottime note di copertina, è proprio quello di farci capire “il linguaggio comune dell’epoca” e mostrare che i capolavori di Beethoven non originano dal nulla, ma da un contesto musicale florido con cui tanto aveva in comune.
    Bavouzet ci invita quindi a cogliere le influenze di Beethoven sui contemporanei così come le quelle di questi ultimi su Beethoven stesso.
    Sono tutti lavori composti tra il 1804 e il 1809, periodo in cui Beethoven sfornava capolavori come la Waldstein (1803), l’Appassionata (1805) e Les adieux (1810) e, sebbene sia evidente che le sonate di questo disco non vi si avvicinino neanche lontanamente, possiamo cogliere molte affinità, soprattutto con le precedenti sonate beethoveniane.
    La sonata in Mi maggiore di Joseph Wölfl ci stupisce per grazia e fantasia. La sonata Op.50 n.1 di Muzio Clementi è forse la meno interessante del disco, ma è noto quanto il compositore romano contribuì all’evoluzione della tecnica e del linguaggio pianistico di quell’epoca e quanto fosse tenuto in considerazione dallo stesso Beethoven.
    Brillante, virtuosa e audace la terza sonata di Johann Nepomuk Hummel, che all'epoca venica considerato l’erede di Mozart e che fu il successore di Haydn come direttore d’orchestra presso il principe Esterházy.
    Molto bella la sonata in due movimenti Op.61 “elegia armonica” di Jan Ladislav Dussek, quella che più di tutte riesce a guardare avanti nel tempo e che possiamo tranquillamente definire pre-romantica. Con il suo carattere più simile ad una fantasia e suoi ritmi concitati e sincopati del secondo movimento fanno quasi pensare a un Robert Schumann, che all’epoca non era ancora nato!
    Esemplare le interpretazioni di Bavouzet, che riesce a imprimere a ogni sonata il giusto carattere, suonando con la consueta finezza ed eleganza. Come "bonus track" il pianista francese ci propone cinque esempi di affinità tra frammenti di sonate di Beethoven, Clementi Hummel e Dussek.
    Molto buona anche la qualità della registrazioni, che rende giustizia al suono nitido e preciso di Bavouzet e ci presenta un pianoforte piuttosto vicino e con una buona dinamica.
    Onestamente, confesso che quando ho visto che era uscito questo disco, sulle prime ho pensato che fosse di una noia mortale. Sono contento di essere stato smentito e di aver conosciuto compositori e opere di cui ignoravo l’esistenza. A questo punto non mi resta che aspettare le prossime due uscite (si tratta di un progetto suddiviso in 3 dischi), augurandomi che siano altrettanto belli.
  5. happygiraffe

    Beginners Guide
    Con ogni probabilità il compositore di musica per pianoforte più popolare e più eseguito, Chopin fu come un breve e luminoso lampo nel panorama musicale romantico. Il suo linguaggio musicale così originale sembra provenire dal nulla, così lontano dagli archetipi classici di Haydn e Beethoven, per poi svanire nel nulla, pur lasciando un impronta netta su molti compositori venuti dopo di lui.
    Nato in Polonia nel 1810, si trasferì nel 1830 a Parigi dopo la repressione russa della rivolta di novembre. Lì visse fino al 1849, anno della sua morte prematura, campando di lezioni di pianoforte e della vendita delle sue composizioni, tra continui problemi di salute e economici. Non fu il tipico pianista virtuoso dell’era romantica: in tutta la sua vita eseguì solo una trentina di concerti, preferendo esibirsi nei salotti della buona società parigina.
    A differenza di tanti altri compositori dello stesso periodo, Chopin fu totalmente incurante del modello classico e beethoveniano in particolare. Il suo stile sembra invece pescare nel repertorio della musica popolare da salotto, riadattandola a un linguaggio assolutamente originale e personale, in grado di restituire con straordinaria immediatezza e precisione i moti del suo animo, dalla malinconia allo slancio nazionalista, dalla passione più ardente ai fantasmi più cupi e febbrili.  
    Si dedicò quasi esclusivamente alla musica per pianoforte (con poche eccezioni, come i due concerti per pianoforte e la sonata per violoncello e pianoforte) e predilesse le forme brevi. Il suo catalogo si può riassumere piuttosto velocemente: da un lato musiche per così dire da salotto, Valzer, Polacche e Mazurche, ispirate alla danza, Preludi e Notturni, altre composizioni pensate per l’insegnamento, i suoi straordinari Etudes, altre ancora di stampo puramente virtuosistico, come i concerti. Ci sono poi altre pagine assolutamente uniche, innovative e originali, come le Ballate, gli Scherzi, la Berceuse e la Barcarolle. Ci sono infine le sonate per pianoforte.

    La partitura autografa della Polacca Op.53.
     
    Di dischi straordinari dedicati a Chopin ce ne sono molti. Quella che segue non ha la pretesa di essere la discografia definitiva, quanto piuttosto una serie di suggerimenti per chi si vuole avvicinare a questo compositore. Nella scelta abbiamo considerato alcune interpretazioni classiche  e giustamente note, così come alcune molto più recenti, lasciando da parte le incisioni storiche.
    Sonate
    Delle tre sonate per pianoforte, si ricordano solo la seconda, quella della famosissima "marcia funebre", e la terza, mentre la prima, scritta a 18 anni quando era ancora studente, non viene quasi mai eseguita.Tra le tantissime interpretazioni, segnaliamo quella dell'argentina Martha Argherich, vincitrice del Concorso Chopin nel 1965. Ardore, passione, tocco felino, tecnica straordinaria.


    Notturni
    I 21 Notturni sono il trionfo della melodia. Il polacco Arthur Rubinstein, che di Chopin fu un grande interprete, incise nel 1967 questa edizione che è passata alla storia. Lirismo e grande naturalezza senza scadere mai nel sentimentalismo.

    Per chi preferisse un'edizione più recente, segnalo questa del 2010 del brasiliano Nelson Freire:

    Mazurche
    Chopin scrisse ben 59 Mazurche nel corso della sua vita. Sono pagine brevi che traggono spunto dalla danza tradizionale polacca, ma che poi si sviluppano in modo assolutamente originale e molto vario. Questa è una selezione, suonata con grande immaginazione e straordinaria ricerca timbrica dal russo Pavel Kolesnikov (2016):

    Studi
    Nelle due raccolte di Studi, l'aspetto didattico e di esercizio su specifici problemi di tecnica diventa lo spunto per queste pagine di grande poesia. Maurizio Pollini, vincitore del Concorso Chopin nel 1960, nel 1972 ci regala un'interpretazione degli Etudes Op.10 e Op.25 caratterizzata da un grande vigore e da una dominio tecnico assoluto.

    Ballate
    Le Ballate sono una forma musicale nuova, inventata da Chopin che prese in prestito il loro nome dalla letteratura. Tecnicamente molto impegnative, sono tra le composizioni più felici e straordinarie del compositore polacco.
    Per le Ballades raccomandiamo questo disco del 1994 dell'americano Murray Perahia, per tecnica, inventiva e calore dell'interpretazione:

    Polacche
    Anche le Polacche prendono spunto dalla danza per esprimere i più incandescenti sentimenti nazionalistici dell'esule Chopin.
    Ancora Pollini in questa storica interpretazione del 1976. Uno Chopin epico, virile e appassionato:

    Preludi Op.28
    24 brevi e folgoranti composizioni scritte a Palma di Maiorca tra il 1835 e il 1839. Il polacco Rafal Blechacz, vincitore del Concorso Chopin nel 2005, incide per DG i Préludes Op.28 nel 2007. Una lettura di grande sensibilità e poesia.

    Scherzi
    Chopin compose quattro Scherzi tra iI 1831 e il 1842. Sono composizioni in cui prevale l'elemento rapsodico, accompagnato da drammatici contrasti.
    In questo straordinario disco del 2012 dell'inglese Benjamin Grosvenor, ne ascoltiamo una lettura vivace e elettrizzante.

    Concerti
    Sono pezzi di bravura di stampo chiaramente virtuosistico. L'accompagnamento orchestrale è poca roba, tutto ruota intorno al pianoforte (e come potrebbe essere diversamente?).
    Qui un'interpretazione classica, quella del 1999 di Martha Argerich e Charles Dutoit.

    E una recentissima edizione del 2019 in cui i concerti vengono eseguiti nella loro versione da camera per pianoforte (un bellissimo Erard del 1836) e quintetto d'archi:

    Recital
    Infine qualche recital che ha fatto storia.
    Un disco del 1972 interamente dedicato a Chopin da Arturo Benedetti Michelangeli. L'interpretazione delle 10 Mazurche è leggendaria. Quello che fa qui Benedetti Michelangeli con il suo pianoforte è realmente magico:

    Un altro disco storico, quello di Martha Argerich del 1965, freschissima vincitrice del concorso Chopin. Un uragano di energia e di passione: 

    Infine, le 4 Ballate con la Fantasia e la Barcarolle, nell'impeccabile lettura di Krystian Zimerman, vincitore del Concorso Chopin nel 1975. Su Zimerman i pareri si dividono, ma qui, al di là della consueta cura maniacale di ogni dettaglio, pare veramente ispirato.

     
    Buoni ascolti chopiniani!
  6. happygiraffe
    È un universo piuttosto animato e affollato quello che Robert Schumann ricreava con le sue composizioni per pianoforte! Personalità complessa e profondamente intrisa di cultura letteraria, Schumann amava affidare le varie sfaccettature del suo io a diversi personaggi che popolano i suoi lavori: a cominciare dal focoso e battagliero Florestano e il suo opposto, il sensibile e malinconico Eusebio, i due protagonisti della “lega dei compagni di Davide” che si battono contro il conservatorismo dei cosiddetti filistei; ma poi abbiamo anche i compositori suoi contemporanei Paganini e Chopin, le amiche Chiarina ed Estrella, le maschere della commedia dell’arte (tutti questi in Carnaval), un bambino e un poeta (in Kinderszenen), un cacciatore e addirittura un uccello profeta (in Waldszenen).
    Ma anche quando non compaiono esplicitamente nei titoli, sono i suoi due alter ego Florestano e Eusebio, con i quali Schumann firmava anche i suoi articoli sulla Neue Zeitschrift für Musik, la rivista musicale che aveva fondato insieme al suo insegnante e futuro suocero, che ricorrono più spesso in tutta la sua musica.
    Compositore e pianista al tempo stesso, almeno fino a quando non si infortunò gravemente alla mano e dovette cessare l'attività di concertista, Schumann compose moltissimo per il suo strumento. Ad eccezione delle tre sonate e della Fantasia, le opere pianistiche di Schumann sono prevalentemente raccolte di pezzi brevi, a volte brevissimi, incisivi, debordanti di folgoranti idee musicali, con uno stile compositivo immediatamente riconoscibile. 
    Qui di seguito abbiamo un elenco di ottimi dischi dedicati alla musica per pianoforte di Schumann. Nella selezione abbiamo spaziato nell'arco di diversi decenni, senza però andare fino alle incisioni storiche eccessivamente datate.
    Cominciamo dai russi e dal sommo Richter, che ci ha regalato incisioni meravigliose dedicate a Schumann.
    Qui le sue strepitose Waldszenen:

    La Fantasia:

    Memorabile anche questo disco della Regis (ma che ricompare periodicamente sotto altre etichette) con gli Etudes Symphoniques e i Bunte Blaetter:

    Un altro grandissimo interprete schumaniano è stato il mitico Horowitz, con un approccio totalmente agli antipodi da quello di Richter.
    Qui nelle Kinderszenen e nella Kreisleriana:

    Qui invece alle prese con Humoreske e terza sonata:

    Ci piace segnalare tra i russi anche il bravissimo Youri Egorov, purtroppo scomparso giovanissimo:

    Lasciando i pianisti russi, ma rimanendo ad Est, arriviamo a Geza Anda, purtroppo ultimamente un po' trascurato dalle etichette discografiche. Ricordo un doppio album della DG dedicato interamente a Schumann, ma ormai fuori catalogo da un pezzo. Vi propongo questo disco della Testament:

    Tra i tedeschi come non citare il grandisimo Wilhelm Kempff. Un economico cofanetto contenente cinque dischi incisi tra la fine degli anni '60 e gli inizi degli anni '70:

    C'è poi la generazione fortunata di Argerich, Pollini, Perahia, Ashkenazy e Lupu, ormai tutti oltre i 70 anni. Ecco alcuni dei loro migliori dischi dedicati a Schumann.
    Le Davidsbuendlertaenze di un giovane Perahia che rivelano la sua straordinaria affinità per il compositore tedesco:

    al quale fa idealmente seguito questo disco in cui un Perahia più maturo affronta la Kreisleriana e la prima sonata:
     
    E poi l'incantevole Schumann di Radu Lupu:

    agli antipodi dall'energico Pollini, sia in versione giovanile:

    che più matura:


    Non dimentichiamo l'integrale realizzata da Ashkenazy, già nell'era digitale, ora disponibile a un ottimo prezzo:

    Anche con Schumann la zampata felina di Martha Argerich ha lasciato il segno:

    In questi ultimi anni, invece, il polacco Piotr Anderszerwski si rivelato per uno dei migliori interpreti di Schumann. Bellissimo questo disco:

    Chiudiamo questa carrellata con le memorabili Waldszenen di Arcadi Volodos in questo bellissimo disco dal vivo:

    Chiudiamo qui la nostra personalissima selezione dedicata a chi voglia lanciarsi nel mondo di Schumann. Ovviamente se volete segnalarci altre incisioni, potete farlo qui di seguito!
  7. happygiraffe
    Oggi per lavoro mi è capitato di essere a Genova non molto lontano dal ponte Morandi. Già dall'autostrada la visione del cavalcavia spaccato a metà mi aveva riempito il cuore di angoscia e di rabbia. Poi casualmente ho intravisto questi bambini che giocavano a pallone con lo sfondo del ponte spezzato e mi sono fermato per fare uno scatto. 

    "La vita continua?" mi ha chiesto Mauro. Sì, la vita continua come sempre, ma la rabbia e l'angoscia rimangono, così come il senso di precarietà.
    Il contrasto in questa immagine è molto forte, spero di non urtare la sensibilità di nessuno. In caso contrario non avrò problemi a rimuoverla.
  8. happygiraffe
    Questo articolo è stato scritto e pubblicato da Silvio Renesto il 15 agosto 2016 su nikonland.eu.
     
    La fotografia di Nick Brandt è unica, fortemente coinvolgente ed ha un solo scopo:  celebrare, non documentare, la bellezza, di più, la  grandezza della natura africana minacciata di distruzione. Nick Brandt fotografa per  consegnare questa natura  alla memoria, prima che scompaia, ma  lo fa nella speranza che qualcuno si muova in tempo per preservare quel che ne rimane.
    Nick Brandt nasce nel 1964 in Inghilterra, studia pittura e cinematografia alla Saint Martin's School of Art. All'inizio degli anni 90 si trasferisce negli USA dove dirige alcuni video musicali di successo tra cui uno con Michael Jackson.
     
     
     
    Nel 1995, durante le riprese di uno di questi video (Earth Song) ambientato in Tanzania, si innamora della natura e degli animali d'Africa. Per alcuni anni cerca di trasmettere senza successo le sue sensazioni nei confronti di questa terra.
    Poi ha un'intuizione, esprimerà questo sentimento tramite la fotografia, ma una fotografia diversa.
     
    Brandt infatti sceglie di fotografare in un modo completamente diverso da quasi tutti gli altri fotografi naturalisti. Le sue immagini sono molto lontane dalla vivacità di colori e dal dinamismo che si incontra nella quasi totalità della fotografia naturalistica di oggi. 
     

     
    Nick Brandt fotografa in bianco e  nero su pellicola medio formato e non usa teleobiettivi potenti perchè, secondo lui, sono di ostacolo nel catturare l'essenza degli animali, secondo Brandt, con gli animali è come con le persone, non puoi rivelarne la personalità con un ritratto  ripreso da lontano a loro insaputa.
    Devi essere vicino, presente (viene da chiedersi cosa faccia o cosa abbia per non venire mangiato dai leoni o calpestato da un elefante, come è successo ad altro fotografo famoso, Peter Beard, che se l'è cavata per un soffio).
    Afferma di amare le "sorprese" e le "imperfezioni"  della pellicola, come la luce interagisce in modo inaspettato con il negativo.
    Secondo lui le foto troppo perfette tecnicamente non necessariamente sono migliori o più interessanti.
     

     
     
    Dal 2000 inizia il suo progetto fotografico: non documentare, ma celebrare, la bellezza, direi la grandezza, della natura africana minacciata di distruzione, per consegnarla alla memoria, prima che scompaia, nella speranza che qualcuno si muova per preservare almeno quel che ne rimane.
     
    Il suo lavoro si concretizza in una trilogia di libri i cui titoli formano in sequenza un'unica frase: "On This Earth", "A Shadow Falls", "Across The Ravaged Land" (ossia "Su questa Terra" "Si proietta un'Ombra", "Su di una terra devastata"), oltre a numerosissime mostre.
     
     

     
     

     
     

     
     
     
    Nel 2010 esasperato dal contrabbando di avorio, causa della strage degli elefanti, diviene co-fondatore della Fondazione Big Life, per la conservazione della fauna (e della natura) dell'Africa Orientale, a questo proposito scrive:"There’s little use being angry and passive. Much better to be angry and active." Ossia "serve a poco essere arrabbiati e passivi,. Molto meglio essere arrabbiati e fare qualcosa".
    Come non essere d'accordo.
     
     

     
    La "cosa"  bianca è un cranio di elefante.
     
     

     
     

     
    Nel 2016 pubblica una mostra/installazione ed un  libro intitolati "Inherit the dust" (eredita la polvere) nella quale tramite una serie di imponenti foto panoramiche documenta l'impatto umano nell'Africa Orientale luoghi dove un tempo gli animali vagavano liberi, ora non più. In ogni location, pannelli a  grandezza naturale degli animali sono sovrapposti ad un ambiente di affollamento urbanistico, fabbriche, discariche e cave. 
     
     
     

     

    Non entro nel merito dell'aspetto conservazionistico, perchè lo ritengo un argomento lungo e complesso. Mi limito alla fotografia. 
    E' mia opinione che le sue foto siano il contrario (o comunque molto differenti come approccio) di quello che normalmente si intende come fotografia naturalistica, dove l'animale in genere viene rappresentato in modo da minimizzare o se possibile annullare (o almeno si finge di annullare) la presenza del fotografo.
    Inoltre le sue foto, a mio parere, hanno un certo/elevato grado di elaborazione, non so se digitale o "tradizionale", visto che parte da una pellicola.
     

     
     

     
    Ma questo non è  un giudizio negativo, al contrario.
    Le fotografie di Brandt non vogliono essere neutre oppure accattivanti rappresentazioni della vita animale, vogliono invece essere personali, appassionate testimonianze di un patrimonio di bellezza senza eguali, che  è già in gran parte perduto e presto scomparirà se nessuno farà nulla (come ahimé ritengo probabile). Le foto di Nick Brandt non sono descrizioni, sono... grida. 
     

     
     
    I suoi animali sono fieri, maestosi  o teneri, spesso tragici in un senso shakesperiano, una grandezza sconfitta dalla avidità e dalla meschinità (o forse dalla cinica, puramente darwiniana competizione di una specie molto, molto più aggressiva di quanto farebbero pensare i sui denti poco aguzzi).
     
     
     
     

     
     
     
     

     
     
    Le foto sono per me bellissime  e se non sono "spontanee" nel senso del purismo naturalistico poco importa. Toccano il cuore (a chi ne ha uno). E questo è quel che conta.
    Sono immagini forti, mi ricordano un po' alcune della "Genesi" di Salgado però, pur condividendo a volte  la possanza, quelle di Brandt sono intrise, di tristezza. Avete mai visto l'espressione di un gorilla allo zoo? Fiera e triste, così.
     
    Silvio Renesto per Nikonland
     
     
     
     
     
     
    PS, Tutte le foto sono prese da Internet e © Nick Brandt
     
    PPS Non guardate negli occhi uno scimpanzè invece, avendo il 96% del nostro DNA, un po' della "cattiveria" umana traspare...
     
  9. happygiraffe
    Riporto qui questo articolo scritto e pubblicato da Silvio Renesto sul suo blog su Nikonland.
    Da oltre  cinquant'anni Clyde Butcher ha creato emozionanti immagini in bianco e nero dei paesaggi naturali del Nord America. Le sue fotografie trasportano chi guarda nella bellezza primordiale dei vasti orizzonti, dei panorami infiniti e nello splendore,raramente visibile, della wilderness. Le sue immagini sono coinvolgenti e ci rammentano il legame che abbiamo con il mondo della natura.

    Clyde Butcher nacque in Kansas nel 1942. Da bambino disegnava navi o ne costruiva dei modelli con scarti di ferro nell'officina di suo padre lattoniere. Prese una Laurea in Architettura alla California Polytechnic State University. Fu allora che scoprì di non essere bravo a  disegnare e così decise di imparare da solo a fotografare per poter riprodurre i progetti di architettura senza disegnarli. Non avendo i soldi per acquistare una fotocamenra se ne costruì una a foro stenopeico. 
    Negli anni sessanta vide una mostra fotografica di Ansel Adams allo Yosemite National Park, ne rimase così impressionato che cominciò a fotografare in bianco e nero. Nel 1970 lasciò l'architettura e si iniziò a far vedere le sue fotografie in mostre locali. Nel 1971 iniziò una nuova attività "Eye encounter Inc." che consisteva nello stampare e vendere le sue fotografie di panorami selvaggi degli Sati Uniticome decorazioni murali per grandi magazzini. Per aumentare le vendite iniziò ad usare pellicole a colori e fotocamere a formato 13x18cm . Il giro d' affari crebbe vertiginosamente e Eye Encounter divenne una ditta con moltissimi dipendenti. Clyde vendette l'attività nel 1977 a causa dello stress eccessivo e si mise a girare la Florida in barca a vela. Si stabilì con la famiglia a Ft. Myers nel 1980, iniziando a  vendere i suoi paesaggi western a colori e fotografie di  temi diversi.
    Nel 1984 fu portato a visitare una palude di cipressi dentro al Big Cypress National Preserve. Questo, disse, gli rivelò un nuovo mondo. L'immersione nella bellezza della palude lo convinse a ritornare al bianco e nero. 

     


    Dopo la tragica morte del figlio diciassettenne nel  1986, Clyde trovò conforto solo nella vicinanza della natura selvaggia. Decise di tagliare ogni legame con la fotografia a colori e dedicarsi unicamente al bianco e nero. Acquistò una fotocamera formato 20x25 ed un ingranditore ed ebbe inizio la sua nuova vita di fotografo.

    Oltre alle Everglades per le quali è maggirmente famoso, Butcher si è impegnato a immortalare paesaggi naturali di tutto il  mondo. 
    La qualità ed importanza del suo lavoro gli hanno guadagnato ammirazione internazionale.  Butcher ha inoltre realizzato documentari sull'ambiente della Florida e ha pubblicato numerosi libri. 


    Al di là della bellezza intrinseca delle sue immagini, ciò che distingue le opere di Clyde Butcher sono le dimensioni gigantesche delle sue stampe, unite ad una nitidezza che ha dell'incredibile. Scegliendo accuratamente il formato del negativo a seconda dellel dimensionid el soggetto, Butcher riesce a produrre stampe nitidissime di dimensioni oltre i 160x300 cm,  che permettono all'osservatore di immergersi nei suoi panorami .

     

     

     

     

     
    “Cerco di usare la pellicola più grande possibile epr il soggetto che voglio fotografare. Se ho un ampio panorama uso un formato 30x65 (circa). se devo fotografare cose come l'Orchidea Fantasma lavoro con una 20x25" racconta Butcher.

    “Voglio che la gente guardi i miei lavori da vicino” dice Butcher a proposito del suo stampare in grandi dimensioni. “Molti non conoscono quello come si vede:si vede chiaramente solo una piccola parte del tutto e in natura l'occhio scorre continuamente da un particolare all'altro e questo ci da' la percezione dell'insieme. La chiave per riprodurre questa sensazione è la nitidezza. Una stampa  di tre metri e mezzo da un negativo 35mm sembrerà nitida se si rimane a distanza 10 metri, ma se ci si avvicina ad un metro sembrerà molto scarsa. Quindi per calarsi in  un' immagine grande e vederla bene occorre che abbia un dettaglio molto elevato.
    Stampa con una Epson Stylus 4800 or una stampante 11880 con inchiostri  Ultra-chrome K3  e carta Harman Hahnemuhle.
     
     
    Nota:  Qualche mese fa  Clyde Butcher è stato colpito da ictus che gli ha paralizzato il lato destro del corpo, ma ha già ripreso a muoversi con deambulatore ed è confidente che tornerà a fotografare  quanto prima. Glielo auguro di cuore
    Tutto questo e molto altro nel sito di Clyde Butcher
    https://clydebutcher.com
    Le foto sono (C) di Clyde Butcher mostrate qui al solo scopo di  illustrare la sua opera. Photos are (C) by Clyde Butcher shown here only to illustrate his art.
  10. happygiraffe
    Fotografo controverso, osannato da alcuni, disprezzato da altri, Martin Parr ha certamente lasciato il segno nel linguaggio fotografico degli ultimi 30 anni.
    Parr è noto per aver documentato la società inglese nei suoi aspetti più bizzarri e apparentemente banali, così come alcuni aspetti della società contemporanea come consumismo, turismo e cibo, con un'umorismo e uno stile facilmente riconoscibili.
    La prima raccolta di immagini a colori fu esposta a Londra nel 1986 con il titolo di "The Last Resort". Era stata realizzata a New Brighton e scatenò interminabili dibattiti e polemiche.

     

     

     

     

     

    Le immagini di Parr hanno il potere di far sorridere, ma anche di infastidire, di far riflettere e di far riflettere su noi stessi e sui nostri comportamenti.
    La prima volta che vidi questo foto rimasi molto turbato.
    Successivamente Parr si è occupato del turismo di massa e dei suoi riti tribali e nel 1995 pubblica Small World.

     

     

     

     

     

     

     

    Dice Parr della sua fotografia:"La cosa fondamentale che esploro costantemente è la differenza tra la mitologia di un posta e la sua realtà. ...Ricorda che io faccio fotografie serie mascherate da divertimento. Fa parte del mio mantra. Rendo le immagini accettabili in modo da trovare un pubblico, ma in profondità succedono molte cose che non sono immediatamente visibili in superficie. Se vuoi vederle allora puoi vederle".
    Parr fotografa a distanza ravvicinata, usa colori molto saturi e impiega spesso un flash ad anello.
    Fotografo bulimico, le sue immagini sono innumerevoli, ma sempre intorno ad alcuni temi per lui fondamentali.

     



     

     

     

     

     
    Le sue immagini sono inconfondibili: il suo spiccato sense of humour, a volte diventa sarcasmo e ad alcuni può apparire perfino snob, ma Parr ne ha per tutti a prescindere dagli strati sociali di appartenenza.
     

     

     

     

     

     
    L'inclusione come membro permanente della prestigiosa agenzia fotografica Magnum Photos nel 1994 avvenne a seguito di un accesso dibattito tra gli altri membri. 
    Parr dichiarò che "i fotografi Magnum si sentono come in dovere di partire per una crociata...in posti con carestia o guerre...mentre io esco e giro l'angolo dove c'è il supermercato, perché questa per me è la prima linea".
    Sorprendentemente nel 2014 fu eletto presidente di Magnum Photos.
     
    In un recente lavoro del 2016 documenta una zona dl West Yorkshire conosciuta come il triangolo del rabarbaro:



     
    Per chi fosse interessato ad approfondire:
    Martin Parr - Sito Web
    Martin Parr - Blog
     
    Nota: tutte le foto qui mostrate sono opera di Martin Parr e hanno l'unico scopo di illustrare la sua opera.
     

     
     
     

     
  11. happygiraffe
    Articolo scritto e pubblicato da Silvio Renesto nel suo blog.
     
    Ho scoperto Beth Moon per caso, le sue foto mi hanno subito  affascinato. Una visione intensa della natura, a volte drammatica, a volte cupa o sognante, mai leziosa o banale. Ne ho scritto già su Nikonland, ma ne scrivo qui in modo un po' più esteso e aggiungendo delle  foto.
    Forse le sue immagini più famose sono  i  ritratti ad alberi giganteschi o secolari. 
    Un patrimonio di meravigliosa antica bellezza, spesso  minacciato, che Beth Moon ci fa conoscere attraverso la sua   sensibilità, creando immagini di forte impatto emotivo.
     

     

     

     
     
    Lei stessa nel suo sito http://www.bethmoon....ouchWood00.html scrive:
     
    "Molti degli alberi che ho fotografato sono sopravvissuti perchè fuori dal raggio della civiltà...certi esistono solo in angoli remoti del mondo...
    i criteri che uso per sceglier eun particolare albero sono principalmente tre : l'età, le dimensioni immense o la storia importante... essendo i più grandi e più vecchi monumenti viventi della Terra, credo che questi alberi simbolici  abbiano un significato più vasto in un tempo in cui la nostra attenzione è concentrata nel trovare un modo migliore di convivere con l'ambiente".

    Majesty back. Le grandi querce.
    Sempre nel suo sito Beth Moon riporta quanto sul suo lavoro scrisse Jane Goodall :
     
    "Queste anziane sentinelle delle  foreste sono tra i più antichi esseri viventi del pianeta ed è disperatamente importante fare tutto quello che è in nostro potere per farle sopravvivere...voglio che i mie nipoti ... conoscano la meraviglia di questi alberi vivi e non solo tramite fotografia... I ritratti di Beth sicuramente ispireranno molti ... ad aiutare chi lavora per salvare questi magnifici alberi".



     
    Ma Beth Moon non si limita agli alberi.  

    Odin's Cove  (la Baia di Odino) è un portfolio fortemente gotico/romantico ispirato ai corvi di Odino. 

     
    Nella mitologia norrena, Huginn e Muninn sono due corvi che volano per il mondo cercando informazioni e  portando notizie al loro padrone, il dio nordico Odino.  Escono all'alba  e ritornano la sera, si posano sulle spalle del dio e gli sussurrano le notizie nelle orecchie. I loro nomi hanno un significato: nella lingua norrena  Huginn vuol dire pensiero e Muninn memoria.
     


    I Corvi Imperiali sono grandi e stupendi uccelli;  nelle immagini di Beth Moon sono al tempo stesso malinconici e potenti, sembrano davvero  venire  dalle brume di un altro mondo. 

     
     
    Beth Moon per la stampa utilizza anche quello che lei, citando John Stevenson, chiama "Nobile processo nell'era digitale": ossia una stampa al platino, che dice di essere nota per la luminosità e ampia scala tonale, in cui l'assenza di uno strato legante (binder layer)  permette ai cristalli di platino di venire incorporati nella carta dando una tridimensionalità unica.
    Oltre non mi addentro... perchè non so di cosa sto parlando     se Michele, bontà sua, vorrà spiegarci meglio di cosa si tratta gliene sarò grato. 

     Insomma,  non perdetevi il sito di Beth Moon e godetevi le sue immagini. 
     
    http://www.bethmoon.com
     
     
    DISCLAIMER: Va da sè che tutte le foto di questo reportage sono opera e proprietà esclusiva di Beth Moon,  qui riportate solo a scopo di illustrare la sua arte.
    All the photos here shown are  by Beth Moon and she has the exclusive copyright, and are  published here only to spread knowledge about her great art.
     
  12. happygiraffe
    Piotr Naskrecki è una figura particolare nel mondo della macrofotografia: scienziato e fotografo allo stesso tempo.  Usa la fotocamera per documentare le sue ricerche, ma anche per trasmettere al mondo la bellezza delle piccole creature che ci circondano, troppo spesso sconosciute o trascurate.
    Ebbi modo di intervistarlo "telematicamente" qualche tempo fa e questo mio contributo è in parte basato sul nostro scambio di email.
    Naskrecki ha lavorato al Museum of Comparative Zoology (Museo di Zoologia Comparata) all’Università di Harvard, a Cambridge, Massachussets (USA) e all'Università del Connecticut. La sua ricerca è incentrata soprattutto sull’evoluzione degli insetti ma  è anche coinvolto in numerosi progetti scientifici e di divulgazione correlati con la conservazione delle foreste pluviali tropicali.
    Il suo interesse per la macrofotografia è iniziato una ventina d'anni fa quando la moglie gli ha regalato per Natale una Nikon N 6006 (F601).  Dall'uso della fotocamera come mezzo per illustrare gli organismi su cui lavorava al fare della fotografia  una passione il passo è stato breve. Non è interessato fotografare uccelli o mammiferi, perché trova che il piccolo mondo che ci circonda sia molto più affascinante. Attualmente usa soprattutto  fotocamere ed obiettivi Canon.
     
    Come fotografo cerca sempre di portare alla luce la bellezza di quei soggetti che  sfugge ai nostri occhi per via delle dimensioni del mondo in cui noi siamo abituati a vivere. Rendendo i soggetti più grandi del reale, Naskrecki ci porta alla loro scala, permettendoci di vedere strutture, simmetrie e forme normalmente nascoste.

    Una splendida Mantide tropicale

    Nemia,  un Neurottero tropicale

    Typophyllum un ortottero mimetico
    Nello stesso tempo cerca di ricreare la prospettiva e la tridimensionalità di questo microscopico mondo. Per questo usa spesso i grandangoli (15-35mm) con un tubo di prolunga corto, in modo da focheggiare molto vicino pur mantenendo una prospettiva ampia e notevole profondità di campo in modo da cogliere l’ambiente in cui vive il soggetto.
     

    Un ortottero del Mozambico, ambientato.
     
     
     

    Un altro ortottero tropicale
    In altri contesti usa obiettivi macro e, per soggetti molto piccoli, come le formiche lavora a rapporti di riproduzione molto elevati sfruttando il Canon MPE 65mm, che arriva a 5:1.

     
    Se vuole includere qualcosa di più del solo soggetto centrale, usa grandangoli tradizionali
    Le sue gallerie sono diverse (ma ugualmente spettacolari), rivelando posture insolite, oppure interazioni fra (minuscoli) organismi, che per  venire ripresi, richiedono abilità ed esperienza. Per ottenere questi risulta occorre una grande conoscenza del soggetto. Ogni volta che inizia un nuovo progetto fotografico, comincia documentandosi approfonditamente in quanto una buona preparazione fondamentale se si è interessati al comportamento animale. Si può persino arrivare ad osservare e documentare comportamenti che nessun altro ha mai visto prima.
    Naskrecki rimane comunque  prima uno scienziato e poi un fotografo. Usa la fotografia principalmente per documentare il suo  lavoro e come strumento educativo alla comprensione del comportamento animale e alla
    conservazione della natura.

    Raganella tropicale, Papua Nuova Guinea

    Pronto al duello... Granchio del Costarica
     
    Ma a parte la documentazione scientifica,  quando fotografa,  il  messaggio principale che Naskrecki cerca di trasmettere con le sue foto è che esiste un mondo bellissimo e complesso costituito da organismi di cui  pochissima gente sa qualcosa. Si tratta invece di membri affascinanti, coloratissimi e di fondamentale importanza per la sopravvivenza delle comunità biologiche. Spesso sono minacciati quanto  i panda e le tigri, ma ricevono poca attenzione dal pubblico e dai conservazionisti, solo perché in pochi sanno della loro esistenza. Mostrarli da vicino è il primo passo per apprezzarli e proteggerli.

    Piotr Naskrecki, (dal sito Uconn Today)
    Non perdetevi il suo interessantissimo sito:
    http://www.insectphotography.com/
    E il suo fantastico Blog:
    https://thesmallermajority.com/
     
    NOTA: Tutte le foto sono (c) di Piotr Naskrecki, qui mostrate solo allo scopo di illustrare la sua opera ad esclusione del suo ritratto, preso dal sito Uconn Today.
    DISCLAIMER: All the photos shown here are (c) by Piotr Naskrecki, published here only to illustrate his  work, apart for his portrait, taken from the site Uconn Today.
     
  13. happygiraffe

     
     
    Pur essendo una figura centrale nella storia della fotografia e specialmente nella fotografia di strada, è ancora poco conosciuto dal grande pubblico.
    Garry Winogrand rifiutava la definizione di fotografo di strada, preferiva definirsi uno studioso dell’America. E infatti si ispirò alla fotografia sociale di Walker Evans e Robert Frank, con uno sguardo però più vitale e gioioso.
    Nel corso della sua vita realizzò una cronaca quotidiana della vita metropolitana americana, specialmente a New York, città in cui è nato e vissuto a lungo (nacque nel Bronx), ma anche sulla West Coast.
     
     
    Richard Nixon Campaign Rally. New York, 1960.
     
     
    New York, 1962.
     
    Garry Winogrand fotografava “per vedere a cosa somigliavano le cose una volta fotografate”.
     
    Non fotografa a progetto, rifiutava l’intellettualizzazione del proprio lavoro. Fotografa la vita davanti a se con il suo stile unico, di cui bisogna prendere tutto: l’eleganza, la vitalità, l’assenza di volgarità, l’umorismo, così come le inquadrature sbilenche, parti di immagini sovraesposte o messe a fuoco imprecise.
     
     
    Park Avenue. New york, 1959.
     
     
    Los Angeles, 1980-1983.
     
     
    Houston, 1964.
     
     
    New York, 1962.
     
    “Quando fotografo vedo la vita. E’ questo quello con cui ho a che fare”. Il suo sguardo curioso sul mondo che lo circonda è sempre molto democratico, ironico a volte, ma mai cinico.
     
     
    New York, 1968.
     
     
    El Morocco. New York, 1955.
     
     
     
     
    Usava una Leica M3-M4, focali corte, tipicamente 28 e 35mm. Questo significa che si avvicinava molto ai suoi soggetti. Dei filmati lo ritraggono mentre passeggia frenetico per la strada, si ferma, si gira, si guarda intorno inquieto con una mimica buffissima, poi scatta a dei passanti a pochi cm da loro, sfoderando il suo disarmante sorriso.
     
    Non faceva proprio niente per nascondersi, anzi, senza che le persone fotografate si risentissero o protestassero.
     
     

     

     
     
    Qui una sua celebre foto:
     
     Central Park Zoo. New York, 1967.
     
    E il "backstage":
     
    «A volte mi sembra che il mondo intero sia un teatro per cui ho comprato il biglietto. Un grande spettacolo a me destinato»:
     
     
    New York's World Fair, 1964.
     
    E la sensazione nella foto qui sopra è che si godesse proprio lo spettacolo! Un'immagine così apparentemente banale e intrigante al tempo stesso.
    Per non parlare di questa, assolutamente cinematografica:
     
     
    Los Angeles, 1964.
     
    Stroncato nel 1984 di un tumore fulminante, lascia un archivio sterminato che continuerà a sfornare capolavori inediti ancora per molti anni.
     
     
    Democratic National Convention. Los Angeles, 1960.
     
    Winogrand scrisse a margine del suo libro del 1960 "Women are beautiful"  :
    "Io non so se tutte le donne in queste fotografie sono belle, ma so che tutte le donne sono belle in fotografia"
     
     
     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     
     
    “I think that those kind of distinctions and lists of titles like “street photographer” are so stupid.”
     
     

     

     

     

     
     
    animali e umani senza distinzione, pari dignità
     
     

     

     

     

     
     
     
    sostanzialmente ingiusto classificarlo dentro la gabbia del "fotografo di street", una definizione che va decisamente stretta ad un curioso che voleva  vedere a cosa somigliavano le cose una volta fotografate  rifiutando progetti, concettualizzazioni e intellettualità.
     

  14. happygiraffe
    Noi di VariazioniGoldberg siamo da diverso tempo estimatori dei prodotti Audio-GD. Questo piccolo apparecchio di cui parliamo oggi non ha tradito le nostre aspettative.
    L’R2R11 Mk2 è un all-in-one che comprende un DAC, un ampli cuffie e un preamplificatore sbilanciato. Si tratta di un apparecchio molto versatile, che può essere usato in varie configurazioni:
    come DAC puro e semplice, senza controllo di volume come DAC e preamplificatore con uscite sbilanciate come DAC e amplificatore per cuffie Prima di descriverne le altre caratteristiche, soffermiamoci un momento sul produttore. Audio-GD è un marchio cinese fondato da un progettista, il mitico Kingwa, che ha fatto esperienza negli USA prima di creare la propria azienda. Audio-GD è specializzato nella produzione di DAC, ma oggi il catalogo è piuttosto ampio e propone offerte di vario tipo, tutte caratterizzate da un rapporto qualità prezzo decisamente ottimo. Sono macchine dall’aspetto essenziale, ma che nascondono al loro interno componentistica di qualità. La resa sonora è sempre assolutamente lineare, da strumenti professionali, senza equalizzazioni che colorano il suono. Insomma tanta sostanza e pochi fronzoli. 
    Torniamo al nostro R2R11 mk2. Rispetto alla versione precedente, è stato completamente ripensato, al punto che avrebbe forse meritato un nome diverso.

    Il modulo di conversione D/A impiega 4 convertitori R-2R a 24 bit integrati e 2 decodificatori DSD nativi. I moduli R-2R e gli stadi di uscita analogici sono alimentati dai 3 gruppi di alimentatori puri di classe A. Per ragioni di economia e per mantenere l’architettura più semplice possibile è stata scelta una tecnologia NOS, ovvero senza sovracampionamento. Questo comporta a un peggioramento del rapporto S/N e della distorsione, cosa che porta, secondo lo stesso Kingwa, ad un suono che può ricordare quello di un valvolare o del vinile.
    Come ingressi digitali sono presenti USB, coassiale e ottico.

    Le uscite sono due RCA sul retro da collegare a un eventuale finale di potenza e un’uscita jack Neutrik con sicura sulla parte frontale.

    L’R2R11 ha sufficiente potenza per pilotare la maggior parte delle cuffie sul mercato. L’ampli per cuffie ha due livelli di guadagno: 12DB a basso guadagno per pilotare cuffie con sensibilità superiore a 95DB e 22DB ad alto guadagno. Volendo si possono aggiungere altri 6dB, inserendo due ponticelli.
    Sul pannello frontale sono presenti un display con caratteri azzurri ben visibili a distanza, la manopola del volume e tre pulsanti. I tre pulsanti permettono di selezionare l’ingresso digitale, di regolare il guadagno e di scegliere tra pre e ampli cuffia. Il display può essere anche oscurato quando non in uso
    Come suona?
    Come avete visto questo apparecchio può essere usato in diverse configurazioni. Premetto che io lo uso solo come DAC+ampli cuffia collegato a un PC. Viste le dimensioni piuttosto contenute (larghezza 240mm, profondità 280mm, altezza 85mm per 3,5Kg di peso), lo utilizzo per gli ascolti in cuffia mentre lavoro al computer. Potrebbe essere in alternativa collegato a un piccolo finale di potenza e a dei diffusori passivi. E’ dotato di un piccolo telecomando, che in quest’ultima configurazione sarebbe sicuramente molto utile.
    Tornando alla domanda di prima: come suona? Suona decisamente bene! Questo R2R11 mk2 ha un suono molto naturale e morbido, timbricamente corretto, con una ricostruzione del palcoscenico sonoro straordinaria.
    Potrei confrontarlo al suo fratellone maggiore, l’Audio-GD Master 11 Singularity che impiego nel mio impianto principale, ma sarebbe un confronto impari, perché il Master 11 è un sistema bilanciato che impiega soluzioni diverse e che si colloca in un’altra fascia di prezzo. A livello di suono, però, posso dire che hanno in comune la ricostruzione della scena sonora e l’impostazione molto neutrale.
    In conclusione, l’R2R Mk2 è una sistema molto versatile e assolutamente ben suonante. Pur collocandosi nella fascia medio-bassa del catalogo Audio-GD, non sfigura nella maniera più assoluta, anzi. 
    Oggi lo trova sul mercato ad un prezzo che oscilla tra i 680€ e i 750€. Considerandone le caratteristiche, si può affermare senza timore di essere smentiti che il rapporto qualità prezzo è assolutamente incredibile.
    Non esiterei a consigliarlo a chi lo voglia impiegare abbinato a cuffie di qualità, pur mancando di un’uscita bilanciata per le cuffie.
     
    Pro
    sistema versatile resa sonora molto musicale palcoscenico  rapporto qualità prezzo Contro
    non è compatto come altri sistemi DAC-Ampli cuffia non ha uscite bilanciate, ma questo lo sapevamo dall'inizio tecnologia senza sovracampionamento con i relativi pro e contro (distorsione elevata)  
    Per le caratteristiche tecniche dettagliate, rimando al sito di Audio-GD: http://www.audio-gd.com/R2R/R11MK2/R11mk2EN.htm
    Per chi fosse interessato, Audio-GD è distribuita in Italia da Spirit Sound: http://www.spiritsoundstore.com
  15. happygiraffe
    Mozart, sonate per pianoforte K.280, K.281, K.310, K.333.
    Lars Vogt, pianoforte.
    Ondine, 2019.
    ***
    Le sonate per pianoforte di Mozart non sono probabilmente quanto di meglio il genio di Salisburgo abbia composto, ciò nonostante alcune di esse sono dei veri e propri gioielli e, nella loro apparente semplicità, rappresentano comunque una sfida per chi li esegue, che si trova costretto a scegliere delle linee interpretative ben precise.
    C’è chi le suona mettendo in evidenza l’aspetto rococò, elegante e lezioso, chi invece accosta all'equilibrio neoclassico delle raffinatezze timbriche che forse sarebbero più appropriate per Debussy.
    Il pianista Tedesco Lars Vogt, che qui esegue le sonate K.280, K.281, K.310 e K.333, segue un approccio più diretto e vivo, grazie anche a qualche libertà espressiva, e riesce a caratterizzare molto bene il diverso carattere di ognuna di queste sonate.
    Nella K.280, che risente ancora dell’influenza di Haydn nei movimenti veloci, ci stupisce il lungo Adagio per l’intensità emotiva e il senso di profonda tristezza che Vogt riesce a imprimere al brano.
    Se la K.281 scorre più spensierata, è la K.310 il cardine del disco. Vogt ne fa emergere con grande immediatezza l’elemento tragico, come poche altre volte ho sentito, pur mantenendo quell'equilibrio delle emozioni così tipico della musica di Mozart. Questa è la prima tra le sonate di Mozart in tonalità minore e deve il suo carattere così insolitamente concitato sia alle difficoltà del suo soggiorno parigino nel 1778, segnato anche dalla morte della madre, sia anche al desiderio di adattarsi, alla sua maniera, a uno stile musicale più drammatico in voga in quegli anni a Parigi.
    La K.333 è gioiello di grazia, eleganza e fantasia, con l’allegretto finale che prende a modello lo stile del concerto per pianoforte e orchestra.
    E' un disco che ho trovato molto convincente, con Vogt bravissimo nel far parlare in maniera diversa ciascuna della quattro sonate, ma sempre in modo vario e molto naturale, senza mai essere eccessivamente cerebrale o sofisticato. Difficilmente ascolto più di due sonate di Mozart di fila senza avvertire un po’ di noia, ma qui le cose sono andate molto diversamente e arrivato alla fine del disco l’ho riascoltato dall'inizio con molto piacere!
    Buona la qualità dell’incisione, disponibile anche in formato liquido a 48/24, e interessante anche il libretto, che contiene un’intervista a Lars Vogt su queste quattro sonate.
     
  16. happygiraffe
    Chanson d’amour, melodie di Debussy, Ravel, Fauré, Poulenc per soprano e pianoforte.
    Sabina Devieilhe, soprano, Alexandre Tharaud, pianoforte.
    Erato 2020
    ***
    Avevamo lasciato Sabina Devieilhe alle prese con le cantate italiane di Handel in uno dei dischi più belli del 2018 e ora la ritroviamo in un bellissimo recital di melodie francesi di Debussy, Ravel. Fauré e Poulenc, accompagnata da un pianista d’eccezione, Alexandre Tharaud. 
    Intendiamoci, di dischi così (melodie francesi a cavallo tra ‘800 e ‘900, titolo e copertina ammiccanti) se ne vedono tanti e non c’è cantante francese che si rispetti che non ne abbia uno a catalogo (vedasi Natalie Dessay, Sandrine Piau, Véronique Gens, Patricia Petibon) ed è giusto che sia così perché il repertorio di quel periodo è talmente bello, ricco, vario che sarebbe un delitto non approfittarne.
    La Devieilhe ce ne aveva già dato un assaggio gustoso in Mirages del 2017.
    Qui Devieilhe e Tharaud costruiscono il loro recital intorno alle 5 Mélodies populaires grecques di Ravel e alle 6 Ariettes oubliées di Debussy, contornandole di tanti altri brani degli stessi Debussy e Ravel, così come di Fauré e Poulenc. 
    Sono arie spesso brevi, sintetiche, folgoranti, ricche di pathos come di umorismo, commoventi o divertenti, dove l’inventiva e la sensibilità dei due danno il meglio nel rendere la raffinatezza, la grazia e la varietà di emozioni di questa raccolta.
    Ma su tutto troneggia la voce incredibile di Sabine Devieilhe, ormai da tempo considerata l’erede della Dessay. Una voce limpida e pura, delicata come un flauto dolce, dove la leggerezza è compensata una freschezza e una naturalezza da togliere il fiato (a chi ascolta!). Devo ammettere che l’ascolterei volentieri anche se cantasse l’elenco del telefono!
    Tharaud è un accompagnatore attento e raffinato e l’affiatamento tra i due è evidente e non risale a questo disco.
    Se volete regalarvi un’ora di felicità, non posso che consigliarvelo.
     
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